Printed in Beirut di Jabbour Douaihy

di Giuseppe Acconcia

“Nel pieno di una delle estati roventi che hanno travolto Beirut nella seconda decade del ventunesimo secolo, un giovane uomo con le sopracciglia alte e arcuate come se le sollevasse in continuazione per dire di no, scese da un minibus sulle cui fiancate era stata appiccicata la scritta “Non dimenticatevi dei dispersi, dei sequestrati e dei mutilati di guerra”; eccolo, stringe al petto, all’altezza del cuore, un grosso quaderno con la copertina rossa e ha tutta l’aria di uno che si porta appeso al collo un braccio fratturato o ferito durante una sparatoria. Mentre tira dritto martellando il selciato con i tacchi delle sue scarpe nuove, gli alberi vizzi e i passanti troppo lenti paiono ostacoli messi lì per intralciare la sua galoppata verso traguardi indifferibili. Si infila in un palazzo con la facciata impreziosita da una lastra di basalto scuro il cui decoro risulta ancora più astratto per via di un vecchio colpo di mortaio, si sistema la cravatta rosso vivo davanti allo specchio dell’ascensore e poi entra nell’ufficio di un uomo dall’età indefinibile, che ha abbellito una parete con la locandina in tedesco dell’Opera da tre soldi. Seduto alla scrivania, gli occhiali spessi sul naso, quell’uomo stava ingannando la noia fin dal mattino, sottoponendo alla prova dei fatti la leggendaria memoria che tutti gli amici gli riconoscono: con un dito solo e senza copiare, batteva al computer l’ode preislamica di Zuhayr ibn Abi Sulma. Metteva tutti i segni vocalitici e per ogni strofa sceglieva un font diverso dal menu proposto da Word. Con il carattere Andalus Regular, era arrivato a metà del celebre verso La guerra è quella che avete conosciuto e assaporato. / Nulla di quel che si dice su di essa è inventato, quando si ritrovò davanti il giovane spilungone. L’indice destro sospeso a mezz’aria, lo fissò mentre si presentava:
– Buongiono, mi chiamo Farid Abu Sha’ar.
– Abu Sha’ar? Cos’è, si è scelto un nome d’arte?
Il ragazzo non apprezzò la battuta ma l’editore, guardandolo dritto in faccia, gli stava già prendendo di mano il quaderno; dopo averlo aperto alla prima pagina, strabuzzò gli occhi, emise un fischio di sorpresa, lesse ad alta voce: “Il libro a venire” e glielo restituì aggiungendo contrariato: “Questo qui è il titolo del saggio di Maurice Blanchot.” Avevano smesso di accettare testi scritti a mano da almeno dieci anni e non pubblicavano più raccolte poetiche, in magazzino ce n’era un’enormità, tanto che le davano gratis a chiunque le chiedesse. Lui obiettò che il suo non era un libro di poesie ma l’uomo seduto alla scrivania lo stoppò emettendo il verdetto definitivo:
– Abbiamo smesso di pubblicare anche la prosa.
[…]
Il periplo terminò alla “Tipografia F.lli Karam, fondata nel 1908” mentre il sole tramontava tra i minareti della Grande Moschea Blu. Dopo aver percorso un’angusta viuzza in salita, entrò in un’oasi di lillà che gli diede l’impressione di trovarsi fuori dai confini urbani; vide due gatti giocare nella corte esterna e sentì odore di inchiostro. Lo ricevette un uomo con una cicatrice sulla guancia, una ferita profonda che aveva avuto bisogno di molti punti di sutura; si chiamava ‘Abdallah, o anche Dudul, era l’ultimo erede della tipografia, e lo ascoltò squadrandolo per bene.
Quando Farid disse che voleva far pubblicare il suo libro, la risposta gli arrivò da dietro, da un angolo della stanza, in un arabo striminzito:
– Cosa c’è nel libro?
Non l’aveva notata, quand’era entrato; era seduta su una poltroncina di pelle e stava leggendo Il buio oltre la siepe in edizione francese.
– Ci ho spremuto dentro ogni fibra del mio essere.
‘Abdallah ripeté la frase in francese perché la moglie capisse, e lei, d’istinto, tese la mano destra verso il manoscritto come se il semplice fatto di sfogliarlo le potesse rivelare in cosa consisteva la “spremuta”.
– Abbiamo bisogno di un correttore di bozze per l’arabo…
La proposta del proprietario della tipografia lo mandò in confusione; sentendo con chiarezza che, alle sue spalle, la donna lo stava guardando, chiese un po’ di tempo per pensarci; ‘Abdallah gli rispose che si augurava non ce ne volesse troppo. E lui tornò all’inizio della settimana seguente, con il suo quaderno sottobraccio.”
(tratto da Printed in Beirut, pp. 7-13)
(Printed in Beirut, Francesco Brioschi Editore, traduzione Elisabetta Bartuli, pp. 262, 18 euro)

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giuseppe acconcia
giuseppe acconcia
Giuseppe Acconcia è giornalista professionista e docente di Storia delle Relazioni internazionali all'Università di Milano Statale e di Geopolitica del Medio Oriente all'Università di Padova. Dottore di ricerca in Scienze Politiche all'Università di Londra, è stato Visiting Scholar all'Università della California (UCLA – Centro Studi per il Vicino Oriente), docente all'Università Bocconi e all'Università Cattolica di Milano (Aseri). Si occupa di movimenti sociali e giovanili, Studi iraniani e curdi, Stato e trasformazione in Medio Oriente. Si è laureato alla School of Oriental and African Studies di Londra, è stato corrispondente dal Medio Oriente per testate italiane, inglesi ed egiziane (Il Manifesto, La Stampa, Huffington Post, The Independent, Al-Ahram), vincitore del premio Giornalisti del Mediterraneo (2013), autore del documentario radiofonico per Radio 3 Rai “Il Cairo dalle strade della rivoluzione”. Intervistato dai principali media mainstream internazionali (New York Times, al-Jazeera, Rai), è autore de Migrazioni nel Mediterraneo (FrancoAngeli, 2019), The Great Iran (Padova University Press, 2018), Liberi tutti (Oedipus, 2015), Egitto. Democrazia militare (Exorma, 2014) e La primavera egiziana (Infinito, 2012). Ha pubblicato tra gli altri per International Sociology, Global Environmental Politics, MERIP, Zapruder, Il Mulino, Chicago University Press, Le Monde diplomatique, Social Movement Studies, Carnegie Endowment for International Peace, Policy Press, Edward Elgar, Limes e Palgrave.
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