Bellocchio e il fallimento della parola

 

di Roberto Todisco

«Credo di tornare a voi in un’altra forma» scrive Aldo Moro dalla prigionia alla moglie Noretta. Aveva ragione. L’altra forma è quella dello spettro, che da più di quarant’anni agita i sogni di un intero Paese, soprattutto quelli delle persone che di questo Paese gestiscono il potere. A evocare di nuovo il fantasma del Presidente della Democrazia Cristiana, ucciso dalle Brigate rosse nel maggio del 1978, è Marco Bellocchio, che torna su uno dei momenti più bui della Repubblica, dopo quasi venti anni. Da Buongiorno, notte a Esterno notte, un discorso che ha come continuità, appunto, il buio, la notte, come momento di incubi, di visioni oniriche e di fantasmi. Il tema del carattere fantasmatico di Aldo Moro è così evidente nei due lavori di Bellocchio dedicati ai tragici 55 giorni di quella primavera di fine anni Settanta, che il regista ci scherza su. In Buongiorno, notte con la scena della seduta spiritica, e nel secondo episodio di Esterno notte, il più delirante, con il grottesco personaggio del medium calabrese in cravatta sgargiante, cui un allucinato Cossiga presta attenzione.

Il film del 2003 e la serie televisiva in uscita in autunno per la Rai e presentata in due blocchi di tre puntate in questi giorni al cinema, pur se lontani per stile e passo narrativo, appaiono legati da una fitta rete di parallelismi. Tralasciando per un momento, per riparlarne in chiusura, la prima sequenza di Esterno notte, tutta la prima puntata è caratterizzata dalla presenza di Aldo Moro sullo schermo, cui la straordinaria interpretazione di Fabrizio Gifuni dà corpo, voce e gesti, in un’operazione di tale mimesi che ha il sapore della reincarnazione. Una reincarnazione, fra l’altro, che travalica il perimetro della finzione di questa serie, dal momento che Gifuni aveva già interpretato il Presidente della DC nel film Romanzo di una strage e da anni porta a teatro il Memoriale, il corpus dei testi di Moro dalla prigionia. Un inizio, dunque, che fa da contrappunto alla totale assenza dell’immagine di Moro nella prima parte di Buongiorno, notte. Ma più è carnale la presenza all’inizio della serie, tanto più si fa potente il ritorno in forma di spettro nelle quattro puntate successive, dopo il rapimento. Sia nel film che nella serie, Moro entra ed esce dai sogni (anche a occhi aperti) di tutti i personaggi che popolano l’interno (il covo dei brigatisti) e l’esterno della vicenda. Quella fra interno ed esterno è la dialettica che anima entrambi i lavori di Bellocchio, due mondi che si incontrano solo nelle frequenti inquadrature dallo spioncino di una porta, ma restano tragicamente distanti. Solo il fantasma di Moro ha la facoltà di attraversare quella soglia.

«Le circostanze avevano trasformato Moro in un loquace fantasma postumo, un fantasma dattiloscritto, però, di quelli che non possono fare paura», scrive lo storico Miguel Gotor, consulente di Bellocchio per la serie, nella sua edizione delle Lettere dalla prigionia. La scrittura in effetti svolge un ruolo centrale nell’affaire Moro. Innanzitutto le lettere recapitate dai brigatisti durante la prigionia, poi le lettere non recapitate e il Memoriale, ritrovati in fogli dattiloscritti nel novembre ’78 in un appartamento di Via Monte Nevoso, a Milano, e infine le fotocopie degli originali, saltate fuori da un tramezzo di gesso nello stesso appartamento, ma solo, incredibilmente, nel 1991. Tutti questi scritti costituiscono la manifestazione materiale della presenza fantasmatica di Moro. È la sua voce che torna e ritorna.
Bellocchio insiste molto sulla scrittura. Non solo utilizzando, soprattutto in Esterno notte, le parole di Moro affidate alla voce fuori campo di Gifuni, ma riflettendo esplicitamente sul potere della parola, e sul suo fallimento. In Buongiorno,notte il Moro interpretato da Roberto Herlitzka esprime il più classico dei tormenti dello scrittore, quando dice di cercare «la parola che arrivi al cuore, ed è una sola, non sono due». Chiunque scriva cerca quell’unica e precisa parola, figuriamoci se da essa dipende la vita e la morte. Moro per 55 giorni si è aggrappato al potere della parola. In Esterno notte c’è una scena che più delle altre ritorna su questo tema, ma, appunto, all’esterno del covo. Papa Paolo VI, un tormentato Toni Servillo, chiama nel cuore della notte don Cesare Curioni, il tramite del Vaticano per la trattativa con i brigatisti, per avere la sua opinione sul testo del discorso che vuole rivolgere ai rapitori. Lo stesso tormento della parola.

La parola scritta ha scarnificato il corpo di Moro, lo ha reso un fantasma, come abbiamo detto, ma non lo ha salvato. Anche perché la parola del prigioniero è stata da subito assediata. I suoi scritti hanno prima subito diversi livelli di censura, da parte dei brigatisti, che hanno scelto quali lettere recapitare e quali no, e da parte del governo e dei servizi segreti. Poi lo Stato, durante i giorni del sequestro, ha deciso, come strategia di controguerriglia, di delegittimare le parole di Moro, attribuendole a un uomo ormai non più padrone delle proprie facoltà. In seguito, dopo i primi ritrovamenti nell’appartamento di Via Monte Nevoso, ne ha messo in dubbio l’autenticità. Ma se la parola è destinata al fallimento, Bellocchio, sia in Buongiorno, notte che in Esterno notte, prova ad affidarsi al potere salvifico delle immagini, altro strumento fantasmatico per eccellenza. La serie si apre esattamente come si era chiuso il film, con l’immagine di un Moro liberato: sorridente e sollevato, Roberto Herlitzka cammina per le strade di Roma all’alba; Fabrizio Gifuni arrabbiato in un letto di ospedale, da cui guarda in tralice Andreotti, Cossiga e Zaccagnini, mentre fuori campo la voce dell’attore pronuncia il misterioso passaggio del Memoriale in cui Moro ringrazia le BR per averlo liberato, e annuncia che da uomo libero avrebbe lasciato la Democrazia Cristiana. Dunque Bellocchio, come il Tarantino di Bastardi senza gloria e C’era una volta a Hollywood, riscrive la storia e salva Moro? L’operazione del regista italiano appare più complessa. In entrambi i lavori propone la liberazione di Moro come una delle possibilità, e in tutti e due i casi, forse, come un sogno. Addirittura in Esterno notte la fine della prigionia di Moro è messa in scena tre volte, in tre modi diversi, e uno di essi è esplicitamente finto, metacinematografico. È come se, per Bellocchio, quello che è successo la mattina del 9 maggio 1978 sia qualcosa di così accecante da non poter essere “filmato” una volta per tutte, come fosse un prisma che non può che restituire tante immagini diverse. Molto significativo uno dei finali possibili proposti da Bellocchio: Moro chiuso nel bagagliaio della Renault 4 rossa, vivo, e come controcampo gli edifici simbolo dello Stato e dell’unità nazionale. Ancora interno ed esterno, il destino dell’uomo Moro e quello della Repubblica fatalmente connessi.

Alla fine della visione di Esterno notte, tuttavia, restiamo con l’idea che, dopo la parola, abbia fallito anche l’immagine. Bellocchio infatti ci lascia davanti alla realtà inoppugnabile dei filmati di repertorio e alle didascalie rosse che raccontano come sono andati i fatti negli anni seguenti. D’altronde aveva fatto dire alla brigatista Chiara, quella che in Buongiorno, notte “libera” Moro, che «l’immaginazione non ha mai salvato nessuno».
Di Aldo Moro resta il fantasma, mostrato da Bellocchio di volta in volta spaventoso, inquietante, tenero, minaccioso, a seconda della persona a cui “appare”. Sicuramente la sua “presenza”, la sua «dolorosa immagine» come la definirà Pertini nel suo discorso di insediamento, mette a nudo l’inadeguatezza e la meschinità dello Stato e del Paese, un Paese «dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili», come lo ha definito lo stesso Moro, nel suo ultimo discorso alla direzione della Democrazia cristiana, il giorno prima di essere rapito. Poi è iniziata la notte.

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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