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Cari tutti

di Alberto Pascazio

Quando si lanciarono di sotto, Ada e Michele rimbalzarono.

Per sessantatré anni avevano superato insieme le loro ostili intimità. Le puzze, le macchie, le pelurie. Le ciabatte, le manie, le fisime. Le rinunce, i silenzi, i rumori dal bagno. Si erano trovati presto, per caso, e avevano trasformato quel caso in missione. Michele aveva aiutato lei a salire sul parapetto. Le aveva raccomandato di tenersi forte, perché dovevano lanciarsi insieme. Poi, con fatica, era salito anche lui. Preoccupato che il proprio ginocchio cedesse nello slancio o che Ada perdesse l’equilibrio prima che anche lui riuscisse a salire, aveva agganciato due corde al divano e le aveva poi legate una alla vita di lei e l’altra alla propria. Per fortuna, il parapetto era abbastanza largo e riuscirono a fare tutto con calma, senza tuffi al cuore.

 

Si erano decisi a farlo la sera prima, quando i ragazzi erano andati via. A letto, nel silenzio, dopo aver lavato i denti e riposto i vestiti, si erano guardati negli occhi minuscoli, aggrediti dalla pelle, e si erano scambiati un sorriso, senza parlare. Avrebbero evitato il dolore che avevano sempre scampato: perdere l’una l’altro, senza scegliere, come avevano sempre fatto. Non avrebbero lasciato fare al caso, che diventava ormai sempre più torreggiante, né sperato, come avevano cominciato a fare senza dirselo, di morire per primi.

 

Il capodanno era andato bene, le lenticchie erano piaciute a tutti, anche ai bambini. E le girandole, di cui ancora si scorgevano i segni sottili e neri sul pavimento del balcone, avevano fatto la loro parte nei festeggiamenti del quartiere. Sul tavolo, di fianco alle giacche, che avevano riposto con cura nonostante il freddo del mattino, una lettera spiegava le loro ragioni:

 

Cari tutti,

a un certo punto della vita hanno smesso di chiamarci per nome. Ci hanno prima chiamato papà e mamma, zio e zia, poi nonno e nonna. A noi questo non sta bene. Non è mai stato bene. Noi siamo Ada e Michele. Nient’altro e per sempre; vale a dire, ancora per qualche ora. Non abbiamo bisogno di un altro inutile e falso attributo: vedova o vedovo.

Non state a crucciarvi troppo: vi abbiamo voluto bene. Questo vi basti. Ma vi abbiamo anche odiato. Abbiamo odiato voi figli, solo per il fatto di averci trasformati in altri nomi, diluendo le nostre identità. Non soffritene, sappiamo che non è colpa vostra.

Abbiamo odiato anche i nostri nipoti, perché ci ricordano che siamo vecchi. Bella rogna. Raccontate loro la storia di Ada e Michele come quella di due persone libere, che non vogliono esistere in corpi inutili e stanchi. E non vogliono esistere l’una senza l’altro.

Speriamo apprezzerete il fatto che non vi lasciamo poi molto, neanche buoni consigli.

Ada e Michele.

 

Michele avrebbe voluto dire di più. Sciorinare le nozioni che aveva imparato in quarant’anni d’insegnamento, ma Ada lo aveva esortato a esser breve, a non girarci attorno, come sempre.

«Ma io voglio dirglielo che non c’è niente di nobile a essere vecchi».

«È una lettera, Miche’, non sono le tue memorie».

«Ma dobbiamo spiegare» — notò la spalla destra di lei che si sollevava, nello sforzo di stringere l’ultima Moka — «la chiudo io?»

«No no, che poi non riesco ad aprirla»

Ada rilassò le spalle e i pensieri, poi si girò a guardarlo, solo con la testa, e gli sorrise. Non pianse nessuno, però: «t’oh, divertiti, stringi più che puoi».

Risero. Poi lui ci riprovò, più per parlarle ancora che per convincerla davvero. Gli piaceva parlare con Ada, sentirsi intelligente e stupido, come se il cervello si contraesse a ogni risposta delle sopracciglia di lei:

«È che non abbiamo detto tutto».

«Miche’, tu quanti anni hai?»

«Ottantadue».

«E io?»

Michele sollevò il beccuccio della Moka, scottandosi un poco:

«Ottanta, quindi?»

«Quindi per dire tutto ci vorrebbero centosessantadue anni».

Lui bofonchiò, al solito, contro quella logica implacabile:

«Dai, hai capito, questi credono che noi pensiamo lenti perché siamo diventati lenti. Non capiscono che la tragedia è questa».

«Quale?»

«Che siamo ancora qui a dirci cose nuove. Che non vogliamo smettere di essere gli Ada e Michele che siamo sempre stati. Che è il ricordo a essere la nostra condanna».

«A morte».

«Eh, a morte, a morte. ‘Sti cazzo di ricordi prima servivano solo a vivere — tipo “la Moka scotta” — e noi li abbiamo trasformati in strumento per pensare. Abbiamo levato alla felicità l’unico luogo possibile: il presente. E ci siamo inventati anche i ricordi del futuro: le illusioni. Siamo la specie più stupida che esista e ci sentiamo anche intelligenti».

Ada lo guardava parlare come si fa con un liceale brillante. Che questo era ancora per lei: un liceale brillante.

«I ricordi non servono a niente, ma ormai ce li teniamo. Ecco: io non li voglio più. Non senza di te».

«Neanche io, Miche’» — si scosse da quella stupida tenerezza — «ma è una lettera di tutti e due. Fosse per me avrei scritto solo nessuno dei due vuole morire senza l’altro».

«Lo so».

Michele versò il caffè nelle tazzine bianche e marroni:

«Vuoi farlo ancora?»

Lei gli concesse un altro sorriso, senza rispondere. Poi lo abbracciò e infilò una mano sotto il pigiama.

 

Ad aspettare le loro sagome, pronte a saltare dal quinto piano, non c’era nessuno. Non un bambino col naso all’insù che dice “mamma, che fanno quelli?”. Non vigili del fuoco, eroi, o curiosi. Avevano scelto l’alba per questo: volevano essere soli. Nonostante l’attrito con l’aria, sempre più forte in quei pochi secondi, riuscirono a tenére strette le mani, tènere e forti come la prima volta. E caddero. Caddero e basta, senza pensare a niente: finalmente, i ricordi erano solo un ricordo.

 

Al momento dell’impatto, il marciapiede li respinse elasticamente. I loro corpi, ancora intrecciati nelle dita — e vivi, per quanto ne sapessero — furono rilanciati in aria con gentilezza, disegnando nel cielo due traiettorie oblique, quasi che la terra li rifiutasse. Stranamente, l’orologio di Michele non si fermò, ma continuò a battere i secondi. Era a carica manuale: un tempo virtualmente infinito.

 

La loro lettera avrebbe assunto tutto un altro significato, senza i loro corpi disarticolati e vividi. Forse erano scappati via. Irresponsabili, pazzi: i figli e i documenti, i nipoti, le chiacchiere. A chi sarebbero finiti gli ori?

A loro due bastava non mollare la presa, continuare a tenersi per mano, per proiettarsi insieme verso quello che non sapevano. Non avevano saputo tante cose, di quello che avevano visto fino ad allora, ma avevano saputo quelle mani, strette insieme. E quella Moka, a volte troppo stretta anche lei, che non si riusciva a riaprire.

 

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Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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