Da “Ecfrasi”
A Cristiano de Majo
The concept is interesting: to see, as though reflected
In streaming windowpanes, the look of others through
Their own eyes. A digest of their correct impressions of
Their self-analytical attitudes overlaid by your
Ghostly transparent face.
John Ashbery
Oggi sono andato a rivedere i famosi coniugi
Arnolfini di Jan Van Eyck, 82 X 59,5 cm, olio
su tela, alla London Gallery anche se a Londra
non ci sono mai stato mi sono avvicinato sempre
più al quadro per ricavarne una descrizione, discreta
l’economia dello sguardo (fare del pensiero
un’esattezza della visione), ma non ho potuto
non considerare anche questo avvicinarsi
come la descrizione di qualcosa:
più mi sforzavo di descrivere l’opera
più vedevo la mia stessa visione
che si vedeva, la descrizione che diveniva
il luogo di una distanza, un’impotenza semica
che considera infinitamente le sue possibilità:
la descrizione, momento per momento,
come la testimonianza di una sparizione
originaria. Anche il quadro per contro, mi
sono detto, è una descrizione o meglio
una teoria delle descrizioni possibili perché
ciò che rappresenta (la moglie vestita
di seta verde, o forse è moffola, l’oscuro
barboncino, lo sguardo osceno e vitreo del marito
e la mano che i due si tendono, i piedi nudi,
le calzature lasciate sul fondo che ricordano il
soccus latino, tutti quegli oggetti
che slittavano sulla mia retina e divenivano
nella coscienza un indistinto timico, il segnale
di un segnale) è in fondo un dato del reale:
non sto qui dicendo che Jan Van Eyck sia
un pittore mimetico, ma che nell’opera
descrive la realtà nel suo darsi
all’immaginazione, perché la realtà non è
una presenza ma un’immagine che descrivendo
si cancella, una diagonale di pulviscolo quando
ci si passa attraverso; così che la descrizione,
mancando continuamente la realtà, arriva
per assurdo a raffigurarla. Ho avuto perciò
l’impressione che in quel frangente la realtà
(la mia ma anche quella del mondo in cui vivevo
e che si irradiava dal salone della London Gallery)
fosse in un certo senso ferma al 1434, probabilmente
l’anno in cui messere Arnolfini si fece ritrarre con la
moglie dal visionario maestro fiammingo, che cioè
l’unica realtà in qualche modo tangibile fosse quella
e che tutto ciò che mi era intorno fosse solo
un’interminabile astrazione, uno slontanamento appunto
dalla stanza in cui il pittore e i coniugi si trovavano
581 anni fa ma in cui si trovano anche ora. Allora
il 1434 è la data in cui il tempo si è biforcato
(una delle infinite volte) creando a partire dai
due sposi in posa un tempo fatto unicamente
della loro descrizione: un allontanamento
progressivo e metalettico partendo appunto
da Van Eyck, genio della distorsione, arrivando
fino a me e agli individui che alle mie spalle riproducono
in jpeg l’opera del fiammingo, la trasfigurazione
mitopoietica di una realtà che sta esistendo ma da cui
ci siamo separati e di cui quella trasfigurazione
è l’atto costitutivo. Come un
dispositivo che produce mondi paralleli
l’opera ha costituito un universo fatto solo
della sua fruizione, mentre i coniugi Arnolfini
sono ancora nella loro stanza, appena mossi
dalla fissità della posa, pronti a vivere una vita
che non è ancora accaduta.
*
Eptalogia di Telegram
I
«Un sorriso che era una fioritura vista
dall’interno dello stelo, il respiro stesso
della pianta mentre respira» («sì, ma
se una corteccia è spinta a valle
da un fiume, come spiegare che il fiume
è al contempo nella corteccia, che
la corteccia è insieme il fiume come
proiezione?») – vicino Saturnia, in
estate, sei trascorso dalla visione
metaprospettica di te che scrivi a un
architetto del paesaggio sentilo fino
in pancia, poi cancelli e invii la foto
della luna piena che rischiara il
faggeto, sperando colga l’ironia, il paragone
tra il satellite e l’immagine del suo
capezzolo che si anima in una GIF su Telegram,
pochi secondi ripetuti potenzialmente
in eterno, quando questa allieva di Gilles
Clément si alza la maglietta scoprendo
un minuscolo seno, prima di massaggiarsi
la mammella con un dito, “ruma” in latino
arcaico, da cui Roma, presente e trapassato
in un istante progressivamente futuro, infinito
per estensione – ontogenesi e filogenesi
perpetuamente si intrecciano mentre
scorrono le immagini a bassa risoluzione fuori
e dentro sé stesse – un sorriso chiuso
in un bottone il capezzolo è il disco alieno
su cui attraversi lo spazio della tua
solitudine, mentre ti alzi dall’acqua calda
e l’impronta dei tuoi piedi trasforma la
terra in morbido fango.
*
III
Un’immagine che sogna apre al sogno
chiede di essere completata dallo stesso
sogno che crea, leggo al margine di
un post su Tumblr dove le tue ciglia
si schiudono in un loop che è già
mitopoiesi (insetti traslucidi
scorrono in un commento
a piè pagina, un pesciolino
d’argento sul muro, una metonimia
appena accennata), e una rêverie
si stacca dalla trascrizione mentale dei tuoi
stivali lasciati sul pavimento
(ciò che vediamo lo pensiamo non
lo vediamo soltanto) come nel canto
di una pittura parlante.
Non c’è differenza sensibile
fra il tuo profilo e un porno
amatoriale.
*
V
(perché l’immagine non è la deissi
didascalica di una scena, o ciò che
genera la scena, ma la scena come
processo, una progressione asintotica
verso ciò che non la significa mai
– l’immagine non è guardata ma
è sempre ciò che rimira – sovrapponendosi
alla scena, elidendo il suo decorso,
l’immagine diviene un concentrato
euristico, un differenziale, il testo
che si forma e ragiona su se stesso).
*
Cumuli di materiale organico.
Nella città in cui si trova non
conosce nessuno. Si fa truffare
dovunque. È felice ma riflette
un’infelicità crescente. Guarda
ogni particolare. È convinta che
l’attenzione sia una forma secolarizzata
di preghiera. In televisione ci sono
le immagini della Grecia, il sesso sfondato
di una capra, gli indici finanziari.
Mi scusi,
la piscina è chiusa.
È stanca di mangiare
nei ristoranti. Andare in vacanza
le costa un quarto del PIL di uno stato
africano. Legge su un libro che la realizzazione
personale di un borghese non vale
il petrolio che costa. È nordeuropea.
È bianca. Nei posti che visita
non ci sono mai neri. Si vergogna.
Con i suoi spostamenti contribuisce
allo scioglimento dei ghiacciai, al consumo
di combustibile fossile. Ascolta Tim Hecker.
Ha scritto una tesi sui Quattro
Quartetti. Sa distinguere
un certo tipo di benessere. Conosce
l’inflessibilità di certi piani. Sta cercando
di fare mente locale. Il nome dell’albergo,
carezzato dalla velocità dell’automobile.
Compra un souvenir per la madre,
che ha un tumore. Una larva di suono,
spoglia di cicala o di serpe, una grafia
priva di pronuncia.
(la differenza non è morfologica
è formale: in quanto la struttura
del periodo articolerà unicamente
la sostanza conoscitiva dell’immagine
della poesia).
*
Immagine di: Andrea Bolognino, Cataratta o opacizzazione del cristallino.