Canto del maiale
di Renata Morresi
Tra le poesie di Margaret Atwood che più mi sono divertita a tradurre ci sono i monologhi degli animali. Non si pensi tanto alla tradizione letteraria che li accoglie come simboli e allegorie: non sono le personificazioni della brava gente di campagna di Beatrix Potter, o i correlativi oggettivi dei modernisti, come il pesce dalle molte vite di Elizabeth Bishop o il pangolino di Marianne Moore con la sua corazza. Qualcosa delle creature di Atwood parla certo attraverso l’invito all’identificazione che porta a una rivelazione altrimenti preclusa. C’è, tuttavia, anche dell’altro: prendere le distanze dall’antica storia della superiorità umana.
In questi testi leggiamo, sì, la protesta degli animali che allegramente sfruttiamo e mangiamo, ma essa risuona di una più ampia protesta contro la nostra modalità di consumare il pianeta, e di consumare i soggetti subalterni attraverso rapporti di forza precaricanti. Non è una posizione politica nuova, né recente. Penso a Gandhi, che divenne vegetariano a Londra, dov’era andato per studiare da avvocato. Col tempo il rifiuto della carne, che in India aveva tranquillamente consumato da ragazzo, divenne una espressione dell’anti-imperialismo: gli inglesi si vantavano di consumare carne in gran quantità, lo vedevano come un punto di forza, come un tratto di buona salute, come la misura della loro efficienza imperiale. Il giovane attivista cominciò dal disinnescare il legame tra l’essere padroni di sé e l’essere carnivori. Con il vecchio Tolstoj si scambiarono lettere appassionate su questi temi, compreso il massacro degli animali in nome del desiderio e della sopraffazione.
Forse occorre una piccola premessa: il paradosso dell’uscire da una concezione antropocentrica, dall’autocompiacimento umano nel dominare la rappresentazione, restando umani, attraverso la nostra umanissima scrittura, è scontato e inevitabile. L’attività linguistica, la serie di riflessioni, il processo di conoscenza che elaborano questa richiesta a scansarsi dall’ossessione umana non sono tutti fenomeni umani in fondo? Il non sequitur è solo apparente: se non possiamo uscire dalle nostre menti, possiamo, delicatamente, decentrarle, come voleva Robinson Jeffers, o almeno metterci un poco al lato, come suggeriva W.C. Williams. Ammettiamo, dunque, che la mente abbia confini meno certi di quanto un accanimento definitorio presuma. Che animali e umani siano una comunità. Non proprio benevola, evidentemente. Che siano un sistema, dunque, antichissimo, e con una enorme varietà di relazioni possibili anche oggi che maiali e galline non dormono più sotto i nostri tetti coibentati e zeppi di ripetitori.
Si tratta di relazioni complesse, che vanno dalla nostra invadente presenza sul pianeta, che compromette la biodiversità e a cui la biosfera reagisce, ai rapporti viscerali, veri e propri rapporti famigliari, tra umani e animali domestici, dal legame emotivo profondo con il consumo di carne, che si intreccia con la costruzione dell’identità nazionale e della mascolinità, alla sperimentazione scientifica, dalla terapia per i bisogni speciali alle nostre proiezioni di innocenza e libertà. Non c’è simmetria, chiaramente, e far sì che un animale prenda la parola non può vantare pretese di ‘comprensione’ di un mondo radicalmente diverso. Tuttavia, assumere la radicale diversità dell’animale nella scrittura richiede che chi scrive indaghi la propria. E’ un altro modo per investigare l’impensabile, per esempio l’estinzione (anche umana), la riduzione in schiavitù (anche degli esseri umani), la ribellione allo sfruttamento (anche umano).
Atwood pubblica le sue “Songs of The Transformed” in una raccolta del 1974, You Are Happy. E’ una sezione che include vari ‘canti’ di animali: il canto del maiale, del ratto, della volpe e così via, fino al canto del cadavere. Un’ex umana, questo cadavere, che si mescola bene con le altre bestie perseguitate e uccise, generando un ‘essere’ che ha molto a che spartire con gli altri viventi. Senza enfasi su personalità e identità, su astrazioni e metafisiche, il suo puro non esserci più ci riporta a capo del fragile, alla comune terrestrità. Certo che in una prospettiva purista non si può parlare a nome di un animale (né a nome di nessun altro, se è per questo). Ma la scrittura è un’altra forma di testimonianza: non c’è solo l’eye-witness, la persona a cui l’esperienza è accaduta, dice Atwood stessa, c’è anche l’I-witness, colei che rende l’esperienza personale per chi non c’è stato. Susan Gubar nel suo libro sulla poesia dopo Auschwitz parlava di “witness by proxy”, una testimonianza fatta su procura, da qualcun altro abbastanza prossimo da sapere, capire ed essere interessato a riportare.
Mentre Atwood scriveva i suoi canti degli animali – che spesso parlano mentre sono rinchiusi, perseguitati, inseguiti per essere sventrati, scuoiati, ridotti in prodotti da banco, coi colli zampillanti di sangue, le interiora scavate, il grasso gelatinoso ben redditizio – in molti stati del Centro e Sud America dilagavano gli squadroni della morte, spesso addestrati dai nord-americani. Dice la testa di gallina, spezzata dal corpo:
Si accomodino,
io contemplo la Parola,
io superflua e calma.
La Parola è una O,
un urlo della testa inutile,
puro spazio, vuoto e netto,
l’ultima parola che ho detto.
La parola NO.
Penso a Victor Jara, il cantautore cileno a cui furono spaccate le dita delle mani: pare che i suoi torturatori lo sfidassero a suonare la chitarra in quelle condizioni, lui, invece, cominciò a cantare una canzone di protesta, Venceremos. Morì con altre migliaia di vittime del colpo di stato per un colpo alla testa, il corpo martoriato da decine di proiettili. Non c’è nessun legame diretto tra Jara e le poesie di Atwood. Se non forse, a posteriori, la politicizzazione dell’autrice, avvenuta anche attraverso il coinvolgimento nell’attivismo contro le feroci politiche estere statunitensi e i regimi sud-americani. Se non l’eco di quel NO.
*
Ecco cos’avete fatto di me:
una verdura pallida occhietti
sporgenti da chiocciola, color
rosa culetto, pappa tipo rapa a fine stagione,
un sacco di pelle che gonfiate per nutrirvi
a vostra volta, una fetida verruca
di carne, grosso tubero
di sangue, coi cicci belli
gonfi. Bene, bene. Nel mentre
io ho il cielo, sbarrato solo per metà,
ho i miei angolini d’erba,
mi faccio le mie cose cantando
un canzone di bulbo e di grugno,
il mio canto dello sterco. Signora,
questi canti vi offendono, come questi grugniti
che voi trovate così pesantemente ammiccanti
scambiando il vorace per voglioso.
Son tutto vostro. Se mi darete immondizia
canterò il canto dell’immondizia.
Questo è già un inno.
*
Da Margaret Atwood, Brevi scene di lupi, a cura di Renata Morresi, Ponte alle Grazie, Milano, 2020.
Sono molto coinvolta dalla lettura di questi canti di bulbo e di grugno di Atwood-Morresi, e da questa riflessione imposrtante, che approfondisce e estende le implicazioni ideologiche che questa poesia attualizza, dagli anni 70, in cui la coscienza animalista-femminista iniziò a prendere corpi e menti, all’oggi, mentre questa coscienza sembra al contempo esplodere e implodere. Esplodere: oggi non possiamo non dirci animalisti e vegetariani, se non vegani. Oggi “sappiamo” che chi mangia carne è “fascista” e che le donne sono come, se non meglio, degli uomini. Implodere: oggi strozziamo il pianeta e i suoi abitanti, animali (cioè umani) e vegetali (le foreste) inquinando insostenibilmente con l’allevamento intensivo di fettine e petti di pollo, e ovini senza cacchette sopra. Oggi siamo massimamente umani, buoni al massimo, cattivi al massimo. Fra i movimenti di massa manca però quella cosiddetta via di mezzo, ovvero la buona vecchia saggezza, che creerebbe, se esistesse, un corridoio umanitario fra fascistoni scannamucchepazze e vegani che reggono l’anima coi denti bacati. Da madre e moglie di una pappagalla posso dirvi che uomini, ovvero mammiferi, e animali, ovvero anche non mammiferi, sono tutti connotati da grande amore e grande stronzaggine. L’animale selvatico o meno che sia, pensa a se stesso: picchia, morde, becca, uccide, ama, tromba, carezza eccetera se stessi e gli altri da sé. Così come donne e uomini, masculi e fimmini, sono la stessa e opposta “cosa” – e dunque il femminismo tout court non ha senso granché a livello e pratico e ideologico, così animali tecnologici e animali selvatici hanno gli stessi orizzonti di attesa. Ovvero: siamo davvero tutti uguali. nessuna vittima e carnefice, tutti vittime, tutti carnefici. Dunque non impugnare armi di offesa e difesa manichee è sommamente consigliabile. A questo può servire la poesia grande come questa: a dividere per non imperare, a distinguire per comprendere, a de-ideologizzare l’abusato, a reideologizzare il mondo, possibilmente dopo aver letto, oltre che tutta Atwood_Morrresi e Morresi, anche Raimon Panikkar.
Io sono rimasto a bocca asciutta. Ma bene cosi. E’ un libro da avere questo delle poesie di Atwood, e stavolta con la traduttrice che uno sogna. Pero’, caspita. Che fame hanno suscitato le tue considerazione e questo Canto del maiale.
(Questa estate ho letto “Occhi di gatto”, romanzo molto bello e molto tosto. Che bel privilegio, che bella avventura, Renata, l’aver tradotto, oltre a tutto quanto hai già tradotto, anche la Atwood.)
La traduttrice che uno/a sogna, è proprio giusto. Più decentramento per tutti, intanto leggiamo Atwood/Morresi
Anche io sono molto interessata alla poesie di questa autrice e il “canto del maiale” e quanto segue leggerò.
Renata Morresi é molto brava e condivido direi forse “tutto” di questo suo post!