Giovedì
di Cristiano Musella
Ci siamo, ancora. Apro gli occhi, disserro gli occhi, sgrano gli occhi. La prima luce che entra dalla finestra mi riempie lo sguardo di ambiguità. Che giorno ho davanti che giorno è che giorno era ieri, mi chiedo. Dovrebbe essere giovedì, ieri sera ho cenato con Miki, no, ieri l’altro, no, sì, è proprio giovedì. Non c’è dubbio. Mi alzo, mi isso, sono in piedi. È giovedì, il giorno più ignobile che ci sia. Il lunedì ha tutta una sua mistica, penso, una sua mistica sulla ripresa forzata del lavoro, un’arida primavera ricorrente riconosciuta all’unanimità. Martedì, martedì invece è uno spiraglio e nessuno lo ammette, preparo la moka, innesco la fiamma, bramo il caffè, nessuno lo ammette, ma il martedì si batte per il giusto ritmo, benedetto Cicero. Dopo il grigiore di chi lo ha preceduto è sempre pronto ad accompagnarti di nuovo fuori dalla porta, irriducibile. È snervante, è untuoso. Uno spiraglio senza poi il sereno che senso ha. Il martedì è il giorno dei filistei, realizzo finalmente. E a proposito, sono ormai finemente truccata e vestita. Del mercoledì non parliamo proprio. L’unico che per insulsaggine regge il confronto con quello che gli viene dopo. E gli ultimi tre, ecco, ecco, l’ho dimenticata, devo tornare indietro. Riapro la porta di casa e allungo la mano su quello sgradevole oggetto cornuto che non so come sia entrato in casa mia, su cui la tengo appesa. Richiudo la porta a doppia mandata e mi avvio, di nuovo. Ecco, gli ultimi vanno considerati un gruppo unico, un mostro policefalo: la Noia di Lerna. Partendo dall’ultimo li battezzo Noia sacra, Noia profana e Noia nascente, sì, il venerdì è Noia nascente, un sole freddo che spunta all’orizzonte, dico mentre mi tiro per bene gli elastici dietro le orecchie. La mascherina è troppo grande per il mio viso. Qualsiasi mascherina che ho provato lo è. Questa versione chirurgica poi è la peggiore di tutte. Summum ius summa iniura, somma giustizia somma ingiustizia. Possibile che siamo alla seconda ondata globale e nessuno ha pensato di tagliare delle mascherine più piccole che non salgano fino agli occhi delle donne minute come me. Ho tentato con quelle di tessuto, ho cercato per settimane quella che facesse al caso mio. I produttori si sono impegnati di più a inventarsi fantasie di fiorellini e pupazzetti che a ragionare sul fatto che le persone non hanno tutte la faccia della stessa dimensione. Ma tanto quelle di tessuto non sono altrettanto efficaci, e in autobus le mamme ti guardano come se sospettassero che vai a letto col loro uomo, per non parlare di tua sorella, medico, che pensa che tu sia una pusillanime, che se non la ascolti è perché ti fai condizionare da quelli su internet che negano la sciagura… E allora torna alle mascherine da ospedale, adattala al naso con veemenza per impedire per quanto possibile che ti salga fino alle palpebre, e fai il nodo agli elastici per accorciarli, e ricordati di cambiarla ogni giorno e ricomincia daccapo. Ed è giovedì, benedetto Cicero. Mentre prendo abbrivio e mi dirigo in studio ne vedo altri come me. Eccolo, il padre oberato, che ogni mattina conduce a scuola la sua piccola ciurma di tre bambocci saltellanti, serbandone un quarto nel passeggino. È così intento a provvedere che tutti siano bardati contro il freddo e i patogeni che un giorno sì e uno no lo incrocio mentre si rovista istericamente addosso cercando la mascherina mancante, quella che spetta a lui, che infine estrae stropicciata ma probabilmente fresca di bucato da una tasca sempre diversa. Ha a disposizione una sola mano per riuscire a indossarla come meglio può, nel frattempo fissando con intensità le peripezie dei pargoli per non investirli col trabiccolo che va spingendo. Quindi scorgo la signora mattiniera, che a quest’ora sta già tornando dal giro di acquisti con due sporte piene di spesa, e nello sforzo non può fare a meno di abbassarsi il bavaglio profilattico sul mento, ansimando con lo sguardo basso per la fatica e il pudore. Lambisco la massa dei cecati due volte, dannati, la buffa schiera di coloro che subiscono pure il contrappasso: già indeboliti nella vista per conto loro, la pandemia li punisce con un’analogia feroce, gli annebbia col vapore della bocca le lenti che dovrebbero invece aiutarli a orientarsi. Attraverso lo sciame di tutti questi occhi esausti. Cerco quegli indizi vibratili con scrupolo, con metodo. Ogni atteggiamento impacciato, ogni strenuo comportamento in risposta alla calamità che ci sta travolgendo, è una denuncia. Denuncia chi sono, chi siamo. Siamo il padre, la madre, i figli ipovedenti: i coscritti del regno della fatica. E siamo anche il popolo dei lungimiranti, quelli che non riescono a fare a meno di pensare al domani, al futuro, a resistere, a resistere, sempre, a ogni costo. Combatteremo il virus – no, non si tratta di una guerra, il virus non pretende nulla di ciò che abbiamo, non vuole la nostra terra né tantomeno i nostri segreti, è solo che si abbevera del nostro fiato – lo contrasteremo coprendoci il volto, e se ci verrà chiesto di imbottirci le orecchie o legarci le mani faremo anche quello. Salus populi suprema lex esto, il bene pubblico vale più di quello privato. E allora io? Cosa resta di me sotto la divisa della sopravvissuta? Il lenzuolo che mi fagocita il volto di cosa si sta riempiendo? Trentatré anni. In altri tempi avrei guardato la mia vita in termini relativi, come si usa, specialmente fra donne. Non mi sarei chiesta cosa volessi ma cosa avrei dovuto fare rispetto alle mie possibilità, rispetto ai desideri altrui, rispetto alla mia età, allo scorrere imperturbabile delle cose, insomma rispetto a quanto già fatto o già perduto. Ora le cose non scorrono più, il flusso si è arrestato, sento di non essere ammessa né al passato né al futuro. Il virus concede uno scampolo di eternità a chi resta, non a chi se ne va. E non sono pronta per questo. Mi sgomenta questo osservatorio da cui posso solo misurare la mia stessa vita, senza poter muovere un muscolo, come un chirurgo chiamato in sogno a operare se stesso d’urgenza, ma sul punto di incidere si accorge di aver scordato tutta la propria scienza. Contiamo i contagiati, i guariti, i posti nelle terapie intensive occupati e quelli ancora liberi che si assottigliano sempre di più. Il nostro destino si incarna nei bollettini sanitari, siamo una civiltà riassunta nell’urgenza di dover sopravvivere. Come posso ancora soffermarmi a chiedere se sarò moglie, madre, nonna, sono titoli da usurpatrice in un simile frangente. Cosa sono i desideri se devo accanirmi con tutto il mio livore per distinguere un giorno dall’altro, se mi pare di vivere ora e tra una settimana allo stesso tempo, con l’unico orizzonte del prossimo decreto della presidenza consiglio dei ministri? Benedetto Cicero, non avrei dovuto parlare ad Antonio in quel modo sabato sera. Sì, era tanto che aspettavo di farlo, e per questo avrei potuto facilmente continuare a tacere in questo anno che pare isolato da tutti gli altri. Galleggio nella sua vita da prima che iniziasse il 2020, e allora perché proprio mentre mi trovo nell’occhio del ciclone ho deciso di ribellarmi, di dirgli che così non ce la faccio più. Mi ero messa apposta la gonna più corta che ho, le autoreggenti che mi fanno sentire veramente una spregiudicata, tanto per propiziare una serata identica alle altre che abbiamo avuto durante la prima chiusura del paese, durante l’estate interlocutoria e di nuovo adesso, con la seconda ondata. Niente cena, ci si vede a stomaco pieno. Quattro chiacchiere, semmai una birra. Se abbiamo voglia di strafare annunciamo di guardare un film, cosa che non accade mai. Però ho scelto gli stivali, non i tacchi. Per non essere troppo provocante e avere l’occasione di vuotare il sacco, invece di affrettarmi a venire spogliata? O al contrario per proporre una variante di stimolo? Se gli dessi retta dovrei andarci anche a dormire con i tacchi a spillo, allora forse questa volta volevo davvero avere voce in capitolo. Iudex damnatur ubi nocens absolvitur, bisogna condannare il giudice se il colpevole viene assolto. D’accordo, volevo comunque scopare, alzo le mani, questa è la mia difesa. Quest’anno che va alla deriva come l’avanzo di un relitto mi pare proprio l’alcova adatta per dare e prendere senza capire che accade, tenendo il mistero anche con me stessa, l’anno delle andate senza ritorno, verso dove non ha importanza. E allora perché, perché insistere con le proteste, benedetto Cicero. Perché domandare chi sono, sono ancora l’amante che accampa madornali diritti, come vorrebbe farmi sentire lui, e neanche fosse sposato! O sono la donna della sua vita, giunta in leggero ritardo, malauguratamente, che con pazienza e dedizione però si conquista il proprio spazio nella libera competizione degli affetti. Non lo so, non so più chi sarò, non riesco a vederlo; come quelli che incrocio per strada e non distinguono i miei lineamenti sotto il morso di un abnorme mascherina. Sarà perché è un anno e mezzo che lui ed io andiamo avanti così, sarà quest’annata maledetta che recide il presente dal passato e dal futuro e io sono rimasta gelata sul ramo dell’incompiutezza, come fossi un usignolo incapace dell’intonazione distintiva. Il limbo non è una sala d’aspetto in penombra; è una battuta di atroce silenzio, il controcanto nell’inno della vita, un brivido di non-essere che ora non mi abbandona, terremoto perpetuo.
“Come dice, signorina? Il biglietto ce l’ha o no?” “Certo, mi scusi. Ecco il mio abbonamento”.
Lo stesso vale per il lavoro. Gli anni massacranti dell’università, e in seguito stagista, praticante, apprendista, collaboratrice, per un attimo perfino libera professionista. Professionista libera, perché qualcuno ha sentito di dover aggiungere l’aggettivo: la madre di tutte le excusatio non petita accusatio manifesta, come se la mancanza di prospettiva ti emancipasse dai vincoli, anziché renderti prona a ogni richiesta arrogante. Non so nemmeno più se sono ancora un avvocato oppure no, a dire il vero. Quello che ho desiderato da quando ho visto per la prima volta in tv una puntata di Law & Order, a undici anni. Non che mi occupi di crimini efferati, però anche il diritto civile è un aspetto dell’esistenza organizzata che va regolato, un’espressione dell’ordine cui siamo tesi per natura. Invece mi hanno trattata de facto come una segretaria per anni, poi un’intrusa, infine un’incapace, ripetutamente, quando mi hanno congedata senza tanti complimenti, e quando mi hanno ripresa come fosse un’elemosina. Ho potuto dedicarmi di più al volontariato, questo è vero, al volontariato che voleva fare io, come volevo io. Ci sono le prestazioni pro bono, attieniti a quelle!, dicevano. Non togliere tempo al lavoro. Ma io volevo fare qualcosa di diverso, sentivo senza esitazione di essere anche qualcosa di diverso. Non sono una giurista nel momento del conforto e della consolazione, sono di più, o almeno lo pensavo. Con altre tre persone attorno a un tavolo so essere una giocatrice di carte attenta. All’occorrenza sono una cuoca di minestre, porzioni enormi di minestre. Sono un confessore paziente, non solo un consulente legale. Quod non vetat lex, hoc vetat fieri pudor, proprio così: io non sono il riflesso pallido di un manuale, il codice che mi descrive si perde nell’infinità. Ma adesso, invece, gli sfoghi e i lamenti che mi investono non sono dei disgraziati della mia onlus, gente che è giunta da altri continenti, a volte a piedi, attrezzata solo di speranza; ora protestano i patrizi delle discoteche, gli oracoli ribelli dal volto scoperto, i luminari in competizione di sussiego fra loro. E che cos’è il tintinnio della mia volontà di assistenza in questo assurdo trambusto, in questo presente deforme che si arroga il travaglio dell’universo intero? Io ho bisogno di ieri e di domani, del loro muto sostegno. Come direbbe l’architetto Antonio Trento riferendosi però alla sua concubina, ovvero io, ieri e domani sono contrafforti: non vedo il peso che di continuo scorre su di loro e si scarica a terra, ma se non ci fossero anche la cattedrale eretta con la pietra più santa sarebbe come di sabbia. Io so di essere chi sono solo se riconosco il pericolo di crollare nel vuoto, se assegno a un tempo che chiamo passato il registro delle mie pene e a quello che chiamo futuro la culla della mia redenzione. Così mi faccio l’autoritratto più prezioso, con i colori evanescenti della sostanza immaginaria, sui fogli sfuggenti che sono ieri e di domani… Sono arrivata. Aspetto che qualcuno mi apra il portone dallo studio di boriosi dove sconterò la mia deminutio capitis da perenne matricola, l’habeas corpus subiciendum, in virtù del quale presto i miei servigi ai derelitti nelle forme che decido da sola, e il mio ottuso sentimento per Antonio: davvero margaritas ante porcos. Nessun saluto al citofono, scatta la serratura. Mi porto le mani alle orecchie, sistemo gli elastici, schiaccio il ferretto sul naso a più riprese, aggiusto quasi con isteria. Mi accorgo che l’interno della mascherina è già umidiccio.
“L’hai di nuovo abbassata troppo, Caterina. Ti si vede la punta del naso” mi ammonisce l’avvocato Diriso. “Devi tenere sempre il viso mezzo coperto. Non te lo ripeterò più!”
È solo giovedì, anche se sotto il velo protettivo non fa più alcuna differenza: omnia sunt incerta, cum a iure discesseris.