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Il riposo del dopo desinare

 

Il brano che segue è tratto da L’imitazion del vero di Ezio Sinigaglia (Terrarossa Edizioni, 2020)

di Ezio Sinigaglia

Or non può dirsi che Nerino innocente effettualmente non fosse. Ma l’innocenza sua non poteva far di sottrarlo alle leggi di natura, la quale pei suoi imperscrutabili fini ha stabilito ch’in quell’età appunto in cui Nerino era anche i più innocenti fanciulli prendan di confusi ardori ardentemente nella carne a bruciare. E poiché ha fatto ancor nel suo perfetto equilibrio la natura ch’ad ogni morte una vita e ad ogni ombra una luce e ad ogni fuoco un’acqua corrisponda, agevolissima cosa è pei fanciulli il trovar l’acqua in sé medesimi ch’il fuoco donde sovente avvampano ha la virtù per alcun tempo d’estinguere. Talché, pur nella sua innocenza, aveva anche Nerino facilmente la fonte di quell’acqua trovata e con piacere grandissimo ad essa sovente s’abbeverava.

Chiudevan Mastro Landone e Nerino a mezzodì la bottega, e in una stanzuccia che la bottega stessa dall’officina separava sedevano insieme a desinare, dove Mastro Landone più assai di bellezza che di vivande si nutriva. Di poi tornava questi per alcun tempo a casa a riposare prima di correre alla reggia, mentre Nerino alla bottega restava. Ma, non dovendo riaprir l’uscio ch’alle due dopo il mezzodì, era solo in quell’ora e, com’è dei fanciulli, era l’esser solo al divampar di quel fuoco naturale alimento. Onde, già il primo giorno, uscito che fu Mastro Landone, pigliò tosto Nerino nella persona alquanto a riscaldarsi e, in pochi istanti, nelle fiamme stava. E, forse per aver mangiato assai più di quanto nella sua povertà solesse, più assai dell’usato la sua carne bruciava. Sì che, dal bisogno guidato, e nel silenzio strano dell’ignota officina addentrandosi, e nel progetto del suo peccato il cuore forte forte come giammai per l’innanzi battendogli, cercava da per tutto un cantuccio ch’alle sue membra ardenti potesse dare graziosa accoglienza. Ed in fondo all’officina un ripostiglio scoperto ove alcuni materassi stavan l’un sull’altro ammassati, dai suoi panni siccome un pulcino dall’uovo con tre soli gesti sgusciato, ignudo sull’avventurato giaciglio si gettò ed il mondo della sua tenera carne prese ansioso a esplorare. Trovò ch’il luogo maravigliosamente al suo diletto si confaceva, ed ogni giorno dopo desinare lietamente tornò a visitarlo. Facevano in effetto quei materassi eco ai suoi moti, sì che sopra l’onde pareva di galleggiar navigando. Credevasi Nerino veleggiar solitario verso una terra ignota, donde grandissima paura sentiva, ma d’essere il primo a scoprirla aveva egli ancor più grandissima e imperiosissima brama. Caldo e umido, il vento di mezzogiorno le vele del suo continuato soffio enfiava e sulla pelle umido e caldo passava. Sul mare una bruma sì fitta era d’intorno discesa che cieco al tutto il suo navigar n’era fatto. Gli occhi Nerino alla luce avidamente riapriva, nel suo smarrito terror la rotta cercando, e la sua pelle, nella penombra segreta, risplender com’un fulgente metallo vedeva. Gli occhi allora richiusi, si rifacevano il mare e la bruma, ma tosto di tra la bruma la terra foscamente affiorava, ed il piacer sopra i minuscoli sospiri suoi immenso s’ergeva. Così, in quell’ora che più d’ogn’altra alla voluttà inclina, mentre Mastro Landone vanamente cercava il riposo e vanamente anche a imaginar si poneva come potesse di Nerino coglier la soave bellezza senza cagionar d’amendue la rovina, Nerino nell’officina di Mastro Landone liberamente della propria soave bellezza prendeva diletto.

Accadde ora un dì che, all’ora usata, imbarcatosi già Nerino pel suo viaggio, Mastro Landone, la sua strada verso casa facendo, si sovvenne d’un tratto d’una macchina, ch’aveva lasciata a palazzo il dì innanzi incompiuta a cagion d’un certo arnese ch’all’officina era rimasto. Onde, sui proprii passi con contraria fronte venendo, alla bottega tornato, la chiave nella toppa pose e l’uscio con quella ad aprir prese che Nerino aveva com’ogni giorno col paletto dall’interior richiuso. E, nel far questo, quel certo rumor produsse ch’un paletto, nel far la sua corsa di foro in foro a ciascun giro della chiave, immancatamente saltando produce. Al qual rumore, la dolce navigazion di Nerino in naufragio subitamente fu volta e, se vi fossero veramente stati flutti d’intorno in fondo ai quali le sue membra ignude celar potesse, senz’in­dugio si sarebbe egli lasciato nei flutti annegare. Ma non abissi, né oscurità veruna essendovi, che di nasconder la vergogna sua complice s’offrisse, fu Nerino dalla terribil necessità in cui versava condotto a tal segno che, com’è sovente degli stati di necessità e di terrore talento, l’impossibile ad inverarsi persuase, e dentro i panni, donde in tre soli gesti com’un pulcino dall’uovo era uscito, in tre soli gesti com’una rondine nel nido ritornò. Sì che ad un padrone che l’amor tanto studioso delle sembianze del garzon suo non rendesse sarebbe in cotal portentosa maniera riuscito Nerino il suo segreto a mantener celato. Ma già veniva Mastro Landone in sui suoi passi laudi cantando all’obliato arnese che di veder Nerino una volta più dell’usato la potestà quel giorno gli offriva e, nel venire, già nel pensier si dipingeva il fanciullo ad alcuna cosa nell’ora del riposo intento: era forse nel sonno soavemente caduto, sì che potuto avrebbe Mastro Landone senza pudor sedersi a rimirarlo e di passar le dita sul fulgor della pelle, fra l’orecchio ed il collo, trovato avrebbe nell’ombra e nel silenzio virtù; o forse lieto in alcun fanciullesco trastullo stava allora Nerino, o forse nel tedio assiso e, chissà, all’apparir del padrone, d’allegrezza si sarebbe il suo volto nella sorpresa illuminato; o forse della madre lontana sentiva in quell’ora il gaio Nerino acerbamente l’assenza, e mesto languiva in un cantuccio dove, a confortarlo accorso, lo avrebbe Mastro Landone lungamente fra le lacrime cullato. E insomma, gli occhi coi quali a lui il suo padrone veniva erano occhi ch’avevan di Nerino e del suo fare e del suo dire tanta curiosità e vaghezza, ch’una macchia di pece ch’al desinar non vi fosse avrebber tosto sul suo grembiule notata.

Or, del grembiule suo, allor che Mastro Landone sulla soglia dell’officina si fece onde Nerino ritto presso il giaciglio in grandissima agitazion gli apparve, non v’era più traccia veruna, se non che, a guardar meglio, lo vide Mastro Landone sull’impiantito gettato in guisa sì confusa come si fa d’una veste che per alcuna cagion più lestamente assai dell’usato abbandonar si vuole. E la camicia, incompiutamente dalla cintura accolta, sopra i fianchi un involto di tal foggia faceva da suggerir ch’il fanciullo, nella dispensa a rubar sorpreso, avesse in gran premura una salsiccia fra i panni celata. E dei calzoni avevan malamente i bottoni l’occhielli loro trovati, onde un’obliqua piega s’era in quel punto fatta ove lo sguardo di Mastro Landone contro la volontà sua s’era posato. Sì che non men chiaro lesse in Nerino Mastro Landone che se su quei materassi l’avesse ignudo a navigar sorpreso. «Oh, Mastro Landone, – gridò Nerino con tremante voce – voi già qui di bel nuovo?» Ed era da per tutto la sua faccia sparsa di fiamme, ch’ancor più dell’usato lo splendor della pelle nella penombra corruscar facevano. A tanto ardor, ch’il suo raddoppiava, dovette Mastro Landone la vista sottrarre, e nel cassetto ove quel certo arnese cercar doveva tosto la nascose. E, senza punto guardar Nerino, il ritrovato arnese nella mano con disperato vigor stringendo, la voce buttò di fuori, la quale, per la commozion sua dissimulare, uscì fredda tanto che d’una di quelle macchine che d’intorno stavano uscir pareva: «Son dolente – disse – d’averti al sonno col mio venir sì improvvido strappato. Ma pur questo arnese m’era troppo di mestieri. Or ti lascio.» Parve a Nerino buona cosa che Mastro Landone al suo sonno così pianamente credesse, ma terribilissima cosa insieme quel­l’inaudita voce gli parve e, pensando ch’il suo padrone del suo dormir senza permesso adirato si fosse, ed il suo padrone adirato contro a lui non volendo, e parendogli anche ingiusta quell’ira, e desiderando all’usata dolcezza piegarlo, a parlar nel suo turbamento e nell’affanno del respiro si costrinse. «Ecco, sì, appunto. – balbettava Nerino – Come voi, signore, come, Mastro Landone, voi diceste. Col vostro permesso, Mastro Landone, io, invero, sopra a que’ materassi, se a voi non pare, disdicevol cosa, riposo un poco, dopo desinare.» E, con questi balbettamenti, a manifestar la dolcezza donde giammai separato s’era Nerino facilmente Mastro Landone piegò. Il quale, fattosi al suo garzone accanto, una carezza sulle fiamme del viso gli passò che tutta d’amor tremolava, ed alla voce usata tornando, sorridendo disse: «E che, Nerino, il mio permesso per dormir ti fa mestieri in quest’ora ch’al riposo è destinata appunto? Tu dovevi al contrario pel mio venir non levarti, ma a giacer come per l’innanzi seguitare, onde di poi il sonno più pianamente ritrovato avresti. Ed anzi, a codesto mi sono or or risoluto: ch’un dei dì prossimi faremo d’apprestar pel tuo riposo un più conveniente giaciglio.» E dal sorriso che l’infocato viso di Nerino a così dolci parole rischiarò, la rossa luce in bianca volgendo, si ebbe Mastro Landone al suo venir premio più grande assai di quel che nel venir sperato aveva.

 

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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