Love story board
L’altro amore
di
Maria Luisa Putti
illustrazioni di Francesca Putti
C’è un luogo oscuro dell’anima in cui i sogni sono inghiottiti dalla paura. È lì che finisce l’amore. Volevo partire. Nulla mi tratteneva. Sentivo il caldo dell’isola come una prigione. Invadeva il mio respiro.
Senza dire niente a nessuno salii su un treno, poi su un aereo, su un altro treno e così di seguito, finché non mi resi conto che non c’era scampo dai pensieri.
Mi fermai in un paesino dal nome straniero. Affittai una casa sul lago. I pavimenti di legno e un pianoforte al centro del salone. Non suonavo da settimane e guardavo la tastiera come una nemica. Mi era ostile.
La musica era stata il mio inganno: promesse mai mantenute, ore spese a cercare ossessivamente quel suono. E il pensiero di lei, che avevo mandato via.
Scesi in strada; l’odore di roba da mangiare, i gas di scarico, il profumo dei fiori mi stordirono. C’erano donne che lavavano i piatti sui marciapiedi e bambini in bicicletta.
Entrai nel mercato pieno di colori e di rumori. Presi del riso e mi lasciai convincere da una ragazzina bruna che vendeva ogni tipo di spezia a comprare cose che non avrei usato mai.
Al banco accanto al suo, un uomo esponeva collane e anelli di argento lavorato come un ricamo. C’era un bracciale, di quelli alla schiava. D’un tratto pensai alle sue mani, i polsi sottili, la pelle dorata d’estate: avrei voluto vederglielo addosso.
Le dissi che l’amore non basta: «Forse può bastare ai ragazzini, ma noi, con l’amore, dove credi che andremo?» Lei mi guardò con i suoi occhi smarriti e increduli. Poi si voltò e uscì dalla stanza.
In quel momento mi sentii quasi sollevato: ero libero. Ora vorrei che fosse di nuovo accanto a me, ma non la so cercare.
La casa dei miei genitori affacciava sul mare, e quand’ero bambino, d’inverno, seduto al pianoforte, mi incantavo a guardare dalla finestra le onde infrangersi sugli scogli: il rumore della risacca mi teneva compagnia.
D’estate invece vedevo i compagni tuffarsi e giocare, ridere felici senza pensieri e avrei voluto raggiungerli, sentirmi anch’io leggero. Ma in me c’era una voce che mi chiamava:«Vieni qui, non la senti questa musica? Non senti com’è bella? Vieni a suonare!». Il metronomo era come un soldatino che per mano mi conduceva lungo la strada che avrei seguitato a scegliere, la sentinella che vegliava sui miei desideri di ragazzo. Non seppi mai tradire quella voce; non volli farlo mai.
Aggredii la tastiera con rabbia. Le note correvano veloci. Ero solo. Non pensavo a niente. D’improvviso però i ricordi si insinuarono.
Lei indossava un vestito leggero, di un azzurro chiaro, con tanti fiorellini bianchi simili a piccole campanule. Con un dito tracciava il percorso di un viaggio immaginario: «Dovremmo andarci in macchina, o in moto». «Sogni troppo».«Ma i sogni vanno fatti in grande! Ci pensa la realtà a ridimensionarli!».
Imboccai una strada piena di vento, l’oceano mandava il profumo del mare, l’immagine vista mille volte di gente che arriva a ondate, fuggita da chissà dove, per provare a vivere.
Camminai finché il sole non si fece rosso dietro le case, dopo il ponte. L’aria era dolce di primavera. Una donna dai capelli biondi e lunghissimi chiuse la saracinesca di un negozio, le passai accanto, mi sorrise.
È il senso delle occasioni perdute che mi fa così male ora: le cose che avrei potuto fare con lei e che ho buttato via. Ma forse tornerà il futuro che immaginammo insieme, e forse sarà di nuovo bello, ora che i sogni sono grandi e vicini, e mi sembra di sfiorare l’infinito.
Chiudo gli occhi e vedo le strade alberate, i campi, i teatri, i cortili, le chiese della mia terra, il nostro mare.
Il suo viso è impresso nella mia mente, o forse è davvero lei, fra quella gente che in piedi ci applaude. La macchina ha il tetto scoperto. La strada è dritta davanti a noi, lucida di sole, con gli alberi e i fiori che si affacciano ai bordi. Siamo pronti. Partiamo.
L’altro amore
di
Maria Luisa Putti
C’è un luogo oscuro dell’anima in cui i sogni sono inghiottiti dalla paura. È lì che finisce l’amore.
Volevo partire. Nulla mi tratteneva. Sentivo il caldo dell’isola come una prigione. Invadeva il mio respiro.
Senza dire niente a nessuno salii su un treno, poi su un aereo, su un altro treno e così di seguito, finché non mi resi conto che non c’era scampo dai pensieri.
Mi fermai in un paesino dal nome straniero. Affittai una casa sul lago. I pavimenti di legno e un pianoforte al centro del salone. Non suonavo da settimane e guardavo la tastiera come una nemica. Mi era ostile. La musica era stata il mio inganno: promesse mai mantenute, ore spese a cercare ossessivamente quel suono. E il pensiero di lei, che avevo mandato via.
Scesi in strada; l’odore di roba da mangiare, i gas di scarico, il profumo dei fiori mi stordirono. C’erano donne che lavavano i piatti sui marciapiedi e bambini in bicicletta. Entrai nel mercato pieno di colori e di rumori. Presi del riso e mi lasciai convincere da una ragazzina bruna che vendeva ogni tipo di spezia a comprare cose che non avrei usato mai. Al banco accanto al suo, un uomo esponeva collane e anelli di argento lavorato come un ricamo. C’era un bracciale, di quelli alla schiava. D’un tratto pensai alle sue mani, i polsi sottili, la pelle dorata d’estate: avrei voluto vederglielo addosso.
Le dissi che l’amore non basta: «Forse può bastare ai ragazzini, ma noi, con l’amore, dove credi che andremo?»
Lei mi guardò con i suoi occhi smarriti e increduli. Poi si voltò e uscì dalla stanza.
In quel momento mi sentii quasi sollevato: ero libero. Ora vorrei che fosse di nuovo accanto a me, ma non la so cercare.
La casa dei miei genitori affacciava sul mare, e quand’ero bambino, d’inverno, seduto al pianoforte, mi incantavo a guardare dalla finestra le onde infrangersi sugli scogli: il rumore della risacca mi teneva compagnia. D’estate invece vedevo i compagni tuffarsi e giocare, ridere felici senza pensieri e avrei voluto raggiungerli, sentirmi anch’io leggero. Ma in me c’era una voce che mi chiamava: «Vieni qui, non la senti questa musica? Non senti com’è bella? Vieni a suonare!». Il metronomo era come un soldatino che per mano mi conduceva lungo la strada che avrei seguitato a scegliere, la sentinella che vegliava sui miei desideri di ragazzo. Non seppi mai tradire quella voce; non volli farlo mai.
Aggredii la tastiera con rabbia. Le note correvano veloci. Ero solo. Non pensavo a niente.
D’improvviso però i ricordi si insinuarono.
Lei indossava un vestito leggero, di un azzurro chiaro, con tanti fiorellini bianchi simili a piccole campanule. Con un dito tracciava il percorso di un viaggio immaginario: «Dovremmo andarci in macchina, o in moto».
«Sogni troppo».
«Ma i sogni vanno fatti in grande! Ci pensa la realtà a ridimensionarli!».
Imboccai una strada piena di vento, l’oceano mandava il profumo del mare, l’immagine vista mille volte di gente che arriva a ondate, fuggita da chissà dove, per provare a vivere. Camminai finché il sole non si fece rosso dietro le case, dopo il ponte. L’aria era dolce di primavera. Una donna dai capelli biondi e lunghissimi chiuse la saracinesca di un negozio, le passai accanto, mi sorrise.
È il senso delle occasioni perdute che mi fa così male ora: le cose che avrei potuto fare con lei e che ho buttato via. Ma forse tornerà il futuro che immaginammo insieme, e forse sarà di nuovo bello, ora che i sogni sono grandi e vicini, e mi sembra di sfiorare l’infinito.
Chiudo gli occhi e vedo le strade alberate, i campi, i teatri, i cortili, le chiese della mia terra, il nostro mare.
Il suo viso è impresso nella mia mente, o forse è davvero lei, fra quella gente che in piedi ci applaude.
La macchina ha il tetto scoperto. La strada è dritta davanti a noi, lucida di sole, con gli alberi e i fiori che si affacciano ai bordi.
Siamo pronti. Partiamo.
I commenti a questo post sono chiusi
Quanta delicatezza.
Meraviglia.