Perché siete tornati?

di Mario Temporale

Perché siete tornati? La domanda era appesa alla parete del bar, dietro al bancone, tra le bottiglie di aperitivi e amari.

Da un lato c’erano montenegro, jagermaster, vecchiaromagna, ramazzotti, stock, unicum, petrus. Dall’altro gancia, martina, cinzano, riccadonna, molinari, cynar.

In mezzo c’era la domanda: Perché siete tornati?

Ogni volta che la madre o il padre allungavano il braccio per prendere un aperitivo o un amaro – jagermaster era popolare soprattutto la domenica pomeriggio, fernet cynar piaceva alle donne e al capocorista del coro della chiesa che lo beveva con la menta e l’acqua minerale – quella domanda saltava fuori e non era possibile evitarla. Era più popolare dello jagermaster e del cynar messi assieme. Al bambino piacevano le bottiglie degli aperitivi e degli amari, gli piacevano le etichette, perché erano colorate, ma anche certe forme delle bottiglie, che erano strane ma proprio strane, come quella del vecchiaromagna che al bambino sembrava don Agostinis, il parroco del paese che era tondo e basso con la gabbana scura e la testa fina coperta dalla coppola nera come il tappo del liquore.

C’era anche la grappa, ma la grappa non era né aperitivo né amaro perché aveva il colore dell’acqua, era trasparente, non era niente, però la bevevano spesso i clienti del bar, e tanti la mettevano nel caffè, il caffè corretto grappa, che era il modo migliore per cominciare la giornata, diceva Jus, che era uno dei personaggi fissi dell’osteria.

Anche Jus, un giorno, aveva fatto quella domanda, dopo aver ordinato della grappa. Era strano che avesse fatto quella domanda, perché la grappa era in un posto diverso, era staccata dagli aperitivi e dagli amari, la grappa era trasparente, non aveva colore, non era niente. Era sul lato esterno, al margine di tutti loro, gli aperitivi, gli amari, i liquori tutti, e quindi distante dalla domanda. Però Jus la fece lo stesso. La fece una volta e poi basta, anzi due, ma la seconda era probabilmente tardi, dopo varie grappe e del vino, grappa e vino, vino e grappa, la testa di Jus non era più così lucida, e la voce uscì biascicante. Quindi se aveva fatto quella domanda più di una volta non importa, conta solo quella volta che la fece appena entrato, dopo aver notato che il quotidiano locale era occupato, lo stava leggendo un forestiero che beveva un caffè, un caffè semplice, non un caffè corretto con la grappa. Jus si era avvicinato al banco e aveva notato la domanda.

Non è che la domanda fosse proprio appesa al muro come una fotografia in una cornice o un orologio da parete, no, non era appesa così, era appesa in aria, sopra le bottiglie, e anche se non si vedeva lei c’era, e chi sapeva che c’era la vedeva. La vedevano tutti. Forse quel giorno Jus aveva dei pensieri e uno di quei pensieri era proprio quella domanda, quindi la vide al centro della parete, in mezzo e sopra agli aperitivi e agli amari e non poteva non farla, così la fece.

“Perché siete tornati?”

Quel giorno, a quell’ora, dietro al banco c’era la madre. Il bambino era rientrato da poco dall’asilo, il pulmino lo lasciava sulla porta e lui entrava correndo. Il bambino correva sempre. Perché certi bambini corrono sempre? Il bambino raggiunse la madre dietro al bancone. Chiese se poteva avere un gelato. No, non poteva, perché altrimenti non avrebbe avuto appetito per la cena. La cena era più importante del gelato. Era una cosa che non capiva, e lo faceva arrabbiare, ma non pianse. Si sedette su di uno sgabello, forse se aspettava un po’ la mamma avrebbe cambiato idea.

La madre tornò da Jus, non c‘erano altri clienti a parte lui e il forestiero che leggeva il giornale. “Eh, perché siete tornati?”, chiese Jus. La mamma gli versò la grappa e non rispose, non rispose subito, rimase in silenzio, un silenzio che si notava perché era più lungo del silenzio che di solito c’è tra la domanda di una persona e la risposta di un’altra.

E poi disse qualcosa, quando sembrava ormai tardi per rispondere: “E tu, perché sei tornato?”.

Questa fu la risposta della madre, che poi era una domanda, notò il bambino. Jus portò alla bocca il bicchiere di grappa, ma non replicò. Si voltò verso i tavoli e vide che il forestiero era uscito e il giornale era libero. Prese il bicchiere di grappa e si diresse verso il tavolo.

Due domande, nessuna risposta.

Jus non era un paesano qualsiasi, perché lui la domanda, quella stessa domanda che aveva fatto alla madre del bambino, se la portava dietro, ce l’aveva appesa alla nuca, che tutti la vedevano e si ricordavano di fargliela almeno una volta all’anno. Forse pensava che essendo rientrati da poco dall’emigrazione i gestori del bar fossero più indicati di lui per dare una risposta, e magari la loro risposta avrebbe aiutato lui a trovarne una. Lui, per sé, una risposta non l’aveva e quando gli facevano quella domanda metteva un sorriso stirato in viso, come uno che aspetta in fila di fronte a uno sportello e si stacca improvvisamente dalla coda perché ha deciso che non ha senso, che nulla ha più senso.

Jus una risposta a quella domanda non l’aveva.

Jus era più vecchio dei genitori del bambino. Era quasi un nonno ai suoi occhi, aveva forse quasi quarant’anni. Jus non aveva un mestiere. C’era il calcio, o meglio c’era stato. Quando il calcio finiva, c’era l’osteria. In mezzo, c’era il lavoro da bidello che un sindaco suo coetaneo e mezzo cugino gli aveva procurato quando la carriera di calciatore si era conclusa, troppo presto e senza una ragione valida.

Perché sei tornato? Il bambino non capiva perché facessero quella domanda a Jus che non era emigrato all’estero, mentre si era abituato alla domanda fatta a suo padre e sua madre, e si era anche abituato alle risposte secche o alle mancate risposte. Era come un teatrino, dove qualcuno recitava una parte e qualcuno la parte la rifiutava e mandava tutto all’aria, lasciando la scena, e gli spettatori, chi a bocca aperta e chi con i pugni in aria, a mormorare proteste verso chissà chi o chissà cosa.

Quando il bambino vide Jus fare quella domanda alla madre capì che lui non era come gli altri. Il bambino aveva appreso che se uno ordina una grappa mentre fuori fa ancora luce, e non è nel caffè, nel caffè corretto grappa, al mattino presto, è diverso dagli altri. Le sue domande sono innocue come i morsi di una minuscola lucertola. Ma dentro di lui fanno male, perché quei morsi sono profondi e i segni non si cicatrizzano.

Foto di THAM YUAN YUAN da Pixabay

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Il Dimidiato

di Astronauta Tagliaferri
È il sei settembre e sono alla scrivania a scrivere con la mano sinistra perché stasera alle otto, alla spalla destra, m’hanno messo un tutore blu che puzza di nylon. Sono caduto mentre alleggerivo l’albizia il cui tronco è stato svuotato da un fungo cresciuto a causa della poca luce, tutta assorbita dalle imponenti acacie

La Mattonella

di Silvano Panella
Foglie color del sangue ossidato per esposizione all'aria aperta, perduto da chissà quale preda sacrificale, la tigre decide di punire chi, come me, si addentra troppo nel suo territorio, gli uccelli si danno il cambio e vocalizzano canti più cadenzati e querimoniosi...

Giallo

di Franco Santucci
Giallo, come argomentazione sterile, come il ridicolo di emozioni in un trascorso indenne, giallo narciso di sconforto e inettitudine, nervi a pezzi di un giallo inutile. Mi rifugiai sul primo treno in partenza, uno qualunque (giallo borghese di una medesima ribellione), per sfuggire alla persecuzione

Non premiatemi, sono un poeta

di Max Mauro
Sono un poeta. Negli ultimi dodici anni ho partecipato a 128 concorsi letterari. Tengo il conto di tutti perché sono un tipo preciso. In camera, in una cartellina dentro il cassetto dei documenti, conservo le ricevute delle raccomandate di ogni singola spedizione...

Gaza: Warfare

di Flavio Torba
Si scambiano dichiarazioni di guerra con gli occhi. Il viso di Pastore è un campo minato dall'acne. La vita all'aria aperta non deve fargli un granché bene. Si tormenta un bubbone, mentre sibila un flusso ininterrotto su chi ucciderà chi

Epigrafi a Nordest

di Anna Toscano
Sin da piccola sono stata abituata a frequentare i cimiteri, andare in visita da parenti defunti, accompagnarli nel loro ultimo viaggio, attraversare camposanti pieni delle stesse fototessere: anziani coi capelli grigi, occhiali, sfondo chiaro, abiti scuri. Mia madre e mia nonna, tuttavia, hanno iniziato a pensare alla loro morte anzitempo, ogni due anni eleggevano una foto come quella per la tomba e per l’epigrafe
davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: