Caldo

di Fabio Rodda

 

Posso farcela. In ospedale, mi dicevano di concentrarmi su ogni singolo muscolo, di immaginarne le fibre, di comandare i movimenti a ogni porzione di corpo: cominciare dal piede. Prima al mignolo, poi alle altre dita. Al metatarso, alla pianta, al tallone. Poi alla caviglia, al polpaccio, alla tibia e al menisco. Solo dopo, alla coscia e daccapo con l’altra gamba, finché non sentivo muoversi tutto nella mia mente. Per ultimo, il comando al bacino che doveva dare la spinta.

Ci vuole solo un po’ di concentrazione. Solo un piccolo sforzo e sarò giù dal letto e allora potrò trascinarmi di là, vedere cos’è successo. Concentrati, Omar. Guarda lo specchio, sei deciso, non hai paura, sai che puoi farlo: una spinta e giù da questo letto.

*

Faceva caldo, tanto caldo: il tempo era cambiato, da anni le estati erano diventate insopportabili. Lo dicevano spesso anche alla tivù, giù al bar, che c’erano i giovani che protestavano perché il clima stava cambiando, che avrebbe fatto sempre più caldo e che i mari si sarebbero alzati e chissà quali disgrazie stavano per accadere. Chissà se era vero. Sicuro, era più che vero che gli inverni erano diventati autunni e tutte le altre stagioni estati, come mai si era visto, in valle. Mario entrò al bar: «senti ti, che roba. Mai fat sto cald a maggio.»

«Te ha reson, Mario. Vara che l’è quasi mezzodì, non l’è ora di andare al campo.»

«Tranquilo Nani, vae giusto a dar n’ocio; guardo che sia tutto a posto e poi casa.»

«Va ben, no sta a far laori, che te ha otanta ani.»

«Sempre manco de ti, son sempre più giovane, Nani.»

E aveva messo in moto il treruote che caracollava lungo la strada di cemento appena rifatta dal Comune, scendendo verso la valle, dove non ci abitava più nessuno, se non lui con la sua famiglia.

Il campo era a posto, Mario aveva fatto il giro controllando bene sotto le foglie di lattuga, vicino alle teghe e alle zucchine. Niente danni, le trappole per topi sparpagliate qua e là vuote: o le talpe si erano fatte furbe, o faceva troppo caldo anche per loro. Stava per rimettere in moto l’Ape, quando sentì il rumore di una macchina che si avvicinava lungo lo sterrato. Sbuffò, scese dal piccolo abitacolo e si avvicinò al capanno di legno, quattro assi messe su alla bell’e meglio un cinquantennio prima, che incredibilmente avevano attraversato come gli alpini in Russia il gelo degli inverni, quando ancora nevicava e tutto poi si trasformava in un mondo bianco e silenzioso. Prese il bottiglione di clinto, versò due bicchieri e si sedette sulla seggiola di fili grossi di plastica verde attorcigliati a uno scheletro di ferro arrugginito.

«Buondì, Giuseppe.»

«Buongiorno, Mario.»

«Vara che te ho versà ‘l vin, ti ho versato un bicchiere, anca se te se ‘n gran rompicoglioni.»

«Mario…»

«Alla tua salute, Giuseppe.»

«Non dovrei, sono in servizio con la macchina del Comune.»

«Gnanca mi dovarie, nenach’io dovrei, sono vecchio. Dis al dotor. Dai bevi e dime, che so già.»

«Mario, è la terza volta che vengo a casa tua e non mi apri. Son dovuto venire qua. Lo sai perché, giusto?»

«Certo. Parchè te se ‘n rompicojoni.»

«Mario…»

«Dai dai, Giuseppe. Son drio scherzar. Lo so, lo so che che te vol. Ma te ho già dita, te l’ho già detto, che non ho bisogno di niente. Me son sempre rangià. Mi arrangerò ancora.»

«Ma Mario, da quando anche Omar… sì, insomma. Prima tua moglie, adesso tuo figlio che a stento si muove. Perché rifiutare una mano dal Comune?»

«Parchè voialtri avè da farve i cazzi vostri. Atu capì? Vi dovete fare gli affari vostri, che io ho ottant’anni e ho sempre badato alla mia famiglia da solo. E ades? Oleu che? Cosa volete? Venire a casa mia a dirmi cosa devo fare?»

«Ma no, Mario. Si tratta solo di servizi di supporto, un infermiere un paio di volte la settimana. Per vedere se è tutto ok, se va tutto bene»

«Volete venire dentro casa mia a dirmi come mi devo comportare con mia moglie e mio figlio. E invece no, Giuseppe, te pol tornar dal sindaco e dirghe ch’el se ciave. Atu capì? La me fameja l’è roba mea. È roba mia. Mia fatica, miei soldi, mai chiesto niente a nessuno. Io lo so cosa volete, davvero.»

«E, cosa mai potremmo volere, Mario?»

«Vegner a casa mea a comandar. Venire a dirmi che non va bene il bagno così e che serve questo e quello e farme ‘ndar via perché in valle non ci vive più nessuno. Volete mandarmi via.»

«Nessuno vuole mandarti via da casa tua, Mario.»

«Te se ‘n conta bale. Sei un bugiardo. Sono anni che venite a dirmi che devo andar via. E mi te dis che l’è l’ultima olta che te beve n’ombra co mi, se te gnen ‘ncora a romper i cojoni. Valo ben? Va bene, Giuseppe? Son drio innervosirme. Quel dio!»

Mario aveva asciugato i due bicchieri col fazzoletto rosso che teneva sempre attorno al collo, aveva chiuso la baracca col grosso lucchetto e aveva messo in moto il suo trabiccolo, mentre la macchina del Comune si arrampicava a fatica lungo lo sterrato che riportava alla Provinciale.

*

Una valanga: il mio corpo che mi crolla addosso, io che non riesco a respirare, né a muovermi in nessuna direzione. Dovevi cadere dall’altro lato del letto, testa di cazzo che sei. Sono riuscito a girarmi, lentamente, ad avvitarmi su me stesso fino a ritrovarmi di nuovo a pancia in su. E ho respirato a fondo. Ho alzato la testa fin dove riesco e ho visto il casino in cui mi sono messo: le gambe attorcigliate una sopra all’altra, quasi sotto al letto a sinistra; a destra l’armadio; dietro, il muro. E adesso, come esco da quest’incastro? Vedo la stanza, la luce filtra dalle persiane socchiuse, non c’è nessuno. È successo qualcosa, maledizione, e io non so come diavolo spostarmi da questo buco in cui mi sono andato a incastrare, testa di cazzo che sono.

*

Mentre tornava a casa, a Mario era salita una gran rabbia e aveva deciso di fare il giro largo, prendere la provinciale e andare a farsi un bicchiere in paese, prima di rientrare. Tanto aveva tutto il tempo per tornare e far da mangiare per Maria e Omar. Per imboccare sua moglie e portare il piatto in camera a suo figlio, aiutarlo a mettersi seduto, appoggiato ai tanti cuscini e lasciarlo mangiare in pace prima di portarlo in bagno e di lavarlo e, insomma, tutte le solite cose che riempivano i suoi pomeriggi da anni, dall’ictus di sua moglie e dal maledetto incidente di suo figlio. Il bar, a quell’ora, era pieno di gente che non conosceva: i suoi coetanei, ormai pochissimi, erano già tornati alle rispettive case dopo la briscola e adesso quello era territorio dei giovani, dei disoccupati, degli immigrati perdi tempo che saltavano il pranzo fra un bicchiere di bianco e uno spritz. Entrò, e con grande sorpresa vide ancora Nani, seduto al suo solito tavolino che leggeva il giornale.

«Fatu che, ‘ncora qua? Vara che dopo no te se pi bon de tornar a casa.»

«Ere drio ‘ndar. Stavo andando. Ma ti? No te era ‘ndat al campo?»

«Sì, ma i me ha fat girar i cojoni e son vegnest via. Mi hanno fatto arrabbiare. Fon n’ombra e te porte a casa col triroe. Un bicchiere per calmare il nervoso.»

«Va ben, Mario. Elo chi che ‘l te ha fat rabiar? Chi è stato?»

«Asa star, nesun. Un mona.»

Faceva veramente caldo quel giorno, e l’Ape rimasto sotto al sole pareva una lamiera incandescente.

«Senti che roba, setu mat a ‘ndar in giro co sto coso? Ghe sarà tzinquanta gradi la entro.»

«Tasi Nani e salta su. L’è calt, sì. Masa calt. Troppo caldo, oggi.»

Fecero le poche centinaia di metri che separavano il bar in piazza dalla casa di Nani, l’unico amico che gli era rimasto in paese e che ancora aveva la fortuna di camminare bene, come lui. E anche di avere una moglie e un figlio che stavano in piedi da soli. Salutò Nani e fece ciao con la mano a Gisella che era andata ad aprire la porta, girò l’Ape e ripartì verso lo sterrato che riportava giù in valle.

*

In ospedale facevamo gli esercizi anche per le braccia. Riprenderai quasi tutta la funzionalità, dicevano all’inizio. Poi, il cinquanta per cento. Poi il venti. Praticamente non riesco a sbucciare un’arancia. Figurarsi fare leva per ribaltarmi in avanti. Per fortuna c’è spazio sotto al letto: le gambe non sono bloccate. Con un po’ di strattoni, posso girarle, poi buttare il busto avanti e riuscire a mettermi supino senza soffocarmi, poi posso trascinarmi fino alla porta. Cazzo, la porta. E come la apro quella porta?

*

Quando rientrò in casa, Mario, fu accolto dal solito silenzio. Solo il ronzare del vecchio frigorifero in cucina rompeva il nulla che lo avvolgeva. Entrò in camera. Maria lo guardava. Sorrise appena.

«ciao Maria. Tut ben?»

La moglie accennò un movimento degli occhi.

«me lave le man e te fae da magnar. Pasta al pomodoro, va bene?»

Lo stesso gesto a rispondere.

«ti apro gli scuri, così te riva ‘n sciant de sol. Un po’ di sole in faccia. Poi te li chiudo, che se no finisci arrosto co sto cald, valo ben?»

Lo stesso su e giù, lo stesso sorriso grato.

Mario aprì le persiane e un fascio di luce planò sul viso di sua moglie, che strizzò gli occhi. Mario rimase lì un po’ per capire se a Maria facesse piacere quella luce o se il sole, così feroce quel giorno, potesse darle fastidio. Lei sorrise ancora e suo marito uscì dalla stanza lasciandola inondata dai fasci solari. Maria aveva avuto un ictus un paio d’anni prima. Era rimasta completamente paralizzata e per un po’ i medici pensavano che non sarebbe uscita dal coma. Invece, dopo poche settimane, era sveglia e del tutto presente, ma chiusa in un sarcofago che non poteva comandare. Festeggiò il suo settantasettesimo compleanno in ospedale. Le infermiere portarono il prosecco e tutti brindarono. Anche Maria, a cui il marito aveva versato qualche piccolo sorso di vino in bocca. Mario aveva bestemmiato iddio e tutta la sua stirpe con più veemenza di quanto avesse fatto in tutta la sua vita di grande smadonnatore dell’alto Veneto. Maria riusciva a muovere solo gli occhi e, col tempo e l’aiuto del personale dell’ospedale, aveva reimparato a usare la bocca per sorridere e mangiare se imboccata. Aveva tolto il sondino e Mario aveva persino pregato che ritrovasse la parola. Ma non era stato ascoltato. Lui e suo figlio impararono a comunicare con Maria osservando i movimenti che faceva con gli occhi e la bocca. Era diventata routine, tutto diventa routine nella vita degli uomini. Per un anno buono, lo aveva aiutato Omar, suo figlio, cinquantenne scapolo e mai uscito di casa. A lui interessavano solo il bar e correre con la moto sugli sterrati della valle. Finché un sasso girato dalla parte sbagliata non aveva messo fine alle sue scorribande notturne. Mario l’aveva messo a letto nella sua stanza e non l’aveva mai perdonato per avergli buttato addosso quest’altra croce, a quasi ottant’anni. Poi, anche quella era diventata normalità, la sua normalità. Due bocche da sfamare, due culi da lavare. Lunghe giornate in silenzio, mentre aspettava di dover far qualcosa per quello che restava di sua moglie e di suo figlio.

*

La porta, la porta, la porta. Come ho fatto a non pensarci? E adesso? Il telefono è di là, in corridoio. Oltre la porta. Mamma, di là, in camera. Mario? Tutto è al di là di quella maledettissima porta.

*

Faceva veramente troppo caldo, quel mercoledì di metà maggio. Mario entrò in cucina con una strana sensazione addosso, come di nervoso, di ansia. Una stretta in basso, allo stomaco, che gli faceva far fatica a tirare il fiato. Cominciò ad affettare una cipolla, si avvicinò alla dispensa per prendere la bottiglia d’olio e quando alzò il braccio una fitta lo lasciò immobile, allibito di quel dolore così forte e improvviso. Si strinse il polso destro con la mano sinistra e portò le braccia al petto. Stava per gridare dal male, quando una seconda fitta, ancora più potente, lo ammutolì. Stramazzò a terra fra la stufa nera e il tavolo di formica verdastra. L’ultima cosa che vide fu il riflesso di quel sole malefico sul linoleum del pavimento e i piedi di ghisa della cucina economica. Poi, il buio.

*

Devo essermi addormentato. Ho sete. Dagli scuri socchiusi non filtra più luce, devo aver dormito tutto il pomeriggio. Ho sete e devo andare in cesso. Fa caldo, maledettamente caldo. Chissà che ore sono. Potrei gridare. Ma chi mi sentirebbe? Non c’è niente e nessuno attorno a questa stamberga. Non c’è mai stato nessuno. Come aprirò quella maledetta porta? Non ha mai fatto così caldo, da queste parti.

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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