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Pandemia: lo Stato dell’Arte

Un’idea di teatro

di Marco Gobetti

con E-Loquenze

di Paolo Musio

 

 

 

Cosa ho sognato, stanotte? Ormai lo ricordo solo a sprazzi, speriamo che serva comunque a qualcosa. Quello che è certo è che nel sogno il nuovo DPCM, per fortuna, entrava in vigore il mattino dopo e io, quel mattino stesso, cercavo al volo il nuovo modulo di autocertificazione su internet e lo compilavo con il primo indirizzo utile a muovermi al di fuori delle precedenti possibilità. Generalità e indirizzo dei miei genitori: Cimitero Comunale, Viale San Giacomo, cap…, città…, provincia (non do, qui, i dettagli precisi). Infilo l’autocertificazione in “Dei Sepolcri” di Ugo Foscolo – credo per dare maggiore credibilità a quanto dichiarato, i sogni son strani, si sa – e salto in macchina. Neanche un chilometro e trovo un posto di blocco dei carabinieri: mi fermano. Consegno “Dei Sepolcri” con modulo incluso: non l’avessi mai fatto! Uno dei due lo prende per una minaccia di morte e mi ficca sotto il naso la canna della mitraglietta; il profumo è inconfondibile: cioccolato fondente 70% al peperoncino. Addento, succhio e lecco la canna sino a distruggere la camera di scoppio. In mano al militare restano manico e otturatore, è basito. Il secondo militare, nel frattempo, aveva estratto la pistola d’ordinanza e saltellava dietro al collega cercando la giusta angolatura per spararmi senza farlo secco; io ingrano la marcia e parto sgommando. Dal finestrino lo vedo dilatare le gambe, puntare e sparare; ma la pistola, probabilmente tenuta in mano troppo a lungo e surriscaldata oltre misura (capita), gli esplode in mano; prima di dileguarmi scorgo chiaramente il volto del carabiniere farsi nero di cioccolato liquefatto. Salto la visita dai congiunti al cimitero per dire cosa è successo dopo.

 

Semi, spore, propaguli

Appena tornato in macchina vado sul web dal cellulare (volevo appunto chiarimenti sul significato del termine “congiunto”, metti mai che bastasse avere toccato, o dato la mano in passato a qualcuno, per potere compilare un’altra autocertificazione) e trovo la rete impazzita: incredibilmente, la presa di posizione della CEI, che ora denuncia addirittura la violazione della libertà di culto, pare avere risvegliato nella cittadinanza la coscienza di tutte le altre libertà violate… Intere categorie di lavoratori e cittadini si domandano perché per produrre “cose” e garantire il PIL, doverosamente protetti, si possa andare ovunque e perché non sia possibile praticare, doverosamente protetti, qualunque altra attività che faccia capo a imprescindibili – o addirittura inalienabili – diritti costituzionali. Tutti paiono avere dimenticato l’invito del Presidente a rimanere cittadini perbene. Tutti, a doverosa distanza di sicurezza e ben mascherati – dunque assai poco identificabili – scendono in piazza, in quantità tali che risulta difficile fare contravvenzioni o controllare le autocertificazioni; alle forze dell’ordine saltano così i nervi ovunque e i militari, nel tentativo di sparare sulla folla, si imbrattano rovinosamente il volto di cioccolato impugnato troppo a lungo.

Nel frattempo – ascolto ora dalla radio, partendo – nascono persino rivendicazioni da parte di categorie di lavoratori escluse da ogni considerazione nel discorso serale del Presidente; sento di miei colleghi attori che si sono riversati in strada a protestare e si dichiarano pronti a recitare anche sulle piazze, dove è più facile garantire le distanze di sicurezza, basta che il Governo o chicchessia garantisca un cachet. La confusione è tanta… Ma, parallelamente, pare si verifichi almeno un blackout totale dello streaming teatrale gratis et amore Dei: pare si siano tutti accorti che lo streaming suggerisce malsani pensieri in un Ministro della Repubblica, il quale comincia a scambiare i teatranti per gioiosi pauperisti, mecenati di sé stessi votati all’intrattenimento di cittadini perbene. Così, almeno, gracchia una radio libera… e allora imbocco uno svincolo e sfreccio verso la prima grande città che mi capita a tiro: voglio scendere in piazza mascherato. Anch’io. Chissà mai che serva a qualcosa. E, soprattutto, la protesta enorme e pacifica è confortata dalla natura ormai mangereccia delle armi che, sciolte come neve al sole, servono solo più a imbrattare le mani e il viso di chi tutela la sicurezza nazionale.

La protesta aumenta: mi perdonerete se, nel sogno, mi sono concentrato sulla categoria che mi riguarda, ma vi assicuro che – da ciò che leggevo online, giunto in città e sceso dalla macchina – la rivolta stava investendo ogni ambito sociale.

Ecco, accade ora che le richieste dei teatranti abbiano risposte immediate: i sogni sono strani, si sa. Ma effettivamente stava succedendo qualcosa di incredibile, che non poteva non sensibilizzare l’intera classe dirigente e quella datoriale, imprese teatrali private e teatri stabili inclusi: migliaia di teatranti (attori, tecnici, sarte, direttori di scena ecc.) – molti di loro autori delle discussioni e dei gruppi nati online in occasione dell’emergenza epidemica – si erano, in poche ore, iscritti in massa ai sindacati di categoria; pare avessero capito che tale mossa poteva servire ad aumentare la rappresentatività del sindacato e, conseguentemente, la sua autorevolezza nei confronti delle categorie produttive e del governo; e che non è mai proficuo fermarsi ai giudizi su quanto “ha fatto” oppure no un’organizzazione di categoria e, solo su questa base, scegliere di farne o non farne parte.

Un post a caso di uno di loro, online:

«Iscriversi a un sindacato significa anche – o soprattutto – potervi creare un fermento vitale, rimpolparne le fila, accrescere le possibilità future di confronto interno ed esterno; e, conseguentemente, la maturità di deleganti e delegati. Ben vengano le riflessioni di gruppo e gli spiriti associazionistici nati sull’onda esclusiva dell’emergenza attuale; ma queste stesse energie (senza assolutamente zittire il confronto eterogeneo sulle piattaforme web) potrebbero pure innervare di forze fresche un’organizzazione che garantisce una capillarità consolidata sul territorio e un’interlocuzione già avviata con le altre parti sociali. Se tutte le lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo, da quelle/i al primo contratto a quelle/i di lungo corso che ancora non lo avessero fatto, aderissero a un’organizzazione sindacale, forse il primo risultato sarebbe che si cancellerebbe davvero il silenzio pesante che ci riguarda; e si fugherebbe almeno un po’ il rischio di paventate, recenti derive o immobilità. Credo che non bastino più, ora, le voci dei singoli; perché, seppur in buona fede e meritevoli di riconoscenza, rischiano di perdersi, dopo qualche giorno, nel magma della comunicazione di massa: occorre dimostrare una volontà reale di collaborazione, che superi ombre di pensieri unici e generici richiami a “bellezze” da difendere. Chissà che non possano, così, trarne giovamento in futuro anche utili “discorsi a parte”, capaci, in primis, di non prescindere dal passato e di affrontare inevitabili e proficue implicazioni poetiche; e chissà che pure le organizzazioni datoriali non sappiano, parallelamente, accogliere con sempre maggiore responsabilità l’eterogeneità della filiera produttiva. Non è neppure trascurabile, tra l’altro, la variazione di sguardo che potrebbe derivarne, nei nostri confronti, proprio da parte dei lavoratori di altri settori. La storia ci insegna quanto le reciproche sensibilità, in ambito sociale, risultino vincenti, soprattutto nelle difficoltà».

E succede, appunto, l’impensabile: proprio mentre i teatranti sollecitano a gran voce da tutte le piazze l’intervento dei datori di lavoro al loro fianco, perché premano sul governo affinché siano riaperti i teatri oppure – minacciano – reciteranno solo più in strada e solo se pagati almeno il doppio del minimo sindacale a giornata (dicono proprio così); proprio in quel preciso istante, il Presidente del Consiglio dei Ministri, coadiuvato da quattro staff di esperti (aumentati nel frattempo), accoglie la richiesta della CEI e ammette l’esistenza della violazione dell’esercizio della libertà di culto nell’ultimo DPCM: consente dunque l’apertura delle chiese per le funzioni religiose, con le dovute precauzioni sanitarie. Accade allora che tutte le associazioni datoriali in campo teatrale, a partire da FederVivo, abbandonati gli abiti perbene, invitino ad aprire i teatri per protesta: «Perché le chiese sì e noi no? Noi possiamo garantire entrate contingentate, né più che meno delle chiese!». E la CEI, ancora una volta, diventa inconsapevole motore di rivolta: le infinite prese di posizione politiche che appoggiavano la CEI si accaparrano le nuove proteste, provando demagogicamente a cavalcarle; si narra in rete, che il Presidente della CEI sia svenuto più volte nelle ultime ore.

Paesaggio con figura

Per quanto riguarda il teatro, la situazione si fa incandescente: almeno metà dei manifestanti dichiara che la riapertura dei teatri non basta e che non abbandoneranno le piazze, unico luogo in cui d’ora in avanti reciteranno, pretendendo con ogni mezzo la debita retribuzione.

Incredibilmente, il direttore di un Teatro Stabile dichiara di volere intrecciare l’attività su strada degli attori ribelli a quella in sala, intravedendo la possibilità di trasformare l’ostacolo in una opportunità di rinnovamento. Mentre corre voce che il direttore in questione sia stato sottoposto a un TSO forzato e portato in un luogo sconosciuto, compare un suo nuovo post sui social, in cui afferma:

«Il teatro ha il dovere di “conquistare” il suo pubblico, stimolandone la sensibilità, non attendendolo solamente nei luoghi deputati e ibridandosi con le più svariate sfere delle arti e della conoscenza e con ogni area della socialità. Per fare questo, occorrerà che armonizziamo le ragioni produttive con quelle ragioni avventurose, “irregolari”, che sono espressione irragionevole – mi perdonerete l’ossimoro di ritorno – e imprescindibile della natura più profonda del teatro, riconducibile all’ancestrale specifico teatrale. Il problema è a monte. Sono convinto, infatti, che occorra appunto guardare alla crisi precedente del sistema teatrale, di cui la situazione attuale favorisce l’aggravarsi. La “produttività” non può escludere la provvisorietà e l’apertura verso una produzione e una programmazione che interpretino un reale “movimento” culturale. So che questo inciderà sulla natura stessa degli spettacoli, ma lo si potrà fare contaminando la produzione “normale di spettacoli”, non necessariamente sostituendola. Si potrà preservare qualunque forma, moltiplicandone i contenuti per calarli in nuove forme; sino a portare a uno, cento, mille “travasi di genere” paralleli. In questo senso – lo scrivo a mo’ di esempio – un unico attore, con il “Teatro di riciclo” (esperimento interessante di cui ho letto in rete), potrà fare vivere uno spettacolo imponente, che non c’è più, semplicemente evocandolo in un’ora tramite la narrazione e la locandina mostrata. E lo potrà fare ovunque. Ciò potrà essere fatto anche da un musicista, un pittore performer, un danzatore, un medico, un letterato (a seconda della natura dello spettacolo e delle scintille culturali che lo costellano); ma dirò di più: potrà essere fatto anche per uno spettacolo che contemporaneamente venga tuttora realizzato in teatro, dove, per i posti limitati a causa del distanziamento, necessariamente sarà replicato sino a quattro volte al giorno, in orari anche inconsueti. Il “teatro di riciclo” di quello stesso spettacolo, portato in bar, librerie, strade, piazze, biblioteche da bande di attori, artisti o studiosi che agiscano singolarmente, in simultanea ai turni delle repliche in teatro, potrà creare volano per le repliche stesse, generare interesse inedito (garantito dal “travaso di generi”) e addirittura diventare stimolante mezzo di approfondimento per chi quello spettacolo avrà già visto. Ecco che in questo modo la crisi epidemica avrà almeno una ricaduta positiva, incoraggiando un movimento culturale nuovo, o almeno rinnovato; favorirà inoltre l’accrescimento culturale dei singoli artisti e della cittadinanza; oltre che la nascita di nuovi linguaggi che non prescindano da un tessuto culturale eterogeneo, fucina di proficue discontinuità. Creiamo un decentramento che, pur non radicato, faccia leva su quel bisogno che è il minimo comune denominatore culturale della cittadinanza: il bisogno di tornare a scoprire, praticandoli, i meccanismi della nascita del pensiero e dell’emozione, belli o brutti che siano (valgono le infinite gradazioni intermedie). Mi rivolgo ai miei colleghi, direttori di Stabili e di imprese private: assumiamo gli attori ora ribelli per impegnarli nelle azioni teatrali (parallele alla programmazione in sala) in ogni luogo della città, calmieriamo e armonizziamo i costi di produzione, quadruplicando, almeno, le quote di denaro da fondi pubblici destinate all’assunzione degli attori; chiediamo ai registi di scendere eccezionalmente a patti immaginifici con il pubblico, che, comunque, già dovrà farsi una ragione della mascheratura degli attori. Distribuiamo agli spettatori il prologo dell’Enrico V di Shakespeare insieme agli abbonamenti e ai biglietti e, per un anno, usiamo solo materiale di recupero per realizzare le scenografie. Con i soldi risparmiati, assumiamo disoccupati per praticare un trovarobato sfrenato e giovani attori per creare doppi cast per ciascuno spettacolo prodotto, così da garantire le quattro repliche giornaliere per ogni tenuta su piazza. Chiediamo poi alle istituzioni di pareggiare, almeno, l’incidenza dei parametri poetici con quella dei parametri economico-produttivi negli indici di valutazione di ogni bando di sovvenzionamento; e di implementare o creare ex novo sostegni mirati al teatro amatoriale, per creare spazi di ricambio e di confronto reale con il teatro professionistico ed eliminare il limbo di compagnie e attori senza un’idea di teatro, nati solo per scimmiottare un professionismo a sua volta spesso svuotato di ogni profondità culturale. Ritroviamo noi, un’idea di teatro».
E ora che alzo gli occhi e fuori albeggia, mi rendo conto che non ho sognato proprio niente, perché non ho preso sonno, nella notte fra il 26 e il 27 aprile 2020.

E corro a cercare informazioni sul web, per raccapezzarmi: il nuovo DPCM è già in vigore o dovremo aspettarlo una settimana?

Marco Gobetti, 27 aprile 2020

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3 Commenti

  1. Sogno o veglia, non fa differenza. Il tuo funambolico racconto descrive con efficacia la nostra realtà.

  2. Una boccata d’aria fresca. Grazie a Paolo, anche, come sempre eccelso. E che gioia rivedere il teatro Idiòt, dove abbiamo visto tante cose splendide!

I commenti a questo post sono chiusi

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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