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V. Ė. Mejerchol’d UN BALLO IN MASCHERA

Bozzetto di⇨ A. Ja. Golovin
per la prima edizione di Un ballo in maschera
“Lo sconosciuto”

Aleksandr Konstantinovič Glazunov [1865-1931]
musiche di scena per
Un ballo in maschera

di ⇨ Anna Tellini

estratti da
Un ballo in maschera
2023 Cue Press

[da Prologo pag. 9-10]

[…] Non c’è più tempo. «A noi, compagni, sia a me, che a Šostakovič, che a S. Ejzenštejn, è data la pie­na possibilità di continuare il nostro lavoro e solo nel lavoro correggere i nostri errori. (Applausi). Compagni, dite: dove, in quale altro paese dell’or­be terraqueo è possibile un simile fenomeno?» 1 Queste parole precedono solo di poche ore la fir­ma dell’ordine di arresto di Mejerchol’d. Il resto è noto: incarcerato, il Maestro confessa improbabili mene antisovietiche e sciorina nomi. La succes­siva ritrattazione, che gli restituisce piena statura morale, ovviamente non varrà a scalfire i carnefi­ci. Delle «due scuole di pensiero della fase istrut­toria», «i chimici e i fisici», nel caso di Mejerchol’d furono questi ultimi ad agire:

— I fisici erano quelli che erigevano a pietra angolare dell’istruttoria l’azione puramente fisica, poiché vedevano nelle percosse il metodo per disvelare il principio morale del mondo. Disvelare nel profondo l’essenza della natura umana – e come risultava vile e insignificante questa essenza!… 2

Foto segnaletica di Mejerchol’d al momento dell’arresto

L’ultima ripresa di Un ballo in maschera, dunque, si incunea tra questi eventi finali e la chiusura del teatro di Mejerchol’d (stabilita con risoluzione del Comitato per gli Affari delle Arti del 7 gennaio 1938: nel suo intervento alla Conferenza dei Regi­sti egli la definisce «corretta»), a cui aveva dato il la P. M. Keržencev, bolscevico della prima ora, col suo articolo Čuzoj teatr [Un teatro estraneo] 3, in cui tra l’altro bollava l’intera attività teatrale preri­voluzionaria di Mejerchol’d come «una lotta con­tro il teatro realistico, per un teatro convenzionale, estetico, mistico, formalistico, cioè che esorcizza­va la vita reale».

Ma l’epilogo era iniziato prima, addirittura il 2 aprile del 1923: al teatro Bol’šoj si festeggia Mejer­chol’d, proclamato «artista del popolo». Tra le nu­merose felicitazioni inviategli, anche quelle di Trockij, cui il regista aveva dedicato il suo Terra in subbuglio 4. Per questo Stalin sceglierà Mejer­chol’d, perché vecchio comunista, perché legato da tempo a Trockij. Facile sostenere che guidasse dal 1930 un gruppo trockista di lavoratori dell’arte antisovietici; irreprensibilmente consequenziale condannarlo alla fucilazione, nel 1940.

E veniamo al 1933, anno di una memorabile purga di partito: tutto è considerato, chi e quando è stato legato a Trockij. I membri della Commissione per l’epurazione accusano il teatro di Mejerchol’d di essersi allontanato dalla contemporaneità. Il presidente cesella:

— Per quel che riguarda personalmente il compagno Mejerchol’d, senza dubitare del suo passato, senza discutere del suo presente, temiamo alquanto per il suo futuro 5.

È ancora libero, il Maestro, ma sa che ‘in alto’ l’at­teggiamento è sfavorevole. Continua comunque a pubblicare, a fare regie. Ma per la Signora delle Camelie, andata in scena il 19 marzo 1934, Mejer­chol’d sente il bisogno di giustificare lo spettacolo con un compito educativo, ideologico, e sostiene, in una nota comparsa sulle «Izvestija» del 18 mar­zo 1934, di aver l’intenzione di «mostrare un ciclo di pièce sulle sofferenze delle lavoratrici nella so­cietà capitalistica» 6. E poi la regia d’opera de La donna di picche, e poi le prove (1936-37) del Boris Godunov, con cui Mejerchol’d sperava di inaugu­rare il nuovo edificio del GosTIM… Tutto questo malgrado quel che si stava preparando, e che lui non poteva ignorare. Così come prima non gli era sfuggito il crearsi dell’oligarchia staliniana. Ma­ckin arriva a sorridere del presunto antistalinismo delle sue messinscene, che tale sarebbe solo agli occhi degli occidentali 7. Ma certo, come artista dell’avanguardia, il suo progetto era stato neces­sariamente totale, illimitato, assolutamente privo di innocenza:

— L’esigenza dell’artista di dominare il materiale artistico, che sta alla base della moderna concezione dell’arte, implica un’esigenza di dominio sul mondo, se si considera il mondo stesso come materiale 8.

Ma ormai, se la figura del demiurgo dell’avanguar­dia si era sdoppiata nel ‘nonno’ Lenin infinitamen­te buono e nell’infinitamente perverso ‘sabotatore’ Trockij, Stalin manteneva viceversa, nonostante la sua indubbia positività, una massiccia dose di attributi demoniaci – il suo lavorar di notte, i suoi prolungati silenzi, i suoi inattesi interventi –, assi­curandosi in tal modo la pienezza sia della venera­zione sincera che del terrore sacrale 9.

E se il Procuratore Generale Vyšinskij, il car­nefice Vyšinskij, fu il relatore centrale alla Con­ferenza dei Registi che si sviluppò secondo una sceneggiatura prestabilita, a Mejerchol’d toccò di diventare uno dei protagonisti principali di questa tragica farsa, nel ruolo di un uomo piegato, di un peccatore penitente, che contava se non sul perdo­no, almeno sull’indulgenza 10. Di questo le parole finali dello stenogramma di Un ballo in maschera sono, in un certo senso, la prova generale.

Bozzetti della scenografia di A. Ja. Golovin per la prima edizione di Un ballo in maschera

 

da Prologo
[pag. 11]

[…] Una foto di gruppo. In prima fila, seduti, da si­nistra a destra: Ju. Jur’ev, il presidente del Comi­tato per gli affari delle Arti M. B. Chrapčenko, il vicepresidente del Sovnarkom, A. Ja. Vyšinskij –artefice di sinistri processi politici –, il regista A. D. Popov. Tolto un sapiente strato di colla compa­re, al posto di quest’ultimo, Mejerchol’d. La foto, scattata nella Casa centrale dell’Attore nei giorni della I Conferenza Panrussa dei Registi, probabil­mente risale al 15 giugno, giorno dell’intervento di Mejerchol’d e della sua partenza, nottetempo, per Leningrado. L’ultima foto di Mejerchol’d prima dell’arresto 11.

Su «Sovetskoe iskusstvo» (n. 51 del 16 giugno 1939), in una breve nota sulla Conferenza si dice dell’intervento di Mejerchol’d. Nei materiali della Conferenza, editi nella primavera del 1940, così come nel numero successivo della stessa rivista, il nome di Mejerchol’d non è fatto. Il rituale di liqui­dazione, agito da eroi (i dirigenti dello stato e del partito) e demoni (i traditori, i sabotatori, le spie), assimilato da una cultura collettiva disorienta­ta, fa il suo corso, trasferendo il traditore quoti­dianamente smascherato nel mondo del male e del non-essere. Non era, d’altronde, infrequente una «operazione ‘iconoclasta’ di cancellazione dal mondo di personaggi scomodi e delicati, operata con sistemi tanto ingenui quanto spettacolari: uno scarabocchio con l’inchiostro di china sul viso nel­la pagina di un libro, un taglio con le forbici alla fo­tografia, una sostituzione della figura da eliminare con un particolare del paesaggio o un dettaglio architettonico (nei casi di interventi più sofistica­ti)» 12. E poi, per questi ‘nemici del popolo’ tabu­izzati, potentissima, c’era l’arma dell’indicibilità. È stata esperienza di molti. È stata esperienza anche mia, e non in un tempo e in un luogo mitologici, ma all’inizio degli anni Settanta del secolo trascor­so, nell’allora Biblioteca Lenin di Mosca – quel che è diventato mitologico, nel frattempo, è il paese di cui Mosca era capitale – di tentar di compulsare annate di gloriose riviste di anni rivoluzionari non sospetti, senza però trovare, alle pagine cui gli in­dici per altro completi rimandavano, gli autori, gli scritti cercati. Con infinita modesta dedizione, con sapiente lavoro di ripulitura e di cesello, qualcuno, per anni, per lustri, aveva ‘purificato’ i testi rimuo­vendone le scorie repulsive alla purezza patria.

E vengo a un libro 13 – ben noto, certo, agli specialisti –, un libro di qualità rara anche per anni meno problematici di quelli in cui fu concepito ed edito: già, perché se la data sul frontespizio è il 1941, esso in realtà vide la luce nel 1946. Ma la prima, posticcia, collimava col centenario della morte di Lermontov, ricorrenza che giustificava un’edizione lussuosa curata dall’accademico Evge­nij Lansere, già membro di un circolo culturale che nell’ottobre 1898 prese parte alla fondazione di «Mir iskusstva» (Il mondo dell’arte), diretto da Sergej Djagilev, la prima rivista d’arte russa di le­vatura internazionale. La parte iconografica è cu­ratissima, e può vantare un eccellente livello nella riproduzione degli schizzi e dei bozzetti di Golovin per Un ballo in maschera, parte dei quali vengono a corredare il presente volume.

Il ponderoso saggio introduttivo di M. D. Belja­ev non trascura nulla del destino scenico del testo lermontoviano, e delle sue prime stentate rappre­sentazioni elenca persino, tra le tante altre cose, il trovarobato. Dell’edizione del 1917, poi, veniamo a sapere nel dettaglio ogni cosa della scenografia e dei costumi e degli oggetti di Golovin, e dei colori predominanti e delle dimensioni. Inutile però sa­rebbe incuriosirsi della regia dell’ormai leggenda­rio spettacolo, perché come tale, anonimamente ‘regia’, cioè, essa viene indicata: in tutto il libro, il nome del creatore dello spettacolo, Mejerchol’d, non compare. […]

Bozzetti dei costumi di A. Ja. Golovin per la prima edizione di Un ballo in maschera

da La mutilazione del teatro.
Cronache dall’inconcepibile

[pag.19]

Siamo mai esistiti?
Rispondo: «siamo esistiti», con tutta la forza espressiva del verbale, con tutta l’autorevolezza, la precisione del documento 14

Lo sfondo è noto: è il 1938, il suo teatro è stato distrutto, lui anatomizzato, epperò Mejerchol’d, alle prove di Un ballo in maschera – e gli stenogrammi sono qui a testimoniarlo –, «non mostra né caduta di spirito, né abbassamento del tono creativo» 15. E se nelle intenzioni di qualcuno la ripresa dell’ormai leggendario spettacolo avrebbe dovuto configurarsi come una sua ‘riabilitazione’ 16, per il Maestro essa è viceversa l’occasione per fare i conti col tempo della sua vita, raccontando ai contemporanei della banda di giocatori e assassini che lo hanno ucciso, come già fu per Puškin e Lermontov 17.
Negli anni Trenta, si sa, «le persone venivano arrestate a casaccio. Cadevano vittime della teoria, falsa e spaventosa, per la quale la lotta di classe doveva inasprirsi nella misura in cui il socialismo si rafforzava». Quelli «che riempivano fino a scoppiare le prigioni dell’epoca […] non erano nemici del potere e neanche criminali di Stato e, morendo, non sapevano neanche perché dovevano morire» 18.
Fu così ccostumihe, per dirla con invidiabile laconicità, «per la forza delle circostanze il teatro fu costretto a togliere il nome del regista dal manifesto di Un ballo in maschera» 19: ligio a quella stessa aritmia, a quella stessa dissonanza che dello spettacolo era una cifra essenziale.

***

… comunque dobbiamo fare di questo spettacolo una cosa magnifica 20.


È il biografo di Mejerchol’d, N. D. Volkov, a suggerire un possibile tracciato, una iniziale linea di approccio. In primo luogo, integrando con una chiave blokiana la notoria importanza che sempre ebbe per il regista la parte, da lui un giorno interpretata, del čechoviano Treplëv, «cercatore di panuove nell’arte», sì, ma anche «uomo solo nel mondo terribile della vita che lo circonda. La solitudine in un mondo terribile divenne uno dei leitmotive della creazione di Mejerchol’d» 21. Quindi, apparentandone la carica simbolica a quella forse altrettanto simbolica di un altro personaggio della sua carriera d’attore, quell’Ivar Kareno di Alle porte del regno di Hamsun 22 interpretando il quale «Mejerchol’d sulla scena era se stesso», e nelle cui parole «metteva le riflessioni sul proprio destino» 23, affascinato dal tema del compromesso e della libertà spirituale, dalla tragedia della creazione in condizioni di dipendenza e di angustia dello spirito. Infine, rilevando che, come a Kareno, a Mejerchol’d occorrevano degli ostacoli, dei compiti difficili.
Così, ritornando ai vecchi spettacoli, perfino a quelli riconosciuti canonici, egli li riprende con un compito interno polemico, e la sua regia comincia dall’autonegazione, dalla lotta con se stesso.
— La biografia di un autentico artista è la biografia di un uomo, tormentato senza posa dall’insoddisfazione di sé 24.
Così, riprendendo per l’ultima volta Un ballo in maschera, per allontanarsi dalla poesia museale del passato propone di costruire lo spettacolo contrappuntisticamente 25, cioè di recitare in modo nuovo nelle vecchie scenografie e con i vecchi costumi goloviniani. Ma le scenografie sono malconce 26, e ai costumi non son stati risparmiati né l’usura del tempo, né l’oltraggio di improvvide loro concessioni per le mascherate 27.
Stanno anche in questo – nella mancanza di seta per le riparazioni, nel ridotto numero dei figuranti e degli orchestrali –, e nel superamento di questo, la conflittualità e l’energia che sono poi il tono, e uno dei temi, dello spettacolo. […]

E. M. Vol’f-Izrael’ nel ruolo di Nina, Jurij Michajlovič Jur´evnel ruolo di Arbenin.

da Le prove dello spettacolo
10 dicembre 1938 quadro 7, 2
Quadro 7
[pag.93-94]

Quadro 7
Kazarin (Gajdarov), padrone di casa (Oranskij), principe (Bolkonskij)

Mejerchol’d 28 […] Compagni! Perché mi applico così al quadro 7? In che sta la differenza della drammaturgia di Lermontov, se ne definiamo il carattere sulla base di quest’opera, dall’Amleto shakespeariano? In Amleto dal primo all’ultimo quadro c’è una compressione e lo scioglimento interviene solo prima dell’arrivo stesso di Fortebraccio. Un ballo in maschera di Lermontov finisce col quadro 7. Il quadro 7 conclude la pièce, la cui costruzione è questa: quadro 1 – casa da gioco, e quadro 7 – sempre casa da gioco. Dalla prima casa da gioco al quadro 7 c’è la compressione, poi Lermontov di proposito fa tornare tutti i protagonisti nella casa da gioco, perché vuole compiere questo movimento – dalla casa da gioco alla casa da gioco. Vuole annodare tutta la tragedia nella casa da gioco e tagliare questo nodo gordiano di nuovo proprio nella casa da gioco – e la fase più alta della compressione la colloca appunto qui.Cosa viene fatto dopo il quadro 7? Ormai ha inizio lo scioglimento – al funerale. Il quadro 8 – il ballo – è già un funerale, solo che è un funerale bianco. Ma è un funerale. Nina, che si siede al piano per cantare una romanza: è già una messa funebre. Il compositore-improvvisatore, musicista, che si siede al piano a suonare Melancolia 29: è già un funerale. Gli applausi a Nina per la sua romanza: un funerale. Il ballo e il gelato, offerto a Nina al ballo, sono già un funerale. Lo Sconosciuto che ha notato che del veleno è stato versato: è già un funerale. L’arrivo di Nina dal ballo a casa, questo velo di pizzo, sono già il velo funebre di Nina, lei ormai morirà. Tutto il resto sarà la coda dello scioglimento, ma il punto è messo nel quadro 7.Ecco perché molto grande è la responsabilità di questo quadro e di tutti i personaggi che qui si trovano, perché loro produrranno questo scioglimento. Ecco perché è importante che la pièce sia iniziata da voi e terminata da voi.Se mi chiedessero cos’è più difficile nella pièce, cosa è più difficile di tutto da interpretare, dirò: il quadro 1 e il 7. Questo non per il piacere di dire un’arguzia. Ma se annoderemo bene il quadro 1, e scioglieremo bene il quadro 7, avremo già lo spettacolo in pugno, perché tutto il resto è più facile. Ovvero, certo, ogni attore ha le sue difficoltà tecniche: per Arbenin è difficile interpretare la scena della gelosia, per la baronessa Štral difficilissimo interpretare il quadro 4, perché lei deve non derogare dalla sua linea: come ha raccattato il braccialetto, come l’ha regalato, quale qui pro quo ne è derivato, perché capisce di aver raccattato il braccialetto di Nina: «Sì! Nina è stata al ballo» – dappertutto ci sono difficoltà particolari; per Kazarin il quadro 5 ha le sue difficoltà, nel quadro 6 le proprie – la baronessa si incontra con Arbenin, poi col principe, è andata da lui, ha bisogno di raccontare tutto ecc.; tutto questo è preparato per gradi, ma nel quadro 7 tutto questo sarà sciolto. Devono ricordarsene gli attori, che interpretano quest’opera.

 

27 dicembre 1938
conversazione con gli interpreti
dopo la prova generale

[pag.106-108]

Mejerchol’d: Compagni, quelli che partecipano alle scene di massa riceveranno delle osservazioni da B. P. Petrovych 30. Abbiamo raggruppato tutte le mie e sue osservazioni e ve le riferirà B. P., di modo che ora vi limiterete ad essere presenti qui, ma poi B. P. vi dirà tutte le osservazioni che vi riguardano.In sostanza, ci sono delle indicazioni che è possibile suggerire agli attori in corso d’opera. Come si dice ora – «nel complesso» -, io sono molto grato a tutti voi che partecipate allo spettacolo, perché noi comunque in questo breve periodo, in una situazione in cui sono stati introdotti molti personaggi nuovi, assolutamente nuovi, che per la prima volta prendono parte a questo spettacolo, ne siamo usciti con onore. L’ultima volta che sono partito per Mosca, ero preoccupato per lo spettacolo: c’erano molte persone nuove e allestire lo spettacolo in un periodo così breve era difficile. Comunque non è il lavoro che sognavo, ma ciò nondimeno ora possiamo suggerire qualcosa in corso d’opera, perché lo spettacolo ormai è in un assetto tale che può andare in scena, se solo gli attori recepiranno con molta attenzione e concentrazione quel che dirò adesso. Potranno provare questo domani, e allora il 29 realizzeranno quel che occorre, se non al cento per cento, all’ottanta.Da cosa bisogna cominciare? Nello spettacolo non c’è Lermontov. Perché? Perché la cosa più tipica per la drammaturgia lermontoviana è la passionalità, con cui vengono pronunciati ogni battuta, ogni brano. Tutto deve essere pronunciato con straordinaria passionalità. Ma ecco, io sono così nella vita: a tutto mi rapporto con passione. Perfino a casa mi richiamano all’ordine: «Verso la scopa e il pavimento, che va spazzato, hai un atteggiamento passionale». Capiterà a qualcuno in casa di ammalarsi – a questo mi rapporterò con passione. Con me non c’è pace.Lo stesso in Lermontov: con lui non c’è pace. Non ha battute indifferenti, ha tutte battute passionali. Questo nello spettacolo, va detto con schiettezza, non c’è. Oppure qui gli attori risparmiano se stessi e non vogliono coprirsi di sudore una volta di troppo, risparmiano il loro abito e la loro camicia, risparmiano le loro forze, la loro voce, il proprio temperamento. Così non si può. In questo spettacolo bisogna mettere se stessi per intero, al cento per cento, altrimenti non vale la pena di recitare. Non bisogna recitare. Ecco come bisogna dire: allora non bisogna interpretare questo spettacolo, non bisogna rovinarlo, perché col freddo nell’anima non si può far nulla nell’apparato declamatorio – non si farà strada verso lo spettatore. Lo vedete: così per l’appunto è costruito lo spettacolo. A carte si gioca appassionatamente, al ballo in maschera sono arrivati con delle passioni, sotto la maschera sono tutti uguali – proprio perché ribollono tutti. Diane, Veneri, tutte queste persone portano qui la loro passionalità. Erano a tal punto compressi nella morsa del regime di Nicola che, se capitavano da qualche parte, passavano i limiti. Essi sono quell’umanità repressa nel temperamento, che il proprio temperamento deve riversare in qualche posto, perché non si può sempre camminare in punta di piedi. Essi dovevano fracassare le finestre – così appunto è stato, e non soltanto le finestre fracassavano, ma anche le proprie teste – in nome del fatto di sollevare l’umanità alla rivolta. Questa passionalità è nascosta in Lermontov. Lermontov attraverso la sua drammaturgia lottava con l’alta società, con Benkendorf 31, con gli assassini di Puškin, con tutti coloro che avevano compresso questo mondo in una morsa, che gli avevano imposto i ceppi. Dunque – tutti gli ‘oh, oh, oh’ – tutto questo è gonfiato, esagerato, tutto questo è il gemito e il grido dell’umanità progressista; di tutti i Ryleev, i Čaadaev 32, di tutti quelli che sono andati nelle carceri, che sono stati esiliati, impiccati, nascosti nelle casematte. Questo, compagni, bisogna sentire. È l’autobiografia di Lermontov. A Lermontov non importa che il principe Zvezdič abbia una parrucca ben acconciata, con dei bigodini, lo sa il diavolo se di notte lui avvolge i bigodini o se gli fanno l’arricciatura; non gli interessa che la sua uniforme sia attillata, perché egli vuole mettere del suo nel principe Zvezdič. La partenza di Zvezdič per il Caucaso è la sua, di Lermontov, partenza per il Caucaso. Ogni zuffa che avviene qui è una zuffa dello stesso Lermontov con Martynov, è una zuffa tra Lermontov e Barante 33. Tutte queste vincite, tutti questi scandali, che hanno luogo qui, il modo in cui Zvezdič molesta e bacia una donna in un angolo, è uno scandalo personale di Lermontov. Questo aveva fatto nel Circolo dei Nobili di Mosca – uno scandalo di cui ha parlato tutta la città: quando, durante una pausa ad un ballo, afferrò due ragazze dell’alta società e sfrecciò come terzetto per tutta la sala, dove tutto era di ghiaccio, tutto rattenuto – e all’improvviso un gesto così scapigliato, diremmo – da teppista, eseniniano 34. Ecco cos’è accaduto con Lermontov. Provocò indignazione, tutti gridavano: «Chi è quest’ussaro che si è permesso di produrre un simile scandalo? Bisogna riuscire a scoprire chi è, bisogna espellerlo dalla società». Ecco che stato d’animo deve avere il principe Zvezdič.Ma io ho appuntato direttamente: ‘Rostand’. Il romanticismo agrodolce, il romanticismo decadente del teatro Suvorin. Così interpretavano al teatro Suvorin tutte le pièce, se solo una pièce era in versi. Là appositamente ingaggiavano persone così: non appena la musica comincia a suonare, annacquavano la musica agrodolce nella loro loquela. In Lermontov non c’è nulla di simile: tutto è tagliente. tutte le battute devono suonare taglienti, come colpi di fioretto.Gajdarov, ad esempio, nella scena in cui declama uno dopo l’altro tre monologhi, in cui si mette sopra questo panchetto, in cui dice: «mucchi d’oro sulle carte, spumeggia il vino nelle coppe sfaccettate, donne, attrici noi traevamo fuori da dietro le quinte e le trascinavamo da qualche parte», deve dirlo come se questo fosse stato ieri, a mezzanotte, e non chissà quando, vent’anni prima. Deve parlare delle carte, del vino con gusto, assapora tutto quel che c’è qui. Parolette taglienti, come nel monologo di Šprich, in cui dice un verbo, mi pare otklepalas’ 35, ma io mi sono appuntato: «questa parola non si sente, suona fiacca». È ciò di cui in società si dirà ‘shocking’ 36. Questo sciocca. «Otklepalas’»:: lui dice così, come ‘porca puttana’. Questo suona come un’oscenità, attraverso questo l’oscenità traspare. Dovete assolutamente leggere la lettera di Lermontov da Tarchany, e vi scoprirete tutti i punti. Vedrete che lui parla di Mosca. Ecco Mosca, effettivamente è la nostra cara Mosca: è sì bianca, è sì bella, dappertutto ci sono cumuli di neve, la tempesta urla in un certo modo, e allo stesso tempo i cavalli «p…ano» – questo dice Lermontov 37. Questo slancio romantico – e un abbassamento; egli non ha paura di questo, perché  questo per l’appunto era il carattere di Lermontov. Non perché fosse capace di oscenità, niente del genere: lui è più pulito di molti suoi simili, gli ussari cioè, che solo di questo si occupavano – illustrazioni pornografiche che si mostravano l’un l’altro nelle caserme; poteva anche farlo, ma era di venti teste più in alto di questi suoi compagni. In questo bisogna penetrare, perché proprio in questo risiede il fascino di quest’opera. Qui ci sono dei crauti, e la gente mangia questi, non è che distribuite a tutti dei pasticcini. Direte: ma a chi serve un gioco del genere, quando qui c’è Golovin? Ma Golovin ha dato il contrasto, ha dato la bellezza assoluta. E in questa bellezza mostrate altri tratti. Certo che nell’epoca di Nicola l’architettura, la fabbrica di porcellane, tutti questi ebanisti che lavoravano il mogano, diedero dei capolavori meravigliosi, ma l’epoca com’era? Su questo sfondo cosa c’era? Puškin l’hanno ucciso sullo sfondo di questa meravigliosa porcellana, sullo sfondo dello stile impero russo. Lermontov l’hanno ucciso allora. Forse che si può recitare esteticamente Lermontov, forse che lo si può recitare in pendant 38 con le scenografie di Golovin? Nello spettacolo in queste scenografie bisogna recitare, bisogna costruire contrappuntisticamente qualcosa di assolutamente diverso. Ecco, allora lo spettacolo comincerà a risuonare.Le correzioni consistono in questo.

Jurij Michajlovič Jur´ev nel ruolo di Arbenin nell’edizione del 1917

La prima rappresentazione
di Ju. M. Jur’ev
[pag. 122-123]

Eravamo così assorbiti dal lavoro, che mancò poco non ci accorgessimo (e non ci rendessimo pienamente conto) di tutta l’importanza degli avvenimenti che incombevano, che si compirono nel nostro paese.

Il fatto è che, quando il nostro lavoro ormai si avvicinava al termine e richiedeva una tensione particolare, nella capitale iniziarono le prime azioni operaie – preannunziatricipreannunziatrici della rivoluzione di Febbraio.

Ricordo che una volta fu interrotta la prova alla notizia che gli operai delle officine Putilov stavano passando accanto al teatro Aleksandrinskij diretti alla stazione di Mosca, rivendicando il pane. Ci slanciammo alle finestre e osservammo come silenziosamente, in modo organizzato si muoveva per il Nevskij un’enorme folla di operai. E in questo raccoglimento della massa taciturna si sentiva qualcosa di minaccioso, irremovibile e insieme una certa solennità. Ma nessuno di noi supponeva che fossero i primi segnali dell’inizio di una nuova era della nostra vita e che in tutto solo pochi giorni ci dividevano dallo storico rivolgimento.

La prova interrotta fu ripresa, ma senza la debita armonia. Gli interpreti erano usciti dallo stato d’animo, la loro attenzione si raddoppiò.

Verso sera la città era piena di voci. Si raccontava di spari vicino al monumento ad Alessandro III. Si faceva il conto delle vittime… L’atmosfera si addensava intorno a questi avvenimenti, ma ciò nondimeno l’interesse per Un ballo in maschera presso il pubblico teatrale non diminuiva.

La mia agitazione come interprete della parte principale era accresciuta anche dal fatto che la prima rappresentazione di Un ballo in maschera era fissata per il giorno del mio venticinquennale artistico.

Secondo l’usanza del tempo, su disposizione della direzione, i biglietti per tali occasioni erano registrati in casa del festeggiato, per dare a lui la possibilità di distribuire i posti tra gli spettatori, la cui presenza nel giorno della sua festa gli era più desiderabile.

Con largo anticipo sulla prima tutti i posti furono registrati, ma arrivavano sempre nuove richieste. Malgrado fosse stato fatto un avviso che non c’erano più biglietti e la prenotazione fosse stata interrotta, il campanello suonava in continuazione: continuava l’insistente richiesta di dare in qualche modo la possibilità di trovarsi a questo spettacolo…

Qui in modo evidente ci si poteva convincere che la messinscena di Un ballo in maschera era considerata un avvenimento teatrale. Molti vennero appositamente da Mosca per la prima. E, per quanto strano, malgrado gli avvenimenti che si svolgevano in città, non pochi personaggi altolocati (tra cui anche alcuni ministri) mi telefonavano all’ultimissimo momento con la preghiera di procurargli un posto per la prima… Alla fin fine, anche i biglietti di riserva si esaurirono.

Finalmente arrivò il giorno del primo spettacolo: 25 febbraio 1917. Sono in agitazione; fino al momento dello spettacolo resto a casa, cercando di concentrarmi sulla parte. All’improvviso suona il telefono. È Vladimir Arkad’evič Teljakovskij: «in città c’è confusione… Non so come comportarmi.

con lo spettacolo… Forse, toccherà rinviarlo… Aspetto disposizioni del ministro di corte Frederiks… Dopo di che la chiamerò…».

La mia agitazione raddoppia. Aspetto la chiamata. Dopo un’ora, non di più, uno squillo…

«Il ministro è contro l’annullamento» dice V. A. Teljakovskij «Venite a recitare!…».

Due ore prima dell’inizio provvedono una vettura. Vado a teatro. Abitavo allora all’inizio del prospekt Kamennoostrovskij, ora Kirovskij, in casa Lidval’… Mi avvicino al ponte Troickij. Non fanno passare nessuno. Fermano la vettura. Chiedono un lasciapassare. Spiego all’ufficiale che si è avvicinato dove sto andando, e perché. L’ufficiale mi riconosce, mi fa passare. Le strade sono vuote… Vado per la Sadovaja fino al Nevskij. Qui c’è di nuovo uno sbarramento, e, malgrado tutti i miei argomenti, non mi lasciano passare. «Passate per la Ekaterininskaja, là, probabilmente, la faranno passare», dice l’ufficiale. Svolto. All’angolo della Ekaterininskaja e del Nevskij mi fermano di nuovo, ma dopo lunghi battibecchi finalmente ottengo il permesso, attraverso il Nevskij e arrivo al teatro Aleksandrinskij. «Ma come fa il pubblico? – sono perplesso – Non faranno passare neanche lui…».

In teatro c’è già qualcuno degli attori. Ci scambiamo le impressioni. Riferiscono tutti gli episodi possibili… Tutto questo è inquietante. Sono agitato anche per il fatto che, con ogni evidenza, di pubblico ce ne sarà poco, toccherà recitare con una sala semivuota… Mi trucco, sforzandomi di non pensare a nulla, tranne che alla parte. Vengono alcune volte nel mio camerino e comunicano con allegria che il pubblico riempie il teatro. Ed effettivamente, per quanto strano, verso l’inizio dello spettacolo, malgrado tutto, la sala degli spettatori risultò stracolma.

Ma ecco il campanello d’inizio. Si avvicina il momento di presentarsi davanti al pubblico e di rimettere al suo giudizio tutto quello di cui avevamo vissuto e sofferto nel corso di un lungo periodo e che per noi era divenuto così vicino e caro. Chiamano in scena. Momento spaventoso: la nota sensazione dell’attore dinanzi alla prima!… Per l’ultima volta mi accosto ad un grande specchio, per riconoscere in me il volto che devo raffigurare. Tutto, per così dire, in ordine. Vorrei varcare la soglia del camerino, ma all’improvviso sento di aver perduto la concentrazione. Per l’agitazione non posso sottomettere la parte alla mia volontà. Occorre dominare l’agitazione, concentrarsi e ottenere la quiete artistica. Lo so per esperienza: tutto dipende dal primo momento. Se si riuscirà ad afferrare in questo momento la necessaria disposizione d’animo sulla scena – sarai padrone della situazione, se no – tutta la parte si appannerà, si liquefarà…

Prego i presenti in camerino di lasciarmi brevemente da solo, per padroneggiarmi. Faccio ogni sforzo per afferrare la tranquillità, rigettando quel che è secondario, ed entrare nel personaggio di Arbenin. È come se sentissi tutto quel che cercavo in me, e vado in scena senza affrettarmi, cercando di non ‘versare’ strada facendo quanto trovato in me. Vado, come estraneo a quel che mi circonda. Qualcuno si congratula, fa gli auguri per l’anniversario: sento e vedo tutto, come nel dormiveglia.

Gong di inizio spettacolo. Sono accanto a B. A. Gorin-Gorjajnov, che interpreta Kazarin, ed aspettiamo le battute per entrare in scena. Ma ecco le note parole di Šprich:

Vi abbisogna denaro, principe… io vi sovvengo… Interessi da nulla… posso aspettar cent’anni.

B. A. Gorin-Gorjajnov spalanca la massiccia porta dorata del portale e, varcando la soglia, pronuncio la prima frase…

Al mio comparire, la tradizionale accoglienza al festeggiato. In quel momento avevo perso completamente di vista questa circostanza, malgrado prima ne avessi supposto l’inevitabilità. Gli applausi prolungati mi diedero la possibilità di orientarmi meglio sulla scena. Sui saluti del pubblico entro sul proscenio semicircolare, spinto fino alla prima fila del parterre. Davanti a me, vividamente illuminata, la sala degli spettatori, stracolma di pubblico ben vestito (Un ballo in maschera era recitato con la sala illuminata). Tutti si alzano in piedi, applaudono. Tutti i posti sono occupati, perfino nei palchi reali, con mio stupore: i granduchi.

Finalmente l’atto ha inizio.

 

V. Ė. Mejerchol’d al centro con la sua compagnia [Teatro Aleksandrinskij – 1917]

 

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NOTE
  1. Dallo stenogramma dell’intervento di Vs. Ė. Mejerchol’d alla I Conferenza Panrussa dei Registi (13-20 giugno 1939), in Vjačeslav Nečaev, Fal’sifikacija [Una falsificazione], in AA. VV., Mejerchol’dovskij sbornik (Raccolta mejerchol’diana), Mosca 1992, 2 voll., vol. II, p. 38.
  2. V. Šalamov, Il bouquiniste, ne I racconti della Kolyma, a cura di I. Sirotinskaja, trad. di S. Rapetti e P. Sinatti, Torino 1999, 2 voll., vol. I, p. 419. L’io narrante prosegue: «Non per questo, tuttavia, la scuola chimica si arrendeva. […] La scuola fisica (c’è qualcosa del genere, mi sembra, in Stanislavskij) non sarebbe stata in grado di mettere in scena per il pubblico uno spettacolo teatrale cruento». Ivi, p. 420. Il corsivo è mio.
  3. «Pravda», 17 dicembre 1937. Di lì a un mese, alla prima sessione del Sovet Supremo dell’Urss, Ždanov avrebbe attaccato Keržencev, accusandolo di aver tollerato troppo a lungo l’esistenza del teatro di Mejerchol’d.
  4. Testo di S. Tret’jakov, da La nuit di Marcel Martinet, messo in scena il 4 marzo 1923.
  5. Cit. in A. Mackin, Vremja uchoda. Chronica tragičeskich let (Il tempo dell’abbandono. Cronaca di anni tragici), in «Teatr», n. 1, 1990, p. 35. Il corsivo è mio.
  6. Cit. in ivi, p. 29.
  7. Cfr. ivi, p. 27.
  8. B. Groys, Lo stalinismo ovvero l’opera d’arte totale, Milano 1992, p. 29.
  9. Cfr. ivi, p. 88.
  10. Cfr. Vjačeslav Nečaev, cit., p. 40.
  11. Cfr. ivi, p. 33.
  12. Gian Piero Piretto, Il radioso avvenire. Mitologie culturali sovietiche, Torino 2001, p. 142.
  13. AA. VV., “Maskarad” Lermontova v teatral’nych eskizach A. Ja. Golovina (Un ballo in maschera di Lermontov negli schizzi teatrali di A. Ja. Golovin), a cura di E. E. Lansere, Mosca-Leningrado 1941.
  14. V. Šalamov, Il guanto, ne I racconti della Kolyma, cit., vol. II, p. 1073.
  15. B. Zingerman, Na repeticijach u Mejerchol’da 1925-1938 [Alle prove da Mejerchol’d 1925-1938], in Mejerchol’d repetiruet! [Mejerchol’d alle prove], a cura di M. M. Sitkoveckaja, Mosca 1993, 2 voll., vol. II, p. 416. Sulla prima, storica versione dello spettacolo, si vedano, in appendice, le memorabili pagine dell’interprete principale – da allora, con trascurabili intermittenze, alla ripresa del 1938, ed oltre –, Ju. M. Jur’ev.
  16. I.I. Čičerov, cit. nel commento redazionale a Iz stenogrammy obsuždenija spektaklja “Maskarad” [Dallo stenogramma della valutazione dello spettacolo “Un ballo in maschera”], in «Teatr», 1990, n. 1, p. 144.
  17. Cfr. B. Zingerman, cit. «Qui bisogna screditare questa compagnia, raffigurarli dal lato poco attraente. Ripeto sempre che l’attore deve essere o un pubblico ministero, o un avvocato», aveva già sostenuto Mejerchol’d nella conversazione con gli attori (19 novembre 1925), che lavoravano con lui all’allestimento de II revisore (ora in Vs. Ė. Mejerchol’d, Il revisore, a cura e con un saggio di A. Tellini, Imola, Cue Press, 2023, pp. 52-55).
  18. V. Šalamov, L’ultima battaglia del maggiore Pugačëv, in cit., vol. I, pp. 393, 394.
  19. I. I. Šnejderman, Vs. Ė. Mejerchol’d v rabote nad poslednim vozobnovleniem “Maskarada”, cit., p. 163.
  20. Vs. Ė. Mejerchol’d, prova del 4 ottobre 1938 di Un ballo in maschera.
  21. N. D. Volkov, Mejerchol’d, in Teatral’nye večera [Serate teatrali]. Mosca 1966, p. 281. Il corsivo è mio. A. Mackin (cfr. Vremja uchoda. Chronika tragičeskich let, cit., p. 38), nota come tema dominante della messinscena de La donna di picche (1935) fosse la solitudine di German.
  22. Uomo inflessibile, Kareno dovrà alla fine piegarsi davanti alla vita. Alle porte del regno è la prima parte di una trilogia che ebbe grandissimo successo in Russia. Lo spettacolo andò in scena il 30 settembre 1908 al teatro Aleksandrinskij, e segnò il debutto del sodalizio con A. Ja. Golovin. Nella stessa stagione fu dato anche nel teatro di Vera Komissarževskaja, con cui Mejerchol’d aveva rotto, e quindi al Teatro d’Arte, col grande Kačalov nella parte di Kareno.
  23. N. D. Volkov, Mejerchol’d, Mosca-Leningrado 1929, 2 voll., vol. II, p. 29.
  24. Vs. Ė. Mejerchol’d, Vystuplenie na sobraniì teatral’nych rabotnikov Moskvy [Intervento ad una riunione dei lavoratori teatrali di Mosca] (1936), in Stat’i, pis’ma, reči, besedy [Articoli, lettere, discorsi, conversazioni], Mosca 1968, 2 voll., vol. II, p. 348
  25. Cfr. la prova del 27 dicembre 1938.
  26. Cfr. la prova del 30 settembre 1938.
  27. Cfr. la prova del 10 dicembre 1938.
  28. «Mejerchol’d. […] Bisogna tutto il tempo frenare questa scena; essa si svolge con difficoltà, per poi d’un tratto prendere il volo. Ci sono delle scene, in cui lo sviluppo procede a poco a poco, un gradino alla volta, come nella musica: si mette un segno – biforcuto, e da un mezzo-forte, diciamo, se c’è questo segno, il suono si sviluppa fino a tre forte. Ma ci sono delle scene, in cui lo svolgimento procede in modo uniforme, su due-tre linee, con tendenza alla frenatura, e poi, d’un tratto, la scena è balzata dal primo piano di un grattacielo al 49°. / Questa scena procederà così: procede in modo uniforme, Arbenin farà le carte nervosamente, si controllerà, questo nervosismo ci sarà solo in come lui getta le carte, come si trattiene: tutto su un solo livello. Ma poi: «Vinco!… / Un momento, questa carta / Voi l’avete cambiata!!!» [pokaz]. Jur’ev lo farà meglio di me, ma voi capite: nelle orecchie dello spettatore ci saranno questo parlottio, e le frenature, e un aneddoto noiosetto, e delle esclamazioni ironiche, delle grida «Oh!» – e all’improvviso: «Un momento… questa carta / Voi l’avete cambiata!» sull’istante strepiterà come una bomba esplosa… E poi, è andata: un parlottio, discontinuo, un lungo parlottio discontinuo – ha preso a ribollire un formicaio. Ormai è all’opera una categoria musicale: un gruppo di persone che, imitando il parlottio dei giocatori, leggono [dietro le quinte] dei versi, e su questo sfondo il principe dice: «Sentite un po’…» – non sa che deve fare, come rispondere, lo [Arbenin] afferra per il braccio, ormai si agita, ormai è ebbro, ormai c’è in entrambi una fortissima emozione: «Io? Io?» – «Infame! E qui vi bollo» – e un mare di carte sul muso -, e di nuovo il principe non può rientrare in sé, perché Arbenin ha condotto sulle frenature una tale scena di offesa, che tutta la città, tutta la Pietroburgo di allora l’indomani avrebbe gridato che il giorno prima Arbenin in casa di N.N. sul muso al tal dei tali aveva scaraventato 80 mazzi di carte, e che farci, ne era tutto tempestato, uno scandalo… Il principe ha cominciato ad agitarsi, una sciabola! Un candelabro! Lo trattengono, non gli permettono di battersi, ed egli finisce questa scena: «Oh, dove, onor mio, sei! […]/ Uomo siete o demonio?» – infine, cadendo [nella poltrona] e coprendosi il volto con le mani, quasi singhiozzando: «L’onore, il mio onore!…». / E questa scena nel prosieguo sarà anche negli accessi; gli attori, che interpretano ruoli mimici, lo tratterranno, e il parlottio per tutto il tempo avrà luogo dietro la scena. Di questo parlottio ho la partitura, dove più forte, dove più piano ecc. / Ecco la difficoltà di questa scena». Cit. in I. I. Šnejderman, cit., p. 204 [N.d.T.].
  29. Così nel testo [N.d.T.].
  30. Aiuto di Mejerchol’d nella ripresa di Un ballo in maschera.
  31. II conte A. Ch. Benkendorf era il capo della polizia zarista, che sottopose a sorveglianza Puškin che pur aveva riacquistato la libertà dopo l’esilio a Michàjlovskoe [N.d.T.].
  32. Kondratij Fëdorovič Ryleev (1795-1825), poeta satirico. Pëtr Jakovlevič Čaadaev (1793-1856), primo ‘occidentalista’ russo, autore delle celebri Lettere filosofiche a causa delle quali le autorità lo fecero dichiarare ufficialmente pazzo [N.d.T.].
  33. Col figlio dell’ambasciatore francese De Barante Lermontov arrivò ad un duello, seguito da un esilio al Caucaso. Un suo scherzo offese un compagno d’armi, N. S. Martynov, che lo sfidò a duello. Il 15 luglio 1841 una pallottola troncò la vita di Lermontov [N.d.T.].
  34. Dal cognome di Sergej Aleksandrovič Esenin (1895-1925), esponente dei ‘poeti-contadini’, che nella Mosca postrivoluzionaria si abbandonò a una vita di scandali, tra bettole, ladri e teppisti [N.d.T.].
  35. «Ma d’improvviso poi la bella / Con lui voleva trarsi da ogni cosa»: atto II, quadro 2, scena 3 [N.d.T.].
  36. Così nel testo [N.d.T.].
  37. Lettera da Tarchany a S. A. Raevskij del 16 gennaio 1 836.
  38. Così nel testo [N.d.T.].

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orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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