Come continua il fascismo: il primo dopoguerra


di Antonio Sparzani
Franco Ferraresi era mio grande amico, direi intimo amico, della fanciullezza e dell’adolescenza. Nella molto remota ipotesi che qualcuno ricordi una piccola serie di post che pubblicai su questo blog una dozzina di anni fa e che aveva un titolo comune “Le storie di Fiorino”, Franco era l’Ernesto di queste storie, Fiorino era (ovviamente) il sottoscritto e quelli erano raccontini di vita di paese, miei ricordi di fanciullezza e adolescenza nel comune di Desenzano del Garda (nei post chiamato “San Bruno”). In particolare qui, si parlava di questo “Ernesto”. divenuto poi, passati gli studi liceali e universitari, negli anni ’80 e ’90, ordinario di diritto amministrativo, e anche di altre materie, all’Università di Torino, e mancato prematuramente a 57 anni nel febbraio del 1998.
Uno degli argomenti cui Ferraresi dedicò particolare attenzione nella sua attività accademica di ricerca fu la storia del fascismo, italiano e non solo, e soprattutto della cosiddetta destra radicale. In particolare sul tema della situazione italiana del secondo dopoguerra pubblicò un libro Minacce alla democrazia – la Destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra (Feltrinelli 1995), purtroppo mi pare non più disponibile, anche se forse sarebbe il momento che qualcuno si attivasse per ripubblicarlo data la situazione politica che si è appena creata nel nostro paese.
Io lo sto appunto rileggendo e vorrei dire qualcosa dei primi capitoli, nei quali si racconta il primo decennio dopo la fine della seconda guerra mondiale, decennio del quali ho vari ricordi, dato che nel ’50 avevo già 8 anni, avevo un padre fascista convinto e da lui sentivo parlare, con una certa preoccupazione, delle imminenti “epurazioni”: cioè, si supponeva, delle prossime estromissioni e punizioni nei confronti di chi aveva avuto responsabilità pesanti nel regime mussoliniano. Non temeva tanto per sé, mio padre, che non aveva avuto ruoli di rilievo nel ventennio, ma soprattutto per il fratello, capitano di vascello e poi ammiraglio della regia marina da guerra al servizio prima di Mussolini e poi della Repubblica di Salò, e per la sua famiglia. Mio zio ebbe in realtà vari guai, dovuti essenzialmente al fatto che era inviso ai tedeschi in quanto non seguiva i loro ordini, per cui, uscito dalla Regia Marina venne deportato in Germania e anche la sua famiglia (moglie e tre figli) fu per qualche tempo prigioniera in Austria; alla fine, finita la guerra, riuscirono a tornare in Italia e lui fu collocato in pensione.
Timori, quelli di mio padre e di molti come lui, che si dimostrarono molto presto, in generale del tutto infondati.
Epurazione italiana in pratica quasi non vi fu. A partire dalla vergognosa amnistia, concessa da Palmiro Togliatti, sì, da lui, allora segretario del Partito Comunista Italiano e ministro della giustizia nei primi governi Parri e De Gasperi (poi rapidamente estromesso con il delinearsi della guerra fredda e del pericolo comunista) e proseguendo con numerosi processi farsa nei quali i peggiori gerarchi fascisti vennero bellamente assolti, o condannati a pene lievissime.
Invece di sottoporvi un difficile riassuntino vi trascrivo qui le pagine 36-40 del libro di Ferraresi, relative appunto al periodo; il libro è documentatissimo con una straordinaria bibliografia, tutte le affermazioni sono documentate, e qui ometto ovviamente, per non appesantire, tutte le numerose e accurate note che appunto rimandano ai documenti e ai testi ufficiali.

““Le epurazioni sono misure fondamentalmente politiche, le loro chances di successo dipendono dalla forza e dalla volontà di chi le mette in atto. Il nuovo regime italiano, guidato da molti che avevano a lungo cooperato con il Fascismo, non forniva molte garanzie al riguardo. I gruppi al potere infatti si preoccuparono innanzi tutto di evitare qualunque giudizio sui loro legami con il regime e ostacolarono in tutti i modi l’opera di “defascistizzazione” originariamente caldeggiata dagli Alleati, giungendo fino a provocare la caduta del primo governo Bonomi, quando le indagini dell’Alto commissario all’epurazione giunsero a minacciare personaggi altolocati.
Il controllo sull’epurazione fu gradualmente sottratto ai politici e riconsegnato nelle mani dell’alta burocrazia, di formazione fascista e soprattutto di una magistratura che non era stata preliminarmente epurata. In entrambi i casi, il diritto di giudicare senza sottoporsi ad alcun giudizio preventivo fu rivendicato in nome del mito della neutralità della pubblica amministrazione e della giustizia. Principale sostenitrice di tale mito fu la magistratura. Ciò non deve sorprendere. Le odierne controversie fra magistratura e classe di governo sono, in parte, il risultato di una situazione storica in cui, malgrado gli enunciati costituzionali, la magistratura non ha mai goduto di reale indipendenza dall’esecutivo. Per tutto il periodo liberale prefascista, il Pubblico Ministero dipendeva dal ministro di Grazia e Giustizia, di cui era tenuto a seguire le direttive generali e gli ordini particolari. Ciò comportava, in pratica, che eventuali abusi e illeciti del ceto politico e degli apparati amministrativi erano immuni dall’azione penale. Quanto alla magistratura giudicante, questa era, formalmente indipendente, ma di fatto pesantemente condizionata dal governo, che controllava accesso in carriera, assegnazione delle sedi, promozioni, trasferimenti, nomine dei capi degli uffici, provvedimenti disciplinari.
Non sorprende che, entro tale cornice, la magistratura si sia sempre diligentemente adeguata non tanto alla lettera della legge quanto agli orientamenti e alle intenzioni di tutti i governi in carica. Con l’avvento del Fascismo la subordinazione del potere giudiziario al nuovo regime si realizzò senza traumi. Questo anche se i giudici fascisti non giunsero mai ai livelli di aberrazione dei loro colleghi nazisti; essi furono anche nettamente meno duri nell’infliggere sanzioni.
Ma la lealtà al regime e ai suoi propositi di fondo non fu mai in discussione, come dimostrano l’accettazione e l’applicazione senza protesta delle leggi razziali del 1938. Questa fu la magistratura che amministrò le leggi sull’epurazione. Sarebbe impossibile elencare anche soltanto i più clamorosi casi di sabotaggio, ma occorre almeno indicarne lo schema generale.
La principale legge in materia (DDLn. 159, del 27 luglio 1944) comminava severe sanzioni per i “membri del governo fascista e i gerarchi del Fascismo colpevoli di aver annullato le garanzie costituzionali, distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese, condotto all’attuale catastrofe” (art. 2). La magistratura pretese che si dimostrasse un nesso causale diretto fra le azioni degli imputati e il complesso degli effetti elencati dalla norma. Naturalmente era impossibile dimostrare che alcun individuo singolo fosse personalmente responsabile di tutti questi disastri. In tal modo tutti i più alti gerarchi della nomenklatura fascista evitarono le sanzioni della legge.
Un altro articolo del DDL n. 159 prevedeva sanzioni contro quanti erano accusati “di aver contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il Regime Fascista”. Qui i tribunali tracciarono una distinzione fra lo Stato e il Regime Fascista, che, combinata con il principio del nesso causale, consentì loro di prosciogliere, fra gli altri, Leto, l’ex capo della polizia segreta (l’OVRA), in seguito vicecomandante della polizia della RSI, stabilendo che egli aveva servito lo Stato e non il regime. Si consideri che tutti questi casi riguardavano le alte gerarchie del regime, che erano in teoria passibili di pesanti sanzioni, ma che potevano anche permettersi i più prestigiosi avvocati e avevano la solidarietà dei loro antichi colleghi nelle alte cariche dello Stato.
Diversa la situazione per la massa, soprattutto nella burocrazia, che rischiava misure amministrative, ovviamente meno gravi, ma che potevano comunque comportare licenziamento o quanto meno danni alla carriera. I partiti moderati diffusero alacremente l’allarme, e, benché il danno effettivo si rivelasse ben minore di quello temuto, ne nacque un diffuso risentimento contro l’epurazione, che, si affermava non sempre a torto, colpiva arbitrariamente, soprattutto coloro che non erano stati abbastanza rapidi a iscriversi a partiti di sinistra. Tutto ciò, soprattutto a Roma e nel Sud, contribuì fortemente a screditare, agli occhi dei vasti strati impiegatizi e piccolo-borghesi, non solo l’epurazione ma il processo democratico in quanto tale, creando un clima di simpatia e commiserazione nei confronti dei fascisti “perseguitati”.
Dal canto loro i partiti della sinistra, la cui analisi del Fascismo, condotta nell’esilio, era ancora molto astratta, sottovalutavano il grado di coinvolgimento dell’intera società italiana col regime, e non erano preparati alla reazione di rigetto generalizzato che questi strati misero in atto nei confronti della “defascistizzazione”. Un decreto legge del 7 febbraio 1948 avrebbe poi liquidato definitivamente l’epurazione, disponendo la riammissione anche nei gradi più alti della burocrazia degli ex funzionari del regime, con ricostruzione della carriera: mancavano due mesi alle decisive elezioni del 18 aprile, e la DC aveva bisogno dei voti degli ex fascisti.
Molto benevolo fu anche il trattamento ‘cui vennero sottoposti i crimini fascisti. Le dure condanne emesse subito dopo la guerra furono spesso annullate o fortemente ammorbidite nelle istanze di giudizio successive e da tribunali speciali, che a volte assolsero anche quanti portavano le maggiori responsabilità, a cominciare dallo stesso comandante dell’esercito di Salò, il maresciallo Graziani.
Di grande importanza per il ruolo che il protagonista avrebbe poi svolto nelle attività della Destra radicale fu il caso di Junio Valerio Borghese, il principe romano che, dopo essere stato un valoroso comandante di sommergibili durante la guerra, aveva poi capeggiato la X MAS, una delle unità divenute più tristemente famose nella lotta antipartigiana. Ma Borghese si era mantenuto in contatto con i Servizi americani e inglesi, che, al crollo della RSI, si diedero da fare per salvarlo. All’atto della resa egli fu immediatamente preso sotto la protezione di James J. Angleton, capo in Italia dell’OSS (Ufficio Servizi Strategici), che sarebbe divenuto in seguito dirigente della CIA a Roma, e, infine capo (molto discusso) del controspionaggio CIA a Washington.
Il processo per crimini di guerra era inevitabile, ma, grazie alle sue amicizie, Borghese riuscì a rinviarlo fino al 1947. Il giudice naturale era quello di Milano, dacché la X MAS aveva operato nel Nord, ma la Corte di Cassazione “rimise” il processo a Roma. dove l’influenza della famiglia di Borghese era in grado di ottenere un clima più favorevole. Ciò non di meno, i crimini delle bande di Borghese erano troppo evidenti e la sentenza (emessa soltanto nel 1949) non poté essere che l’ergastolo. Questo in teoria. In pratica la Corte, con una scandalosa applicazione di attenuanti, misure di clemenza e decorrenza dei termini, ridusse la pena a sette anni, il che, tenuto conto della carcerazione preventiva, consentì allo sprezzante “principe nero”, di ottenere immediatamente la libertà.
Poche parole, infine, su un’altra, molto controversa vicenda del tempo, l’amnistia decretata nel 1946 [quella sopra menzionata, firmata da Togliatti, a.s.] per i crimini commessi in connessione alla guerra civile. Questa era stata pensata come un gesto di riconciliazione nazionale, indirizzata in particolare alla base fascista, responsabile di reati minori; il testo escludeva esplicitamente dai benefici dell’amnistia quanti si erano resi colpevoli di “sevizie particolarmente efferate”. La formulazione era molto infelice: “riesce difficile comprendere come a persone immuni da sadismo possano essere sembrate troppo poco le sevizie e troppo poco ancora la loro efferatezza, sì da richiedere che quella fosse particolare. La Cassazione ne approfittò per affermare che l’amnistia era inapplicabile soltanto quando “i dolori e i tormenti cagionati sorpassino ogni limite della umana sopportazione, e dimostrino in chi li procura non soltanto crudeltà, ma una vera barbarie e obiettiva ferocia”. Il risultato fu la liberazione di torturatori fascisti che si erano resi responsabili delle atrocità più orrende. Nello stesso tempo, su istigazione dei partiti moderati tesi a screditare la sinistra, venne iniziata una serie di processi contro partigiani trattati come criminali comuni. Forse il punto più basso di questa campagna fu raggiunto quando, nel 1954, il Supremo Tribunale Militare riconobbe alle unità della RSI lo status di combattenti regolari (con ciò fra l’altro assolvendo un ufficiale fascista che aveva ordinato l’esecuzione di 102 partigiani) mentre lo stesso Tribunale rifiutava di riconoscere tale status alle formazioni partigiane in quanto “irregolari”. L’indignazione provocata da questa decisione costrinse il Parlamento a varare una legge che riconosceva ai partigiani la qualifica di combattenti regolari, ma ciò non avvenne prima del 1958.””

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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