Lettere dall’assenza #4

di Mariasole Ariot

Caro G.,

oggi il cielo è plumbeo, ho scartavetrato la casa per cercare un corpo che non fosse inquinato, ho preso le parti e introdotto un nervo nello stipite. La paura è questa sacca di placenta che spinge la mia testa, nascono figli e figlie dentro la nuca, mi chiedo sempre come tu stia, da quando la montagna ci ha soccorso.
Ho camminato a lungo, ho percorso un tratto di buio ed era una finestra: puoi sentirmi? Puoi vedere la mia pioggia?

Nelle giornate chiare mi aggrappo alle nubi bianche, fanno da copertura, e lassù, dove non sei, mi piego irregolare le ginocchia accovacciate : una preghiera laica, la tua riconoscenza.

Dalla partenza si crea l’attesa del ritorno, un treno veloce irradiato dalla luce, il riflesso dei riflessi del mondo, questo viaggio lungo, questa mancanza: abbiamo chilometri nel mondo, i suoni nel fondo del plesso solare, dove tutto si muove e non siamo, dove tutto tace e siamo, quando adorniamo l’utero della nostra conoscenza. Ti chiedo della donna lasciata al fronte, sei partito come partono le assenze, hai ancora l’orologio che ticchetta la notte, ho ancora la tua notte sulla pancia. Suggere dalle vene il poco sangue rimasto, depositarlo nelle tombe dei morti, far fiorire una primavera tra le labbra – e quanto siamo veri in questo vero, quanto siamo andati altrove, quanto siamo stati nei territori oscuri, quanto le anfore ci hanno franato e composti, quanti corpi abbiamo incuneato, la terracotta che ci fa da sponda, la ricuciamo con fili d’oro, un artificio orientale. La pioggia non è una malattia.

Qui i gatti immobilizzano i tempi, sfregano il muso sulla dimenticanza, affondano le unghie e muovono il volto.
Hai perduto l’acqua, ci siamo immersi nel lago per affogare – tu che detesti i fondali, tu che li cerchi.

La mia gamba è rotta, non ho piedi per appoggiare, solo una mano grande sullo sfondo che si affretta in divenire. La mia natura è morta, salva il salvabile, mentre le donne chiacchierano i padri, e tu hai un bambino nella zona occipitale, quando e quanto ti vestivi del nero degli inverni, quando e quanto pativi gli assoluti: il fine è aprire la bocca, dire il dire degli antenati, camminare sui fili degli in versi, e io mi inverto, faccio spazio tra le gambe delle cose.

Nelle zone tranciate dall’infanzia attendo la mia pelle, gli scorticati siamo noi che ci diciamo, siamo il noi che non diciamo.
Hai incendiato lo sterno, un mazzo di fiori finti nella strada, ora che sei in alto e guardi ad ovest e se non guardo non mi vedi: mi senti?
Dicevi il canto dicevi la sostanza, dicevi la stanza che mi avanza. Hai costruito una casa tra i boschi del cervello, siamo entrati come due animali in fuga, siamo due lingue e non abbiamo i denti, hai aperto la gola, conosciamo la sostanza e non paghiamo la frana, scendiamo nelle fortezze, portiamo la saggezza dei millenni: costruisci un mondo, il mio sguardo è ancora opaco.

Caro G., fa’ che sia avvenire, fa’ che consumi, fa’ che dica, fa’ la strada, indicami la consistenza, indicami il ritmo e le circostanze, indicami le stanze, dimmi gli azzerati, indica la grazia, dì la soglia, dimmi che hai voglia di ammutire, muta il cielo in uno specchio, muta gli specchi, fa’ che sia giorno.

Ti lascio la mia scatola d’argento, il ventre angioleggiante, la paura è tra la casa e le inferriate, questa mia caduta, la mia mandria di cavalli sulle ombre.

Ti aspetto nella risposta, sospendo la quiete, sospendi il verbo sepolto, danza il taciturno che hai innaffiato.

Tua,
S.

@fotografia di Mariasole Ariot

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Lettere dall’assenza #6

di Mariasole Ariot
Non beccare, dicevi diventa la tua lingua, fornifica un linguaggio, dicevi non credere a chi dice che è scomparso. Ma cosa diventa una lingua se non ha papille?.

Scatole cinesi

di Giovanna Daddi Perciò non si muove. Poco prima si muoveva, fino a qualche giorno fa: si muoveva fin troppo. Entrava nelle stanze, aprendo una porta dietro l’altra, come scatole cinesi infinite.

Defrost: esorcismo e universalità del dolore

di Fabio Ciancone
È la paura che porta il soggetto a congelarsi, a rimanere inerme di fronte al proprio terrore; è la stessa paura che impedisce di distaccarsi dalla “colonia”, come viene chiamata nel testo, «un’aggregazione strutturata: gerarchizzata, instabile, tumultuosa»

OSTRAKON – Alessandro Ghignoli

Estratti dal libro Ostrakon di Alessandro Ghignoli, Anterem Edizioni, 2022 ...

Francis Scott Fitzgerald il sognatore

di Stefania Brivido
Un sognatore vive la propria vita possedendo delle aspirazioni, dei desideri e cercando di realizzare se stesso, ma i personaggi di Fitzgerald, per quanto siano sognatori, finiscono per autodistruggersi

Bianciardi. Una vita in rivolta

di Franco Ferrarotti
Non ho avuto la fortuna di diventare un suo amico, non ne abbiamo avuto il tempo. Ma l’ho incontrato di persona, a Ivrea, quando si trattava di metterci d’accordo per un suo articolo sui minatori della Maremma e la tragedia di Gavorrano per la rivista di Adriano Olivetti «Comunità».

mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma è necessario potare pazienza. Se non ricevete risposta, ricontattatemi a distanza di un mese. Il mio giudizio per eventuali pubblicazioni è ovviamente del tutto personale.
Print Friendly, PDF & Email
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: