“Don’t look up”, o come abbiamo tergiversato di fronte al mutamento climatico

di Andrea Inglese

.

In Losing Earth (Perdere la Terra. Una storia recente) del 2019, lo scrittore e giornalista statunitense Nathaniel Rich ricostruisce la storia del decennio (1979-1989) che ha visto emergere l’allarmante verità sul riscaldamento climatico all’interno delle istituzioni scientifiche e politiche internazionali, e che si è concluso con un nulla di fatto, con una ottusa e sciagurata incapacità di agire, di prendere decisioni vincolanti per la riduzione delle emissioni di carbonio. Scrive Rich nel capitolo introduttivo del suo libro: “Nel corso dei dieci anni passati tra il 1979 e il 1989, questa opportunità [d’intervenire sul cambiamento climatico] si è veramente offerta a noi. A un certo momento, alle principali potenze mondiali non mancavano che poche firme per instaurare un quadro giuridico vincolante in grado di ridurre le emissioni”. Mai dopo di allora si è stati così vicini all’obbiettivo. Prima, insomma, che l’Antropocene diventasse un soggetto di dibattito “culturale” sui social e prima che si costituissero partiti più o meno spontanei di negazionisti, illustri scienziati avevano fornito ai dirigenti politici delle grandi potenze mondiali tutti i dati necessari, per stabilire tempestivamente una coordinata e condivisa correzione di rotta sul piano industriale ed economico. In questa vicenda, gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo primario, in particolar modo in occasione del Summit della Terra, tenutosi a Rio nel 1992, il più grande raduno di dirigenti politici che la storia abbia conosciuto. Oggi, in maniera quasi unanime, Rio 1992 è considerato l’imprescindibile punto di partenza nella battaglia contro il riscaldamento globale, il momento in cui si sono elencati i principi fondamentali in materia di ambiente, di sviluppo sostenibile e di effetti nocivi che il sistema produttivo umano causa sul clima dell’intero pianeta. E, come sappiamo, questi principi hanno trovato una loro prima applicazione concreta, ossia vincolante (con obbiettivi specifici da raggiungere) solo con l’entrata in vigore del protocollo di Kyoto nel 2005 per gli Stati firmatari. In sostanza, tra l’enunciazione dei principi in difesa dell’ambiente e l’accettazione di sottoporre a vincoli concreti e quantificabili le proprie politiche di sviluppo sono passati tredici anni. Quello che il libro di Rich ci ricorda è che Rio, in realtà, arrivava tredici anni dopo la prima conferenza mondiale sul clima di Ginevra del 1979, nel corso della quale gli scienziati di più di cinquanta nazioni si erano già trovati unanimemente d’accordo sulla necessità di prevedere e prevenire i cambiamenti climatici che dipendessero dell’attività umana e i cui effetti fossero negativi per il benessere dell’umanità. Per quanto riguarda l’esito del Summit di Rio, Rich scrive: “In qualsiasi momento, Bush [senior] avrebbe potuto esigere la firma di un trattato giuridicamente vincolante, e avrebbe indubbiamente ottenuto successo: dopo lo smantellamento dell’Unione Sovietica non solo gli Stati Uniti dominavano economicamente e militarmente il mondo, ma erano responsabili di più di un terzo delle emissioni di carbonio dell’umanità”. Nulla di tutto ciò avvenne, ma in quegli stessi anni l’industria del petrolio e del gas statunitense passò da posizioni difensive e attendiste a un’offensiva massiccia per imporre, a suon di propaganda, l’idea che le cause umane del cambiamento climatico fossero soggette a controversia dal punto di vista scientifico.

È impossibile guardare Dont’look up di Adam McKay (Netflix 2021), senza coglierne l’aspetto non semplicemente satirico, ma anche allegorico. Sei mesi e qualche giorno separano la scoperta di una cometa diretta sulla terra dall’impatto catastrofico che essa avrà una volta giunta a destinazione. È una finestra temporale stretta, situata tra l’annuncio di un fatto “verificato scientificamente” di assoluta gravità e la sua altrettanto “prevedibile” realizzazione. In questo lasso di tempo, è dato all’umanità, attraverso i capi di Stato che dirigono le maggiori potenze mondiali, agire rapidamente e efficacemente, per evitare con tutti i mezzi possibili l’impatto letale del corpo celeste contro il nostro pianeta. L’intreccio tragicomico – difficile eludere l’ombra cupa che la meccanica ridicola proietta dietro di sé – è incentrato sul continuo incepparsi di ogni più razionale e condivisa risoluzione. Dapprima è lo sfavillante alone della futilità mediatica (televisiva e social) che vela ogni comprensione reale delle circostanze. Ad esso si aggiunge, quale ulteriore coltre offuscante, la dinamica dell’azione politica, dominata da una ottusa e feroce spinta di pura autoconservazione, incapace di stabilire minime gerarchie di valore e visuali temporali appena più ampie del calendario elettorale. Infine, è l’intervento dell’interesse privato, ossia dell’imprenditore visionario e monopolista, a minare definitivamente ogni operazione sensata, facendo prevalere un’avidità ormai sganciata da qualsiasi contesto reale.

Ventisei anni sono passati, nella realtà, tra la prima World Climate Conference di Ginevra e l’attuazione del protocollo di Kyoto, dal momento, insomma, in cui si avvistarono i gravissimi problemi generati dall’uso dei combustibili fossili a quello in cui si è giunti alle prime risoluzioni concrete per limitarlo. Il riscaldamento climatico è parso un fatto altrettanto lontano, seppure scientificamente accertato, dell’esistenza, nel film di McKay, di un asteroide del diametro di alcuni chilometri che finirà per schiantarsi sul pianeta. A differenza di quanto alcuni amano pensare in tempi pandemici, i fatti continuano a esistere, e si prestano ancora ad accertamenti scientifici, ma è indubbio che, se qualcosa di simile a una verità circoscritta esiste, essa non è di per sé facilmente traducibile, comunicabile e dotata di una intrinseca forza di persuasione sulla mente umana. Da buon autore satirico, McKay possiede un’efficace sguardo sociologico e coglie perfettamente l’effetto di diffrazione che l’enunciato scientifico subisce una volta che è calato nei tre “campi” – per utilizzare a proposito la lezione di Bourdieu – che dominano la vicenda narrata: quello politico, quello dei media tradizionali e delle piattaforme elettroniche, e quello dell’economia. Ognuno dei tre campi funziona – lo sappiamo – secondo logiche in parte autonome, ma in questo caso le leggi del potere politico (incarnate dalla presidenza della Casa Bianca), della comunicazione giornalistica e digitale (incarnate dai conduttori televisivi e dal popolo dei social) e del profitto economico (incarnate dall’imprenditore Peter Isherwell) funzionano a pieno regime e in disconnessione completa con gli altri piani di realtà. Ciò a cui assistiamo non è il dissolversi dei fatti in un puro gioco d’interpretazioni, ma il tentativo di ognuno dei soggetti dominanti nei rispettivi campi d’imporre al resto della società il proprio punto di vista, la propria interpretazione del fatto d’interesse generale, ossia l’arrivo della cometa. La società contemporanea ha trasformato l’ego individuale in un organo proliferante e impazzito, che non è più in grado di essere bilanciato da alcun principio di realtà. Il diniego di tutto quanto intralcia la sacrosanta realizzazione di sé costituisce allora uno dei punti di convergenza tra governati e governanti, che si riconoscono ad un certo punto nello slogan “Don’t look up”. La verità che la cometa insopportabilmente ribadisce, però, è che qualunque sia la posizione di vantaggio relativo che occupiamo in una data società, tutti apparteniamo in definitiva a una sola e medesima Terra, e se questa è minacciata non ci sarà un altrove nel quale rifugiarsi. La permanenza delle ineguaglianze sociali e di classe ha legittimato per secoli l’idea che i privilegiati potessero accaparrarsi uno spazio di vita migliore, lasciando dietro di sé, alla maggioranza dei poveri, un mondo di miseria e violenza. L’asteroide che si abbatte nell’oceano pacifico – così come gli effetti del riscaldamento climatico – non risparmieranno i privilegiati neppure nei loro rifugi ipersecuritari, ipertecnologici, iperconfortevoli. Ma se c’è un momento in Don’t look up – che arriva ovviamente troppo tardi –, in cui anche le masse più obnubilate sono costrette ad accettare l’orribile realtà della fine, questo non accade per la cerchia più ristretta dei ricchi e potenti. Essi soffrono fino alla fine di quella che potremmo chiamare la sindrome di Elon Musk, ossia l’irresistibile desiderio di salvarsi, proiettando l’altrove sociale in un altrove planetario, e di essere pronti a lasciarsi dietro di sé non solo quasi otto miliardi di poveri cristi, ma anche l’unico pianeta dotato di vita che l’uomo abbia conosciuto.

(Ne approfitto per rinviare a un bell’articolo, dedicato da Marco Mancassola, alla figura di Musk, e per citare un passo dall’ultimo libro di Bruno Latour (Où suis-je? Leçons de confinemnt à l’usage des terrestres, La Découverte 2021), dove è ancora questione dell’imprenditore d’origine sudafricana : “C’è da chiedersi se l’espressione ‘coscienza planetaria’ piuttosto vuota fino ad ora, non abbia cominciato a caricarsi di senso. Come se si percepisse in lontananza questo slogan imprevisto, ma ogni giorno meglio scandito: ‘Confinati di tutti i paesi, unitevi! Avete tutti gli stessi nemici, ossia coloro che vogliono scappare su di un altro pianeta’.”)

Don’t look up s’inscrive nella migliore tradizione del cinema satirico statunitense e, pur mancando della fastosità di Kubrick e del genio comico di Peter Sellers, è accostabile al Dottor Stranamore (1964) o al più recente War the Dog di Barry Levinson (1997), con la coppia De Niro e Hoffman. L’efficacia di un film satirico è data, mi sembra, dall’ampiezza dei meccanismi sociali “malati” che riesce a trattare, ed è evidente che gli Stati Uniti, per il ruolo egemonico e di superpotenza planetaria che ancora svolgono, offrono un osservatorio straordinario, in cui anche le realtà più periferiche finiscono per riconoscersi. È fin troppo facile, realizzare satira su realtà culturali e politiche periferiche, minori, provinciali. Ovviamente, i quattro anni delle presidenza Trump, ma anche il ruolo crescente delle piattaforme elettroniche nella vita della popolazione mondiale, hanno preparato il terreno per quel trionfo dell’idiozia, che il film di McKay inscena. La satira ben riuscita, poi, ha una funzione fondamentale: essa permette di disidentificarsi dai modelli sociali vincenti e di rinnegare il tono serio e convinto con il quale assumiamo, facciamo nostri – come fosse una conquista dell’intelligenza (della mente aggiornata e “progressista”) – i discorsi dominanti, i temi del giorno, le opinioni d’ultima fattura, che sarebbe imperdonabile lasciar macerare nei meandri del dubbio e dell’esame critico.

Tra le prime scene del film, ve n’è una che riguarda un evento minore, assolutamente trascurabile a fronte delle vicende cruciali che si svolgono in seguito e che hanno portata mondiale. I due scienziati responsabili dell’identificazione della cometa e della sua orbita, accompagnati da un terzo scienziato che lavora per la NASA, sono spediti a Washington per parlare direttamente con il presidente (donna) della loro scoperta sconvolgente. Alla Casa Bianca sono accolti da un generale pluridecorato del Pentagono. Questi, dopo aver passato con loro lunghe ore di attesa fuori dalla stanza ovale, compare ad un tratto con bottigliette d’acqua e qualche pacchetto di patatine. Li distribuisce agli scienziati esausti e affamati, lamentando però il loro costo eccessivo: “Qui qualsiasi cosa costa un braccio”. Viene, quindi, da tutti rimborsato prontamente. Il personaggio più giovane, la dottoranda in astrofisica Kate Dibiasky – è lei che ha dato il nome alla cometa –, scopre però qualche ora dopo che snacks e bibite sono gratuitamente a disposizione di tutto il personale e degli ospiti della Casa Bianca. Nel frattempo il generale li ha mollati, per partire per Okinawa, dove lo attende qualche faccenda apparentemente più importante della probabile fine del mondo, di cui si dovrebbe discutere a Washington. Durante tutto il seguito della storia, fino a pochi giorni da quella che è ormai l’inevitabile e certa distruzione del pianeta, Kate Dibiasky non smetterà di chiedersi incredula per quale motivo il generale del Pentagono ha voluto truffarli, sottraendo loro una somma che di certo non lo ha arricchito. Non solo nessuno può garantire – come già insegnava Hume – che domani il sole sorgerà, o che la Terra sia ancora integra e preservata da un incidente cosmico, ma nessuno è neppure in grado di spiegare perché un generale del Pentagono sessantenne, all’apice della sua carriera, faccia pagare a tre scienziati che non hanno mai messo piede nella Casa Bianca qualche pacchetto di patatine e bottiglietta d’acqua, che ha prelevato gratuitamente nel bar a disposizione di tutti. Se il destino del cosmo è imprevedibile per la limitatezza del sapere umano, l’idiozia dell’uomo è impenetrabile, anche quando si manifesta nei gesti apparentemente più irrilevanti e banali, come la piccola truffa che il generale, dall’aria per altro garbata e cortese, ha realizzato alle spalle della Dibiasky e dei suoi due colleghi.

Print Friendly, PDF & Email

4 Commenti

  1. Un film eccezionale che consiglio di vedere. Per agire sul cambiamento climatico servirà un trauma, un evento catastrofico, probabilmente legato all’innalzamento dei mari, direttamente nel primo mondo.

  2. Caro Jan, contento che sia piaciuto anche te. Trovo che sia uno dei migliori e più efficaci film satirici prodotti in questi anni.

  3. Mi perdonerete: a me non è piaciuto granché. Troppo grottesco, troppe critiche (ai media, al narcisismo, alla politica, alla meme culture, ai santoni del digitale, ecc., e, ovviamente, a quello che è accaduto con la pandemia di covid-19). Dello stesso regista mi era piaciuto, e tanto, The Big Shot, sulla crisi finanziaria. Questo, per essere un film che scuote le coscienze, l’ho trovato troppo compiaciuto. (Il finale sentimentale poi, no, non ci sta proprio).

  4. Cara Renata,

    non si puo’ certo convincere ad amare un film, che non è piaciuto. Dal mio punto di vista pero’ la forza del film è proprio la portata critica, che non è critica di un ambiente specifico, ma di una civiltà – e scusa la citazione, di una “civiltà idiota”, in cui l’ossimoro è d’obbligo. Aggiungo per altro che neppure i due scienziati restano del tutto esclusi dal raggio della critica, come ha ribadito Bruno Latour – che anche ha amato molto il film – in un intervento recente sulla radio francese.
    Il finale, pure, mi ha convinto. Un finale anti-spettacolare, nel momento stesso in cui arriva la catastrofe. Ma noi stessi cosa faremmo: davvero faremmo a gara per fare l’ultima scopata in cima alla Tour Eiffel o in mezzo a Piazza S. Pietro con uno sconosciuto? Io sarei per l’ultima sbronza probabilmente, ma l’idea della tavolata in cui si parla del pieno e del meno, come fosse un giorno qualsiasi, quando ormai la terra è spacciato non mi è dispiaciuto. Un finale in anticlimax.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Da “80 fiori”

di Louis Zukofsky
Traduzione di Rita Florit. Prima traduzione italiana del più "teorico" degli oggettivisti americani.

“Si”#2 Lettura a più voci

di Renata Morresi
Un'altra voce, un'altra lettura del lavoro di Alessandro Broggi, a partire da "Sì"

“Si” #1 Lettura a più voci

di Andrea Accardi
e di Leonardo Canella
leggono "Sì" di Alessandro Broggi. Un progetto di lettura a più voci e secondo approcci anche molto diversi di un libro difficilmente classificabile.

V.C.B.*

di Giancarlo Busso 
Il cortile della cascina era in catrame. Il catrame in estate è diventato un problema, ma questo non accadeva quaranta anni fa. Arrivavano camion pieni di bestiame dalla Francia, alcuni camion avevano milioni di chilometri percorsi e potevano ancora percorrere il periplo della terra, tante volte quante era necessario per ritornare qui nel cortile di catrame.

Da “Hitchcock e l’elitropia”

di Riccardo Gabrielli
A detta del "Dictionnaire portatif" (1757) del Pernety, furono i pittori italiani che, in accordo a una fulgida polisemia, cominciarono a chiamare “pentimenti” un carattere tipico dei disegni, ossia quell’indugio, quella specie di esitazione che non è già cancellatura, bensì ventaglio di idee transitorie, simultaneità dei possibili: le teste ritorte in ogni direzione, i viluppi di braccia e gambe doppie, le stratificazioni a matita...

Evanescenza e consistenza del mondo: Zanzotto versus Ponge

di Andrea Inglese
Il mio proposito è quello di avvicinare l’opera di Zanzotto a quella di Francis Ponge, utilizzando quest’ultima come un reagente che sia in grado far risaltare e porre in dialogo aspetti delle poetiche di entrambi gli autori.
andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: