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Vite – Manuel Maria Perrone

Vite

di Manuel Maria Perrone

Quando avevo sette giorni sono rimasto per dodici ore sul petto di un condannato a morte alla vigilia dell’esecuzione.

Oswald Denner, 47 anni, aveva espresso quel desiderio. Non specialmente di avere me, ma di poter appoggiare sul petto un neonato, sentirne il calore, la vita, prima di finire la sua.

Sua moglie era morta incinta in un tentativo di rapina in casa loro e lui aveva dato fuori, tirando bottiglie di metano sulle auto da un cavalcavia. Aveva fatto dozzine di morti, tra cui, si era notato con fredda ironia, una donna incinta all’ottavo mese che stava andando con il marito a farsi fare un controllo in ospedale.

Per legge si può negare l’ultimo desiderio a un condannato solo per tre condizioni: che sia irrealizzabile in tempi normali dalla direzione del penitenziario, che costi più di 5 mila dollari e che leda alla libertà e incolumità altrui.
La prassi vuole che il giorno della condanna il detenuto scriva su un foglio sigillato il suo ultimo desiderio, qual ora per un motivo o un altro non potesse più esprimersi alla veglia dell’esecuzione. Il foglio viene aperto dalla direzione del penitenziario a venti giorni dal giorno fissato, non prima per evitare di assecondare desideri di persone in seguito assolte, non dopo, per lasciare un certo margine alle domande più stravaganti.

Un’aragosta si può trovare in meno di un giorno, ma magari un determinato piatto regionale richiede più tempo di ricerca e preparazione.

La domanda di Oswald aveva chiaramente creato un certo tafferuglio, per cui si era dovuto far appello a un giudice di un tribunale dei minori.

Il neonato non è in condizione di scegliere e quindi in un qualche modo si aliena il suo diritto alla libertà, ma, come aveva fatto notare il pubblico ministero, non sceglie neanche i propri genitori o il personale ostetrico dell’ospedale con cui ha nei primi giorni di vita lo stesso livello di intimità richiesto da Oswald. Anzi il detenuto sarebbe stato monitorato durante quel tempo da personale specializzato.

Li si sollevava il secondo dubbio. Se avesse deciso di fare danno al bebé gli sarebbe bastato molto meno tempo che per intervenire a salvarlo e inoltre tecnicamente non sarebbe stato possibile punirlo per quel gesto. Si decise quindi che avrebbe avuto le braccia legate. Non trovando nessuna controindicazione principale si era quindi accettato di passare alla ricerca del neonato.

La direzione avrebbe tranquillamente potuto far appello a quel punto all’impossibilità di trovarne uno in tempi brevi, ma Oswald era stato un detenuto amato da tutti: aveva smesso di parlare dal giorno del verdetto e con quel suo testone tondo e calvo e i modi un po’ goffi e qualche sorriso incerto, faceva pensare a un bebè. Tutti si erano dati da fare per trovare una soluzione a quel suo strano desiderio: il passaparola era andato quasi più in fretta dell’annuncio pubblico della direzione su giornali, radio e televisione. L’idea di mettere l’immagine di un neonato con la tipica scritta Wanted e la somma proposta ai genitori aveva fatto sorridere più di uno e aveva sicuramente avuto un forte impatto visivo.

Anzi era proprio il rimborso proposto – i 5000 dollari erano stati considerati il costo dell’operazione- che aveva creato una competizione di neonati. Una donna aveva travestito pure suo figlio, un po’ magro ma di già otto mesi, ma era stata scoperta. Diversi bambini erano nati nel padiglione delle donne e quindi abitavano nei locali della prigione, ma tecnicamente questo li rendeva individui agli arresti e quindi non in misura di adempiere a un lavoro retribuito e alla fine l’aveva spuntata mia madre; cioè io.

Mia madre faceva le pulizie nel padiglione delle donne e aveva quindi subito saputo di quell’operazione. Io ero nato tre giorni prima dei venti stipulati dal codice e quindi ne avevo quindici quando si era deciso il verdetto: un’età perfetta per assolvere a quel compito.

In dodici ore un neonato deve mangiare almeno quattro volte, cagarne altrettante, fare gli equivalenti rutti ed essere cambiato. Per il resto dorme. Al posto dei secondini si era quindi deciso di attorniare Oswald di due ostetriche con esperienza. L’immagine, come mi avrebbe poi raccontato la più giovane delle due insieme a molti altri dettagli, era commovente: Oswald con quel testone calvo, a dorso nudo per sentire il contatto con la pelle, una copertina sulle gambe, rasato di fresco per l’operazione e cosparso di talco per confondere l’odore di morte che aleggiava nell’ambiente, attorniato da queste due donne in camicie, sembrava un enorme bebé a cui più che il collo sarebbe stato tagliato il cordone.

Una settimana prima della vigilia Oswald aveva scritto, come da prassi, una clausola sulle condizioni dell’adempimento del suo ultimo desiderio: voleva bere solo latte, da li alla fine. Anche su quello era stato assecondato e quindi il suo corpo emanava un piacevole odore dolciastro di latte. Per precisione il penitenziario aveva poi sottratto il costo del latte, l’intervento delle due ostetriche, più qualche altro elemento all’assegno promesso a mia madre, che era poi risultato di 3937 dollari, come aveva tenuto a precisare per il resto dei suoi giorni.

Mi hanno raccontato che mentre io ero portato nei corridoi della morte piangevo come un maiale che va al macello, forse in dubbio su quale fosse il mio reale destino. Avevano addirittura pensato di interrompere l’operazione perché diventavo cosi rosso che sembrava sarei scoppiato come un palloncino troppo pieno.

Anche quando mi avevano appoggiato sul suo petto continuavo a piangere, infilando quelle piccole unghie in quella pelle, cercando con i piedi un appoggio come volessi decollare. E li Oswald si era messo anche lui a piangere, sommessamente, per l’emozione. Il suo pianto, quasi impercettibile e completamente sovrastato dal mio: quel corpo grande che emetteva un esile gemito e il mio, minuscolo, con quel suono acuto e potente, che riempiva la stanza e i corridoi. Però poco a poco il suo pianto aveva calmato il mio, che mi ero addormentato senza più pretendere niente fino alla fine delle dodici ore, in cui lui aveva semplicemente continuato a piangere sommessamente. Le due ostetriche erano rimaste interdette che non avessi fame né altri bisogni durante quel lungo periodo, al punto che ogni tanto si avvicinavano per controllare se fossi ancora vivo, ma io ero li, attento, sveglio, con gli occhi spalancati, completamente concentrato su quel gemito sconsolato.

Siamo rimasti cosi, per tutto quel tempo. 
Lui piangendo e io ascoltando quel pianto definitivo. Io nascendo e lui morendo.

Oswald Denner è morto sedici giorni dopo che io sono nato. Per iniezione letale.
Eppure abbiamo avuto il tempo di conoscerci e spesso penso a lui, anche adesso a distanza di tutto questo tempo. Forse voleva vivere quell’esperienza che gli era stata negata dal fato o forse aveva voluto quella tranquillità dell’inizio per trovare un conforto alla fine, o forse, e cosi mi piace pensare, aveva trovato quel semplice modo per diventare immortale.

 


 

Manuel Maria Perrone, regista, griot, giullare al servizio della neutra elvezia o di altri signori allergici ai suoi pungiglioni. Ha fondato l’Agence de l’Erreur a Marsiglia e le Syndrome de Jerusalem a Ginevra, per riconvertire con miracoli a buon mercato gli scettici e laici di Francia e dintorni. Lavora part-time per il vaticano come cardinale. Scrive se trova alfabeti.

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