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CRISTINA ANNINO [1941-2022] “Magnificat. Poesie 1969-2009”

dall’Archivio: 15 febbraio 2010

[ Cristina Annino Dopo c’è l’acqua acrilico su tela, cm 60×80, 2004 ]
www.anninocristina.it

di Nadia Agustoni

Un poeta è una voce. A volte, nella grande poesia, la voce è distanza e vicinanza insieme. Ci sono autori appartati che ci vengono incontro per un sorta di fortuna e aiutano chi non smette mai di cercare, interrogare le parole, perché proprio nella concretezza della parola un poeta dice qualcosa di sé e del mondo. Allora in tali autori più che in altri, noi stessi siamo messi nella condizione di comprendere ciò che realmente ci danno: la nostra libertà. Ed è moltissimo. In anni avari con i poeti Cristina Annino ha scritto versi che nella loro limpidezza hanno il segno faticoso dell’essere qui, in questa terra e in un tempo pervaso dall’insignificanza. In tale condanna all’insignificanza, per noi generazione di poeti giunta dopo gli anni ottanta, Annino ci arriva come un miracolo. Giacché il nostro è un pellegrinaggio interminabile alla ricerca di un significato che troppo spesso ci porta a parole che scavano il dolore senza salvare.

“Magnificat. poesie 1969-2009” puntoacapo editrice 2008 a cura di Luca Benassi e con prefazione di Stefano Guglielmin raccoglie in antologia i quarant’anni del lavoro poetico di Annino. Dirò subito che con la poesia di Cristina Annino è necessario un corpo a corpo. A una prima lettura ci induce a rimanere sulla pagina come se la magnetizzasse. I versi hanno immagini che sorprendono e si è lì in ascolto, sapendo che le parole hanno la sapienza delle cose cui non abbiamo più creduto; siano un cane miracoloso: “C’è un cane in questa casa, / azzurro quasi una lampada,/ il collo pieno d’odori,/ che gira e s’aggrappa […]; o il ricordarci che bisogna avere: “ … un bell’udito cronico/ per la vita, o meglio/ per la testa impazzita/ dell’uomo che ragiona […]/.
Cristina Annino chiede alle parole una verità forse insostenibile. Fin da piccola sognava i versi che di giorno ripeteva a sua madre la quale ebbe il coraggio di non uccidere o mortificare quei sogni, bensì di incoraggiarli. Struggenti le poesie di “Ottetto per madre”: “La vecchia Lina è caduta, cantando, di / schiena, com’una forza muta d’un tratto/ cedesse, togliendo le staffe dietro. Era a cavallo e/ sbatte in terra. Si prende/ al viso tirando invano le cataratte. Eccola/ lì, la vecchia canina mamma./”. Già in una raccolta precedente “Gemello carnivoro” l’autrice le rende l’omaggio della trasmutazione alchemica, un’eucarestia in cui il poeta (Annino in poesia usa l’io maschile) è corpo e vita di Lina, costantemente sentita indivisa dalla propria mente e fisicità:“Vivo/ doppiamente com’è un gemello carnivoro./ Non ho altro/ scoppio nell’aldiquà che questo/ tornarle addosso, essendo io il suo/ io primitivo.” Un amore assoluto e dichiarato con parole che disarmano anche chi con l’assolutezza dell’amore filiale ha conti aperti.

Le sezioni in cui è divisa l’antologia, una per ognuno dei libri pubblicati dal 1969 fino al 2009 dall’autrice, offrono un’ampia scelta del suo lavoro. Un lavoro bellissimo, dove le parole arrivano anche a scardinare l’ordine tra i vivi e i morti ricordandocene, proprio nella parte finale del “Magnificat”, la compresenza. Cristina Annino la si legge con partecipazione fino dalle sue prove d’esordio. “Non me lo dire, non posso crederci” Firenze 1969 edito da Eugenio Miccini contiene già quella sua forza con in più una condensazione che le impedisce, complice un’ironia che è intelligenza, ogni retorica. Abolito da subito l’io lirico, con un balzo di cui nemmeno ci accorgiamo tanto è presenza, Annino si situa in quella scrittura che Virginia Woolf auspicava. Orlando in lingua italiana, Annino ci dice che la libertà è essere subito quello che si è. Nessun segno è più autentico di questo. I libri di Cristina Annino hanno attirato l’attenzione di alcune figure importanti della letteratura italiana come Franco Fortini, Vittorio Sereni e negli anni Ottanta del critico d’arte Vittorio Sgarbi. Nel 1984 Walter Siti la include nell’antologia Einaudi “Nuovi poeti italiani 3”. A quel punto la sua preferenza per la vita, leggibile nei suoi versi, la porta ad appartarsi. Una lunga assenza cui segue la riscoperta di questi anni. Cristina Annino nel suo non consegnarsi alla nostalgia rende ad ognuno di noi, al nostro straniamento, una parte molto importante di giustizia.

[ Nel web si possono leggere diverse sillogi di poesie di Cristina Annino. Alcune tratte dal “Magnificat”. Con il consenso dell’autrice, che ringrazio, propongo qui una scelta, alternativa ai testi già proposti in vari blog, tratta da Casa D’aquila (2008), ma non presente nell’antologia recensita. n.a ]
 
 

Poiché il poeta e la bestia hanno lo stesso destino.

 
[ Per Lei, si intende la poesia. Per Lui, il poeta che concepì la prima lirica all’età di cinque anni nel paese di San Giminiano, noto per le sue torri. Koko è il gatto siamese dell’autore. Il resto va da sé. ]
 

1
L’origine

Lui la rese cortese come
fossero in città e non nel paese fisico
delle torri. La portò
al bar non parlandole da paesano.
Lei
che aveva giacche più blé della
lana su una nave e oro al collo.
Tutt’insieme gli stava davanti, brutta
merce, piccina; poi accese
un sigaro misericordioso sul
cruscotto della radio, frullando
sopra lui dita di carne o
branchie o come fosse un
affare. Gli disse, in
scarpe di quinta elementare,
che
sarebbe stato il vero
padrone del mondo.

 

2
E questa tristezza chi la fabbrica?

Lo guarda con compressione, con
stato morale, fisico, di mente, con suo
padre, madre, gente della vita. Col
macello dell’ansia e gli eventi del viso,
i suoi tic. Somiglia
lentissimamente a un Dürer, così solo
pelle, o una lancia; il codice
fiscale tra le ciglia.

S’acquatta sulle gambe e la Storia è
lì, con Darwin e le scimmie (Dio ora
e sempre salvi dell’universo quelle!).
Gli dà
stanze solo, non libri che a
guardarli peggiora.

 

3
Lui nella fanghiglia

Finita la merce, i crepacci, tira
su le braccia da questo fango.
Dicendo che
libidine, tanto per
dire, oppure ci viaggia un’ossuta
volgarità. I miei versi in camicia!
Sarò
breve: non mangia fegato di
maiale, ci vede del sacro. Condannato
dall’aurora in cui vive, ogni
animale
che trova lo benedice, lo
mette in trono, s’inginocchia
davanti com’al cervello. Lui
vasto vento poderosamente
quieto, ché peggio.

 

4
Lavoro inutile.

Ma deve produrre ed è
talco con vibrisse d’addio. Si
fracassa così da questi picchi.
Spera
al centesimo d’ora che mangia, vive
senza preghiere abbeverando
pozzi, corre
sopra di sé nella stuoia di
io, sempre senza compenso sui
batuffoli delle strade. Sul tempo
magari ch’a vederlo, fa pena,
fa il proprio il dovere, con la
coda così e il corpo diviso, partito in
direzione delle mani; quei cinque di
vento – ci scommetterei – senza
pace.

 

5
Oramai, la sua Bella

Stà con la
Follia dentro casa. Spesso la
mette al muro davanti al
lettone ricciuto “sii per favore una
zuppa di triglie e mortifera quanto
il mare”. La
scuoierà, e intanto la
palpa succhiando tempeste con
la mano conifera. Stando così, lui
muto tocca il fondo di
sé, con quel
suo modo di fumare unico, col
resto anche e la Gran Cotta. Non
racconta di lei niente a nessuno.

 

6
Qui bisogna descrivere cos’è Koko

Koko nano, seduto
sul letto, si strappa i capelli, tutto
mento, quadrato, passa
i muri com’un’ascia. Su chi
contare non sa, sul pentagramma
o i piatti da
lavare. E la vita s’inchina
agli amici spariti nel
terremotino di cinque
anni. Una guerra, le dita
di quella mano.
Perché? “ma che
storia, la nevralgia mortale,
ancora
frattaglie, pianti a ogni
cantone di casa. Orribile
visu”. Vorrebbe
spaccarsi l’udito per ridargli
il dovuto. Ma quel collare! Koko sa
di stracci che seccano
arterie in biblioteche
a iosa. E allora, per
pace pronobis in terra – gli
dice – giacché tu lo
puoi, dacci musica
vera, invece!

 

7
Conniventi

La pesca ovunque, fosse
sotto le mattonelle, poi alza
la chiave e l’ingoia piangendo.
Mai
pensando al cervello. Mai. La
fotografa con se
stesso, sezionare, compiangere e
calarsi le braghe e avere
tormento. La sua
vita torta ficcandole dentro
a pistolettate.
Eppure,
con pallore geloso ogni volta,
lei ritira a sé quelle
foto come reti da pesca.

 
 
Cristina Annino, da Casa D’aquila,
Levante Editori 2008

 
 

Cristina Annino su www.nazioneindiana.com

 
 

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2 Commenti

  1. Sempre dritti al punto questi testi – il dolore di non poterne leggere di nuovi è parzialmente chetato dalla rilettura di quel che ora possiamo pensare come l’opera. Solo per la quale il poeta voleva essere ricordato (“Curriculum”, in Gemello Carnivoro (2002)).

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orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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