I disertori di Magliani
Confesso che quello che adoro più di tutto negli scritti di Magliani sono quelle sue frasi veloci e lapidarie di bellezza che spuntano qua e là. Sono sciabolate che mi mozzano il fiato, inaspettate e piene di verità, spesso anche troppo semplici, o all’opposto non perfettamente trasparenti, come si deve a ciò che ci abbaglia, scacciando il senso pedissequo in secondo piano. Si ha l’impressione che gli vengano fuori da sole, come dei rutti, senza traccia di fatica o artifici, che anche nel migliore dei casi lasciano la loro impronta. Amo la scrittura di altri autori italiani contemporanei, ma raramente ricevo da loro simili scrollate. Devo tornare alle pagine di Parise, o di Pasolini (spesso anche nei saggi), per trovare questa potenza innata e impudicamente consapevole di sé, quasi sfacciata, offensiva, e nello stesso tempo innocente e pura. Devo ammettere che mi aggiro nelle sue pagine come in bosco si cercano i funghi, trepidante, provando un’emozione anche fisica quando senza preavviso inciampo in una gemma. Gli sono riconoscente per questo suo regalo, che tra il resto mi fa rendere conto a che punto amo la lingua che in genere inghiotto senza pensarci, di che piaceri può darmi con i suoi poteri nascosti. E che mi insegna, mi rende più esigente nei confronti di quello che scrivo io.
E anche con questo suo romanzo Il cannocchiale del tenente Dumont (L’Orma, 2021) ho avuto un ottimo bottino. Il telo non ricopre interamente la finestrella, una fessura di tramonto incide pietra e calce. O anche, alla pagina dopo: Il cielo, quando passano nelle vicinanze le rondini, sembra cigolare, e sale dal vicolo un vociare di donne e bambini. O anche: Quando tra le nuvole si rifà chiaro è tardi per distinguere qualcosa e il crepuscolo crolla tra costa e mare. O: Appaiono pietraie saldate al cielo, fin su a mezza costa, dove si alzano cinture di muraglie, resti di torri di avvistamento. O: I rumori a una cert’ora si fanno gemiti, una specie di magone, il rospo della notte non aspettava altro che passassi tu per inghiottire la valle. O: La valle si è spenta nella polvere e non ha piovuto. Il caldo nell’aria apre le pigne, gli scogli lichenosi e l’erba mutilata dallo sfalcio trattengono un’incandescenza celeste. O: Un richiamo di uccelli, poi scende la sera. O: La valle si scuoia come una biscia. Ma sono solo esempi un po’ a caso che cito per dare un’idea, e certo estratti dal ritmo vibrante di tensione trattenuta del testo, perdono turgidità e freschezza, come un fungo tristemente costretto sul bancone di un mercato, senza la vita che aveva nel bosco, dove aveva casa.
Veniamo alle cose serie. Con i romanzi di Magliani, e questo non fa eccezione, vivo sempre un disagio, perché sono molto preso, o meglio sommosso negli organi interni, ma non capisco bene da cosa. Mi ritrovo sempre a domandarmelo, e trovo delle risposte che non mi soddisfano. Anche qui la vicenda è nitida – tre disertori dell’esercito napoleonico scappano a piedi verso la Liguria dopo la battaglia di Marengo – ma non succede niente di eclatante. O quando succede noi non lo vediamo, lo intuiamo dopo. E anzi viene ripetutamente detto in modo esplicito, che non succede nulla: Il giorno è attesa …. C’è tempo, solo quello… Non succede mai nulla (varie volte)…. Non si dicono nulla (varie volte) … Da quando sono giunti dalle parti di Porto Maurizio non è successo più nulla, e non è avvenuto il minimo avvicinamento alla meta.
I tre ex-soldati si muovono di notte e riposano di giorno, tra i muretti e i pianelli con i quali ci ha familiarizzato con la sua opera l’autore, e anzi guarda caso finiscono per arrivare proprio in Val Prino e a Dolcedo, che conosciamo ancor meglio (prima di leggere Magliani non sapevamo nemmeno che esistessero), ma quello che vediamo sono soprattutto le pause, i momenti vuoti. La fuga dei tre si fa sempre più dura, mano a mano che l’estate avanza e finisce, e loro mangiano solo erbe e bacche, quindi si presume che siano sempre più affamati e infreddoliti, e uno di loro è sempre più malato, ma non ci è detto cosa provano, non possiamo sapere cosa pensano, e se pensano, a parte qualche sprazzo qua e là, quasi dato per scontato, senza una continuità narrativa. Del resto di loro non sappiamo praticamente nulla, a parte qualche tratto fisico (piccolo, scuro,un vero basco). Anche le parole che si dicono ci aiutano poco, sono poche e scontate, sottintendono quello che è più importante, se c’è (Che succede, basco? Cosa dovrebbe succedere?), anche se qui c’è qualche isolato affondo filosofico. Certo ci sono dei solidi cavi narrativi, che sembrano trainarci da qualche parte, una primordiale dipendenza dall’hashish, un progetto di imbarcarsi per una meta lontana, una epidemia, ma si sfilacciano, si rivelano non poi così importanti. Come non è essenziale che la vicenda sia narrata da una voce terza, anch’essa presa in una sua peripezia che perde via via consistenza.
Il problema è che i tre sono dei disertori, e quindi il loro posizionamento non è il nostro (Perché disertore non significa mica sbandato, uno sbanda e bene o male si risolve, ma disertare e qualcosa che non finisce, diventa una missione, una carriera), loro ragionano da disertori (Il disertore, senza saperlo, lavora fino alla fine a qualcosa di impossibile, non c’e in effetti un sogno, niente potrebbe avverarsi, se non che si sta già facendo il possibile per allungare il tempo, tutto lì), non hanno ambizioni (Lui detesta le ossessioni, di ogni tipo, vivrebbe sempre cosi, nello stordimento), non hanno emozioni, o non le lasciano trasparire, vanno avanti per inerzia (L’istinto, cos’altro governa un disertore?), per fedeltà a sé stessi (ma anche agli altri, inaspettatamente), non hanno attaccamenti geografici (E’ che da nessuna parte un disertore sarà più un indigeno…), sembra quasi che non abbiano ricordi, anche se poi si vedrà che non è sempre vero. Non hanno nemmeno paura della morte, sembra: quello malato, il capitano acculturato, la prende come viene, il soldato la cerca volontariamente, il tenente l’accetta senza battere ciglio, quando gliela propongono (e invece per lui ci sarà un destino diverso). La diserzione è in realtà una condizione metafisica, apprendiamo (la tua diserzione è, e da quel momento in poi è sempre, non finirà mai, neanche con te).
Come in molti scritti di Magliani il personaggio principale, quello comunque più pregnante e profondo, e che appunto fa imballare la scrittura, lo si è visto dalle citazioni, è però il paesaggio, e non a caso il cannocchiale del titolo inquadra principalmente lui. Perché è lui che respira e parla, che detta legge, che decide, gli uomini si adattano alle sue forme e ai suoi respiri. Non si tratta di una natura incontaminata, sono anzi sempre valloni e versanti modellati dall’uomo, sempre coltivati o pascolati fino all’ultima zolla di terra, o insomma percorsi, anche quando appaiono vuoti. Sono scoscendimenti che dalle creste delle montagne in alto scivolano al mare giù in basso, e che pullulano di segni umani, e anzi chi li osserva viene a sua volta osservato (E’ come se te lo sentissi addosso che ti stanno tenendo d’occhio), anche quando non se ne rende conto, e più aderisce a quelle superfici vive, meglio lo capisce. Visti da lontano gli abitanti-contadini sono minuscole silhouette, come quegli sgorbietti colorati nei quadri del Guardi, visti da vicino sono poveracci distrutti dal lavoro, sporchi e laceri. In ogni caso uomini e oliveti e animali e uccelli sono legati, fanno un tutt’uno. Ai disertori, privati di tutto il resto, rimane questo legame con la terra e le pietre e i cespi d’erba (Per tutto il resto del giorno, le rocce, gli alberi, i prati tornano a rilasciare brusii di insetti, fin quando la terra non riassorbe ogni voce e si sente solo qualche rana). Lo vivono anzi in tutta la sua pienezza, senza gli schermi concettuali e pratici che abbiamo noi, quei filtri magici che ci danno l’illusione che le nostre ore e giornate abbiano un senso e una direzione, quelle droghe egotiche (sempre volte al futuro e al passato) che ci nascondono che siamo prima di tutto dei corpi alla deriva nello spazio che ci circonda, uno spazio abitato ma che vive anche e soprattutto di vita propria (C’era un odore di alga e capelvenere sotto gli olmi). Loro guardano, sanno guardare (Guardare e un compito che non si esaurisce, trasforma le cose, come in un delirio, un picco di pietra scura diventa subito un guardiano gigante, e domina, divide il cielo, crolla e si rialza).
Mi colpisce sempre come le inattualità che Magliani ci mostra nelle sue narrazioni, che non sembrano avere molte risonanze con quello che viviamo, risultino tanto conturbanti, e insomma attuali. E forse proprio in questo romanzo c’è la risposta. Quasi tutti i suoi personaggi sono dei disertori, percorrono i paesaggi (anche urbani) con la loro precarietà e difetto di senso, sembrano sempre lì per caso, e nel contempo sono in inestricabile contatto con il loro intorno naturale-antropico (siamo nell’Antropocene), con il presente. La loro condizione evacua il troppo pieno di riflessioni e di sensazioni, e di riflessione sulle sensazioni, di parole, tante parole, di compulsive zavorre nevrotiche, ci fa apparire una dimensione dell’esistenza che abbiamo rimosso, per restare nel campo nevrotico. Anche noi siamo come loro, e nella loro situazione, anche se facciamo di tutto per nascondercelo, è questo che ci disturba. Il tempo che forse esiste solo da disertori, non è il pieno giorno o la piena notte, l’alba o il tramonto, ma qualcosa di pieno lo stesso, un tempo di cui non si parla mai, in qualche modo sconosciuto.