Rossana Rossanda e gli altri rabdomanti
di Velio Abati
La poesia di Tommaso Di Francesco nasce e vive in una controscena. Uomo pubblico dalla sua militanza nella “nuova sinistra” del Sessantotto, politico-giornalista di quella particolare forma della politica, che il quotidiano “Il Manifesto” è, nel quale ricopre la carica di codirettore e di responsabile della pagina degli esteri, ha da sempre derivato da quella passione intellettuale e morale una non minore necessità poetica. I “foglietti in tasca” che il poeta si porta dietro registrano sì i fatti con i quali è alle prese il politico, ma costretti alle fratture, allo scarto delle vite proprie e altrui, che l’azione politica non riesce, ancora o mai, a ricomporre.
Invece la nuova raccolta I rabdomanti. Quattro poemetti, quattro poesie colloquiali e una favola (Manifestolibri, 2021, pp.83, €.8,00), dedicato ai fondatori del “quotidiano comunista”, di cui quest’anno ricorre il cinquantenario, incrina e forza la separazione tra le due scene. Non che Di Francesco non avesse già scritto sui suoi compagni di redazione, ma con il distanziamento dello scherzo epigrammatico, in consonanza con i ben noti titoli del “Manifesto”.
Otto sono i fondatori “rabdomanti” alla cui scomparsa il poeta volge la pietas della pagina: Aldo Natoli, Luigi Pintor, Lucio Magri, Eliseo Milani, K.S. Karol, Rossana Rossanda, Valentino Parlato e Lidia Menapace; un componimento ciascuno, eccetto Rossanda cui è dedicata anche la prosa della favola in chiusura del prosimetro. Il cortocircuito tra le due scene produce sommovimenti, tensioni divergenti e persino eterogenee, già palesati dal sottotitolo composito. L’andamento lieve della favola Mefis è tornata – registro da Di Francesco già sperimentato in un libretto per bambini illustrato, come questa volta la copertina, da Mauro Biani – è solo il fenomeno più vistoso: le divaricazioni operano in profondità nel tessuto stesso dei testi poetici, sottoposti a una doppia polarizzazione. Ora, le alchimie oscure della germinazione poetica, che attengono, credo, al differente vissuto nella redazione e nella militanza, sbocciano in testi brevi di una lingua sorprendentemente piana, ricca persino di rime baciate, non aliena da tenerezze: “Sopra il destino dell’uomo soffiava / il vento Eliseo, né zefiro né burrasca / ma tramontana irriducibile, costante” (La forza in disparte, per Eliseo Milani), “Sei l’unico impermeabile di Bogart / rimasto, che dentro protegga / l’infanzia d’una guardia rossa” (K.S. Karol, il leggendario Solik); aperta addirittura alla giocosità in Il zunzuncito, dedicata a Lidia Menapace.
Ora, invece, e sono i testi più lunghi, le tensioni intellettuali e politiche, le ambivalenze esasperano i caratteri propri della poesia di Di Francesco, mai di facile lettura, perché il dolore delle sconfitte, gli smarrimenti esistenziali della mente e dell’animo di cui essa si fa carico (e tutti i rabdomanti cantati ne sono stati segnati con l’autore, testimone e parte vivente) hanno accesso alla pagina solo fortemente mentalizzati, mentre gli eventi, le circostanze che ne sono stati cauterizzati vengono drammaticamente sfrondati, quasi divelti dal tessuto della cronaca e restituiti come bronconi irriconoscibili eppure sanguinanti, una forza dislocatrice e abrasiva che deforma lo stesso andamento ritmico-sintattico. La poesia che ne sorge non è, com’è stato detto, allegorica, ma violentemente sineddotica e, in modo più intermittente, analogica. Da questa controscena e dalle sue dinamiche nascono la difficoltà, le asperità, il rifiuto della confidenza e insieme l’affidamento costante alla poesia.
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