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Invece è già dopo. L’irrealtà concreta di Demetrio Marra

di Matteo Cristiano

Sono molti i versi che potrebbero dirsi rappresentativi di questa raccolta (Demetrio Marra, Non sappiamo come continuare.Nove processi biofisici, 2024, autoproduzione): uno è messo a titolo di questa nota, «invece è già dopo»[1], dal terzo movimento di Tautoromanzo. Il verso sarebbe rappresentativo perché si assume buona parte del senso d’impotenza che si allunga in tutti i testi, come quando pensi alle cose che avresti potuto dire in una conversazione, quel gesto che avresti dovuto risparmiare o fare con più grinta o amore, la freccetta che avrebbe preso il centro, ma tutto si è già spostato, siamo già oltre. Altri potrebbero essere «siamo già, sempre, fuori di noi:»[2]; «se reggi l’immaginazione»[3]; «ma vi penso e forse così vi esaurisco»[4]. In tutti questi versi si può sentire chiaramente quello che Dimitri Milleri, nella prefazione, chiama «fallimenti a matriosca». Sarebbe tuttavia limitante fermarsi a questa costatazione, lasciandoci leggere la raccolta solo in termini vittimistici e confessionali. È evidente che ciò che si mette in gioco è una resa, un abbandono forzato, un’ammissione di colpa. Altrettanto evidente è anche che l’ammissione di colpa non scagiona l’individuo, la presa di coscienza non basta ad affrancarsi dalla maglia dell’inconsistenza. È però vero anche che, dal punto più basso in cui ci si ritrova, non si può fare altro che risalire. E vedremo come.

Nota preliminare sul libro fisico: otto testi in versi, un personal essay in chiusura che esplicita la scelta di autopubblicare un libro di poesia. Seguono le note ai testi e il bilancio delle spese di autopubblicazione. Marra esplicita quasi tutto: stampare il discorso economico, l’assertività di alcune note a piè di pagina, alcune dichiarazioni metapoetiche all’interno dei versi, tutto ciò dimostra un habitus demistificatorio, la volontà di non arrendersi ai veli. Una assertività a volte iperbolica, con alcune differenze: l’assertività dei testi in versi è sempre contraddetta dalla forma linguistica ambigua e spesso disarticolata (ma anche dalla materia magmatica della contingenza del contenuto) e infatti più spesso ricade nel grottesco, nel tragicomico. Mentre l’assertività della prosa finale è di tipo argomentativo e critico dalle sferzate sicure, di chi, in questo caso, non può chiudere gli occhi e scendere a compromessi creativi. Alla fine, ciò che è esposto nella prosa finale, la scelta pratica, può essere intesa come l’unica materia controllabile della raccolta forse proprio perché si svolge, in primis, come alibi dal risvolto simbolico, come ultima implicazione della ribellione e della decostruzione. “Gioco con le mie regole”, pare voglia dire. Non mi stupirei se, con una forza invidiabile, Marra smettesse di scrivere per disancorarsi definitivamente dal gioco simbolico della cultura. Sarebbe logico, e l’autore lo sa bene.

L’autopubblicazione giunge, cronologicamente e fisicamente, alla fine del romanzo di formazione inscenato in queste pagine. Un percorso diacronico che si assimila e sfocia finalmente nella scelta pratica (e ideologica) di autopubblicarsi. E non ci si arriva indenni a questo stadio. Ritorniamo all’inconsistenza dell’esistenza di cui si diceva prima: l’immaterialità dei discorsi, la falsa coscienza della libertà. Marra rappresenta in modo magistrale la «lavastoviglie che è la vita a vent’anni»[5], la vita tout court in realtà, e ne esce uno spettacolo nevrotico e dissociativo: una delle parole più ricorrenti è fuori, 27 occorrenze nei testi in versi, che è tantissimo. Tantissimo significa sintomatico, perché l’io che si trascina nel quotidiano esistere materiale e poetico è sempre altrove rispetto al centro – centro che comunque sfugge sempre all’identificazione. Il soggetto guarda fuori perché non è nel luogo dove si trova; il soggetto è fuori di sé, perché il pensiero ossessiva ritorna verso l’interno sdoppiandosi; il fuori è ciò che sovrasta il soggetto, lo schiaccia. La dimensione della nevrosi è pervasiva nei testi e si riverbera nella forma sintattica: le frasi sospese e i repentini cambi di focus sono speculari alla sovrastimolazione psichica, alla quale non corrisponde mai una reale presa sugli oggetti. Si vede soprattutto in Quattro incipit senza data, dove il quarto movimento inscena una seduta di terapia dall’andamento allucinatorio: la scissione soggettiva si manifesta non solo in ciò che esplicita il soggetto, non solo nella lingua, ma nel vero e proprio essere «fuori / di me del mio corpo»[6], sdoppiando quindi la voce dell’io e creando questo effetto di discorso indiretto libero ambiguo, dove la voce riportata e la voce dell’io si confondono. E qui si coglie un altro importante aspetto soggiacente: «la (apparente) non problematizzazione dell’io lirico»[7]. Marra esplicita tantissimo, certo, ma si diletta con l’ironia – lo sappiamo dal primo testo, Defining parody. Esplicita anche il modo in cui depista lettrici e lettori. Quindi quell’apparente va preso in qualche modo sul serio, e dobbiamo domandarci dove, o come, viene problematizzato l’io lirico. Il luogo è il piano del poetico, di forma e contenuto. Abbiamo detto della dissociazione della voce lirica, divisa tra la prima e la terza singolare (come abbiamo visto in Quattro incipit senza data, ma lo stesso avviene anche in Tautoromanzo) e che quindi rappresenta materialmente quel vedersi da fuori  di cui si è detto. Si è detto anche delle svolte sintattiche spesso inconsuete, che fanno slittare la semantica provocando momenti di straniamento, di incomprensione. Non è una forma di pensiero salda, uniforme: è un sinusoide di contenuti legati dal flusso ritmico e della macrostruttura ma che spesso cozzano tra loro, segnano svolte che escono dalla linearità. In più, significativamente, segnalo il fatto che Marra ha sottoposto diverse questioni del libro, come varianti, formato, copertina, alla comunità redazionale di lay0ut, «la famigghia che ci siamo scelti»[8]. Il che dimostra un habitus autoriale e individuale, che si somma e collabora con tutti gli altri aspetti di questa pubblicazione, simbolici e pratici. Il luogo di problematizzazione dell’io lirico, allora, esce dal piano simbolico del poetico sfondando le porte della realtà.

Se è sicuramente vero quello che dice Lorenzo Mari, cioè che «Quello di Marra è quindi un racconto della disillusione, ma senza tanti patemi e con una netta preferenza per l’ambiguità»[9], mi pare che ci si dimentichi troppo, leggendo queste pagine – logicamente secondo i principi dell’ambiguità – di far emergere la pars construens dell’operazione di Demetrio Marra. La logica della contemporaneità in qualche modo forclude la possibilità di pensare le alternative, illudendo il pensiero e la coscienza che non vi siano varianti valide allo status quo. Quello che fa Marra, alla fine, è fare la spesa al mercato e non alla Carrefour: Marra dimostra che si può scegliere, semplicemente, e che i discorsi del quotidiano sono più inclini a sopprimere questa semplice realtà piuttosto che a sostenerla. È un modo di gettare la maschera: il romanzo di formazione è la narrazione della disillusione anche nei confronti della disillusione stessa: dismettere gli strumenti di vittimismo individuale neoliberale per entrare in una forma di vita e di pensiero diversa. Marra indica qualcosa, noi non dobbiamo guardare il dito. Quello che indica è un metodo, un percorso, una forma esistenziale. Non vorrei tralasciare i fattori stilistici di questa raccolta, che peraltro sono già stati evidenziati dalla lettera di Flavio Santi e dalla recensione di Luca Mannella. Non vorrei nemmeno, tuttavia, che il discorso su questa raccolta si fermasse al recinto del poetico, del fare poesia. Il fulcro sta nel fatto che «la militanza culturale è una forma come un’altra di rinuncia alla militanza reale» (p. 75), e se leggendo questa raccolta vogliamo parlare di poesia, è perché, nell’ambito della più parte degli addetti ai lavori, siamo troppo abituati a limitare il poetico al suo statuto simbolico-culturale e artistico.

Trovo questo libro se non complementare almeno congruente a uno dei libri di versi a mio parere più belli dal 2010 che è Perciò veniamo bene nelle fotografie di Francesco Targhetta. Non credo che la lingua e i contenuti di Marra possano convergere nel romanzo in versi come quello di Targhetta: le idiosincrasie della sua lingua, come indica Santi, si imperniano su fattori differenti, alcuni che abbiamo già visto, come lo scarto sintattico e semantico, la sospensione di alcuni periodi, anacoluti, che necessariamente impongono un ritmo a volte più affrettato a volte più frammentario. Certo è che le sensazioni che emergono sono certamente comparabili: così come i personaggi del romanzo di Targhetta vengono bene in fotografia perché non si muovono, sono esistenzialmente statici nella diacronia della loro storia, anche dalla raccolta di Marra emerge la sensazione di scacco, di abbandono, di sostanziale insoddisfazione. Quello che fa Demetrio Marra, tuttavia, è portare avanti di un passo l’analisi, in questo intercettando per davvero la differente situazione sociale rispetto a dieci anni fa: «l’aria di rivolta»[10] di cui parla e che inscena è realmente dilagante negli strati bassi e subalterni della società. La mobilitazione è ancora germinale, ma ciò che si vede e ciò che ci racconta Marra è che gli individui sono stanchi pure di fare la vittima, hanno capito che non è altro che un’ulteriore forma di addomesticamento: Giusi Palomba ricorda che anche il lavoro interiore è una forma di attivismo, perché nella convergenza di individui decostruiti e svincolati dalle forme di pensiero strutturali e dominanti esperiscono forme di relazione, di vita, differenti. Per concludere, è evidente che Marra inscena, nei suoi versi, il percorso psichico dell’autocoscienza, dell’abbandono delle convinzioni ancestrali (culturalmente e storicamente determinate), delle forme di difesa e di giudizio. Qui c’è tutto, ammette tutto delle proprie eteronomie, dei propri privilegi. Se non sappiamo come continuare, è perché si sono abbandonate le speranze di cambiamento sussunte dal pensiero dominante. Da questo momento si costruiscono le altre realtà.

 

 

[1] Demetrio Marra, Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici, 2024, autoprodotto, p. 39.

[2] Ivi, p. 19.

[3] Ivi, p. 24.

[4] Ivi, p. 60.

[5] Ivi, p. 1

[6] Ivi, p. 25.

[7] Ivi, p. 79.

[8] Ivi, p. 82.

[9] https://www.argonline.it/forme-conflitto-non-sappiamo-come-continuare-demetrio-marra/

[10] Ivi, p. 46.

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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