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Il mondo offeso genera libri

di Romano A. Fiocchi

Giovanna Vignato, Senza una stella sopra la testa, Edizioni del Mondo Offeso, 2021

Ivan Bormann, Il tempo non ha una storia, Edizioni del Mondo Offeso, 2022

 

Lo spirito è quello della Libreria degli Scrittori nella Mosca postrivoluzionaria. Quando, racconta Michail Osorgin, per far fronte all’impossibilità di stampare libri si arrivò addirittura a produrre esemplari unici scritti a mano, purché la letteratura potesse ancora raggiungere i propri lettori. Ma è anche lo spirito intraprendente di Sylvia Beach e della Shakespeare and Company, la libreria che ebbe il coraggio di pubblicare a Parigi, in lingua originale inglese, un testo che nessun editore voleva: «Ulisse», di cui ricorre proprio quest’anno il centenario.

È dunque con questa vocazione, che sottende una visione critica nei confronti del conformismo e dell’appiattimento culturale di certa editoria, che la Libreria del Mondo Offeso è diventata anche casa editrice. Sottolineo anche, perché la libreria milanese, che prende emblematicamente il nome da «Conversazione in Sicilia» di Vittorini e il logo da «Tristano muore» di Tabucchi, mantiene comunque la sua funzione fondamentale: continuare a vendere libri. Si tratta insomma di una sorta di ampliamento della sua offerta culturale, un modo per far sentire la propria stessa voce tra i libri che propone ai lettori.

Il progetto non aspira certo a invadere il mercato, non ne avrebbe né i mezzi né l’ambizione. E non è questo lo scopo. Mira piuttosto a pubblicare un paio di titoli all’anno che per stile e contenuto siano in coerenza con la visione del “mondo offeso”. Questa è in fondo l’arte dell’editoria, direbbe Calasso, ossia la capacità di dare forma a una pluralità di libri come se essi fossero i capitoli di un unico libro. Libri comunque di narrativa e, come tali, che raccontano delle storie, storie belle.

È così che nel novembre scorso è uscito Senza una stella sopra la testa di Giovanna Vignato. L’ho letto in anteprima, quando era ancora un manoscritto da digrossare con l’editing, come si dice in gergo. Ed è certamente una bella storia. Come sfondo un villaggio di confine, case con i gradini di pietra, vetri alle finestre fissati al telaio con morbido stucco rosso, personaggi diafani, molti dei quali hanno radici nella Galizia austriaca e formano un tutt’uno con l’atmosfera. Che è un po’ magica e un po’ mitologica, come se appartenesse a un non-luogo, o meglio: un luogo immaginario ma verosimile, una Macondo proiettata nelle montagne del nostro estremo Nord-Est. Clusizza, così si chiama il villaggio, è disabitata e invisibile, priva di zenit, ossia “senza una stella sopra la testa”. I Clusacchi, i suoi abitanti, parlano la dolce lingua clusacca, e lavano e rassettano accuratamente le proprie case prima di lasciarle per sempre.

Ma se il romanzo della Vignato è certamente un testo suggestivo, quello del regista triestino Ivan Bormann è di un’originalità straordinaria. Il tempo non ha una storia è un “romanzo brevissimo” –come recita la prima di copertina – scritto in presa diretta, quasi un flusso di coscienza. Volendo fare qualche parallelo: il «Tropico del Capricorno» di Miller, il «Tristano» di Tabucchi, oppure ancora il «Malone» di Beckett. Quello di Bormann è un girovagare nella Storia del Novecento come nella foresta ariostesca, incontrando personaggi inattesi che però qui sono realmente esistiti e hanno fatto la Storia politico-culturale di Trieste e dell’Istria: Guido Keller, Vladimir Gortan, Ligio Zanini, Wanda e Marion Wulz, Angelo Cecchelin, Giovanni Gianone detto Johnny, Bobi Bazlen, Claudio Magris, sino a un’immagine fuggevole dello stesso D’Annunzio.

L’impaginazione di Il tempo non ha una storia – con carattere da macchina per scrivere, ovvero un Courier appositamente modificato – creda l’effetto indovinatissimo di un vecchio ciclostile. Ai capitoli si alternano immagini fotografiche in bianco e nero proiettate in un tunnel, su pagine nere di un’eleganza alla Franco Maria Ricci e, al tempo stesso, di un’inquietudine che lascia il segno. È un romanzo circolare che non solo parte da Trieste e torna a Trieste, in tutti i sensi città di frontiera, ma che inizia dal finale e torna al finale percorrendo un periodo storico che va dall’impresa di Fiume del 1919 agli anni Settanta, corredando le pagine di una tabella cronologica che aiuta il lettore a comprendere dove si stia muovendo Alan, il protagonista. Alan è un uomo del suo tempo che finisce fuori dal tempo e lo rivive attraverso associazioni di idee e salti nei decenni inseguendo i personaggi, entrando e uscendo da tunnel spazio-temporali, viaggiando nel passato come uomo del futuro, sino a spaventare Magris citando brani di racconti che Magris stesso sta ancora scrivendo: “Qui ci deve essere una spia, qualcuno deve aver messo le mani tra le mie carte, e comincia a cercare nella sua borsa, a tirare fuori tutto e a innervosirsi”.

Da buon anarchico, nel suo racconto in terza persona Alan mette in luce nefandezze e lati positivi, falsità e verità, potere e emarginazione, ma soprattutto la cattiveria e la bontà degli esseri umani. Perché Alan, come Ligio Zanini (e come lo stesso Bormann), è un “anarchico nella scrittura, nella vita, nell’anima, libertario, fuori dagli schemi, anche politici se vuole”.

Si arriva alla fine della lettura con la consapevolezza di aver capito qualcosa di più della Storia, soprattutto di avere tra le mani un buon prodotto letterario ed editoriale. Un’ultima chicca: i disegni di copertina di entrambi i volumi sono di Giancarlo Iliprandi (1925-2016), per gentile concessione dell’Associazione che ne porta il nome.

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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