Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan

Così si presenta Arnaut Daniel in Purgatorio XXVI, 142. Arnaut fu un trovatore (trobadour) provenzale vissuto circa un secolo prima di Dante e per il quale il poeta ha una grande ammirazione: è l’unico personaggio della Commedia che fa parlare nella sua lingua, la lingua d’oc, pur con qualche italianismo, ed è l’unico che Dante confessa – in De Vulgari Eloquentia II, 10, 2-3 – di aver cercato di imitare: “et huiusmodi stantia usus est fere in omnibus cantionibus suis Arnaldus Danielis, et nos eum secuti sumus cum diximus al poco iorno e al gran cerchio d’ombra”, ovvero “e siffatte stanze adoperò Arnaldo Daniello in ciascuna sua canzone e noi lo imitammo quando dicemmo al poco iorno e al gran cerchio d’ombra” (trad. di G. Lando Passerini in Dante Alighieri, Tutte le opere, Newton Compton 2007). La propria canzone cui allude Dante, citandone il primo verso è una delle affascinanti rime petrose, di cui parleremo la prossima volta. Il canto XXVI del Purgatorio descrive la punizione dei lussuriosi, e il primo che incontra Dante tra questi è Guido Guinizelli (talvolta Guinizzelli, 1237-1276, muore quando Dante ha 11 anni) dall’Alighieri considerato un vero suo maestro e che tratta dunque con molto affetto (del resto Dante, data la sua burrascosa giovinezza fiorentina, doveva conoscere bene questo vizio; ricordiamo che Paolo e Francesca, nel V° dell’Inferno sono puniti proprio per questo peccato e il bravo Dante li fa stare, pur nella bufera infernal che mai non resta, sempre abbracciati, non si capisce bene dove stia in questo caso il famoso contrappasso) ed è proprio Guinizelli che indica Arnaut a Dante dicendo di lui “fu miglior fabbro del parlar materno” (Purg., XXVI, 117).
Vale la pena di conoscere un po’ meglio questo illustre esponente della primissima lirica provenzale.

Non molto sappiamo della sua vita, il documento più antico comincia così:
“Arnautz Daniels si fo d’aquella encontrada don fo Arnautz de Maroill, de l’evescat de Peiregos, d’un chastel que a nom Ribairac, et fo gentils hom”; il testo completo di questa scarna biografia, tradotto, suona così: “Arnaut Daniel fu della stessa contrada di Arnaut de Mareuil, del vescovato di Peiregos, di un castello che ha nome Ribairac [oggi Ribérac, Dordogna, Francia], e fu uomo gentile. E imparò bene letteratura e si dilettò a comporre e a far rime preziose, per cui le sue canzoni non sono né facili da comprendere né da imparare. E amò una nobildonna di Guascogna, moglie di Guillem de Buonvila, Ma non venne mai creduto che la donna gli facesse piacere ricambiando questo suo fine amore. Per cui egli dice: «io sono Arnaut che ama l’aura e caccia la lepre con il bue e nuota controcorrente»”.
Il “trobar” dei trovatori provenzali si distingue in “trobar clus” e “trobar leu”, grosso modo traducibile come difficile il primo e facile il secondo. Ma qui difficile sta a significare una serie di caratteristiche ben precise, quali la ricerca di parole rare e preziose, di forme di poesia particolari, tipicamente la “sestina”, e di rime preziose intrecciate secondo vari schemi e estese anche a metà verso. Tutte cose che Dante appunto riprenderà soprattutto nelle rime petrose. Arnaut è un campione del trobar clus, tanto che fu accusato da alcuni, anche moderni, di dare importanza praticamente soltanto alla forma senza un contenuto veramente poetico. Egli scrisse 17 canzoni e un sirventese. Qualche altra notizia circa la sua biografia, può venire desunta a partire da alcuni riferimenti storici presenti nelle sue liriche (ad esempio, sappiamo che assistette all’incoronazione del re di Francia avvenuta nel 1170) o da altri manoscritti (in una parodia su alcuni trovatori scritta da Monge De Montaudon nel 1195 compare anche Daniel).
Secondo Gianfranco Contini Dante si identifica appieno nelle figure di Francesca (V canto) e di Arnaut Daniel; entrambi infatti fanno riferimento alla sua vicenda letteraria. Quando Francesca racconta di come la lettura delle storie di Ginevra e Lancillotto l’abbia spinta al peccato, Dante si sta infatti distanziando da una concezione di amore profano e terreno; tramite l’episodio di Daniel, invece, Dante ripercorre l’esperienza giovanile delle rime “petrose”, da cui ora ha preso le distanze. Anche Francesco Petrarca riconosce nella poesia di Daniel “il dir strano e bello”, vedendo come componenti principali delle sue liriche il fattore estetico e la difficoltà retorica.
Vi riporto qui il testo della canzone “Sols sui” che prendo da una bellissima dispensa di Salvatore Battaglia (lo straordinario fondatore nel 1961 del Grande Dizionario della Lingua Italiana in 21 volumi completato nel 2002 sotto la direzione di Giorgio Barberi Squarotti) intitolata “Le rime «petrose» e la sestina (Arnaldo Daniello – Dante – Petrarca)”, Liguori 1964, la traduzione dello stesso Battaglia e il suo commento.
La canzone « Sols sui »
La canzone che qui segue, Sols sui, è forse la più limpida e la più serena del canzoniere di Arnaldo Da¬niello. Qui c’è un contemperamento della tecnica e della meditazione poetica che si risolvono entrambe in una discrezione stilistica e ritmica. Anche il pensiero amoroso (solitudine – fissità e pena – fedeltà) risulta ora svolto con sicura e riposata maturità. Adesso la contemplazione lirica pare raggiunta senza più fatica.

I. Sols sui qui sai lo sobrafan que*m sortz
Al cor, d’amor sofren per sobramar,
Car mos volers es tant ferms et entiers
C’anc no s’esduis de celliei ni s’estors
Cui encubic al prim vezer e puois ;
Qu’ades ses lieis dic a lieis cochos motz,
Pois quan la vei non sai (tan l’ai) que dire.

II. D’autras vezer sui secs e d’auzir sortz,
Qu’en sola lieis vei et aug et esgar ;
E jes d’aisse no-ill sui fals plazentiers
Que mais la vol (non ditz la boca) *1 cors:
Qu’eu no vau tan chams, vanz ni plans ni puois
Qu’en un sol cors trob aissi bos aips totz:
Qu’en lieis los volc Dieus triar et assire.

III. Ben ai estat a maintas bonas cortz,
Mas sai ab lieis trob prò mais que lauzar:
Mesura e sen et autres bos mestiers,
beautat, joven, bos faitz e bels demors.
Gen l’enseignet Cortesia e la duois,
Tant a de si totz faitz desplazens rotz,
De lieis no cre rens de ben sia a dire.

IV. Nuils jauzimens no-m fora breus ni cortz
De lieis, cui prec qu’o vuoilla devinar,
Que ja per mi non o sabra estiers
Si-1 cors, ses digz, no-s presenta de fors;
Que jes Rozers, per aiga que l’engrois,
Non a tal briu c’al cor plus larga dotz
No’m fassa estanc d’amor quand la remire.

V. Jois e solatz d’autra-m per fals e bortz,
C’una de pretz ab lieis no-is pot egar,
Que-1 sieus solatz es dels autres sobriers.
Ai! si no l’ai, las ! tant mal m’a comorz !
Pero l’afans m’es deportz, ris e jois,
Car en pensan sui de lieis locs e glotz:
Ai Dieus, si ja-n serai estiers jauzire !

VI. Anc mais, so-us pliu, no-m plac tant treps ni bortz
Ni res al cor tant de joi no-m poc dar
Cum fetz aquel, don anc feinz lausengiers
No s’esbrugio, qu’a mi sol so-s tresors.
Dic trop? Eu non, sol lieis e la votz
Vuoil perdre enans que diga ren que’us tire.

VII. Ma chansos prec que no-us sia enois,
Car si voletz grazir lo son e-ls motz
Pauc preza Arnautz cui que plassa o que tire.

I – Solo io so l’immensa pena che mi sorge – nel cuore d’un amore rassegnato ad amare ad oltranza – chè la mia volontà è tanto ferma e integra – che mai si allontana e si distoglie da lei – che ho desiderato fin dal primo sguardo e poi sempre: – chè sempre nella sua assenza dico a lei parole appassionate – e poi quando la vedo non so più cosa dire, e tante ne avrei !
II – Di rimirare altre sono cieco e d’udirle sordo – che lei sola io vedo e sento e intendo: – e di ciò non le sono affatto falso adulatore – che più l’ambisce il cuore di quanto la bocca non sappia dire. – Chè io non percorro tanti campi e valli e pianure e colli – che in un solo corpo possa trovare tutte le sue bellezze: – che in lei le volle Iddio trascegliere e affidare.
III – Io ho dimorato in molte magnifiche corti – ma soltanto qui da lei io mi trovo tanto di più a lodare: – misura e senno e altre belle doti, – bellezza, giovinezza, bei gesti e belle maniere. – Ben l’ha educata Cortesia e l’ha formata: – ed ella ha respinto da sé tutte le cose sgradevoli – sicché penso che di lei nulla si possa dire se non di bene.
IV – Nessuna gioia mi sarebbe breve o insufficiente – che mi venga da lei, che io supplico la voglia divinare – perché da me stesso non la conoscerà altrimenti – dato che il cuore, senza parole, non sa esternarsi. – E mai il Rodano, per quanto sia l’acqua che l’ingrossa – ha tale impeto che nel mio cuore non sia più ricca la corrente – che mi porta la vena d’amore quando io la contemplo.
V – Gioia e piacere d’altra mi pare cosa falsa e vana – che nessuna si può paragonare al suo valore – poiché il suo fascino è superiore a ogni altro. – Ah, se non l’avrò mai, che infelice! così crudelmente m’ha soggiogato! – E tuttavia la pena m’è piacere e riso e gaudio – ché della sua nostalgia sono avido e ghiotto: – Ah Dio, se mai potessi altrimenti esserne felice!
VI – Giammai, ve lo giuro, non mi piacque danza o torneo – né altra cosa mi ha potuto dare al cuore tanta gioia – come l’ha fatto quest’amore che mai i falsi maldicenti – hanno potuto intaccare: che per me solo essa è un tesoro! – Dico troppo? Non credo, solo che a lei non rechi fastidio. – Bella, per Dio, le parole e la voce – vorrei perdere prima di dire qualcosa che vi sia sgradita.
VII – La mia canzone spero non v’incresca – ché se vi degnate di gradire la melodia e i versi – poco importa ad Arnaldo se ad altri piaccia o no.

All’inizio della canzone quel solo in posizione tonica ha valore di parola-chiave, che i tre monosillabi seguenti contribuiscono a isolare e ribadire (sols sui qui sai). Una solitudine consapevole e memore, che nella sua stessa coscienza ritrova le ragioni d’una pena d’eccezione (sobr-afan) e d’un amore d’eccezione (sobr-amar) – entrambi sentiti ad «oltranza» – che si tramutano in un vincolo d’integrità e d’immobilità (car mos volers es tant ferms et entiers), come affidati ad un’ancora inamovibile (c’anc no s’esduis de celliei ni s’estors). E il verso che sembra introdotto come una breve didascalia (cui encubic al prim vezer e puois) dilata invece i confini della condizione spirituale nel tempo e nello spazio dell’intimità, con una improvvisa rivelazione e una perenne attesa. Cosicché gli ultimi due versi di questa prima strofe, che nel loro immediato significato esprimono la timidezza dell’amante incapace di tradurre la verità che gli si affolla nel cuore (tan l’ai) se non con parole precipitose (cochos motz), riportano la passione amorosa, per la stessa ineffabilità dei suoi sensi, a una più chiusa solitudine. Posto in questi termini il «tema» del canto, le strofe successive ne sono uno sviluppo e una precisazione: e se qualche volta il poeta non riesce a superare il tono didascalico, assai spesso giunge ad ampliare l’arco lirico e a cogliere una più intima e più pura motivazione. La terza e la sesta strofa scivolano verso il modo discorsivo e apologetico (che è il tributo al costume contemporaneo), ma la seconda, la quarta e la quinta strofa aprono le zone più liriche della solitaria meditazione del poeta fino a fargli trovare parole e immagini e sogni di singolare vigore e di dolce bellezza. Proprio nella seconda strofa c’è un’immagine che sembra anticipare un certo tono petrarchesco: « Ch’io non percorro tanti campi, valli e pianure e colli…». Ma l’accento più lirico è contenuto nella quarta strofa, dove paragona l’impetuosità della sua passione alla violenza delle acque del Rodano, con uno scatto della fantasia che, subito frenato in un atteggiamento contemplativo (quan la remire) sembra simboleggiare veramente la sostanza spirituale del poeta, che ha pudore a confessare lo slancio dei propri desideri, sicché i suoi versi oscillano sempre fra una volontà di misura e discrezione e un impulso a spezzare gli argini del ritegno lirico. E perciò le immagini e le parole realistiche e forti come secs d’autras vezer (cieco di vedere altre) e sortz d’auzir (sordo d’udirle) oppure lecs e glotz (avido e ghiotto) della nostalgia amorosa ecc. rivelano la fatica e la pena poetica di sciogliere la tensione sentimentale nella parola concreta, sensibile, quasi fisica. Gli esempi in questo senso si potrebbero moltiplicare. C’è un realismo espressivo che conferma e quasi materializza una situazione assolutamente morale; il mezzo verbale e tecnico diventa per Arnaldo tramite d’una oggettività visiva e concreta di cose che sono immateriali e vivono nella sfera del puro sentimento. Per esempio: la volontà «ferma» e «intera» che mai «s’esduis» e mai «s’estors» dal suo amore; la stessa cecità e sordità della sua vita interiore che respinge ogni richiamo estraneo perché assorbita nell’unica passione; l’avidità e la brama con cui ripensa a lei; la gioia «breve» e «corta» ecc. riconducono il tormento passionale all’evidenza reale e sensibile.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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