Nonne sporche di sangue: e se ci stessimo chiedendo che razza di nipoti siamo diventati?

di Francesco Spiedo

Si è sempre in naturale antagonismo con i genitori e in simpatia con i propri nonni.
Gertrude Stein

Marguerite Duras scrive che la solitudine della scrittura è una solitudine senza la quale lo scritto non si realizza o si sbriciola esangue nel cercare cosa scrivere ancora[1]. E non è l’unica: non si contano gli autori e le autrici che hanno sottolineato quanto lo scrivere sia una questione privata, un fatto intimo. C’è persino chi, ostentando delle abitudini al limite della sacralità, smette addirittura di leggere durante i periodi di scrittura più intensa. Per non lasciarsi condizionare, dicono. La distrazione proveniente dagli altri, siano essi mondo reale o echi su carta, appare inopportuna. Questo rifuggire, o rifugiarsi, prevede almeno in parte l’idea di novità: sto lavorando a qualcosa di nuovo, di diverso. Al di là del sentirsi o meno all’interno di un movimento, di una scrittura tra contemporanei, c’è la sensazione d’aver trovato una piccola e personalissima vena d’oro. Almeno è quello che provo io. E la scrittura di Non muoiono mai[2] non ha rappresentato un’eccezione. Centrale è la figura della nonna, pretesto per ritornare e per condividere uno spazio, simbolo dell’arte del racconto e strumento per avviare ritualità. Figura, quella della nonna, che mi pareva essersi momentaneamente eclissata nel panorama editoriale italiano. E invece. Attorno a me non si faceva altro che scrivere di nonne.

Da quando ho consegnato il romanzo mi sono accorto del proliferare di figure archetipiche rappresentate dalle nonne nei testi in uscita o appena pubblicati[3], forse ideati e scritti quasi in contemporanea con il mio. Attenzione: nonne e non nonni in generale, ma nonne al femminile. Le ho ritrovate come protagoniste – o coprotagoniste – nei testi di Giovagnoli (Cos’hai nel sangue, Nottetempo), Meozzi (Piccolo nome, grande sangue, Moscabianca) e Canepa (Quel che resta delle case, Tetra), ma anche nelle ultime opere di Fusconi (I giorni lunghissimi della nostra infanzia, Nottetempo), Forgione (Il nostro meglio, La Nave di Teseo) o Starnone (Vita mortale e immortale della bambina di Milano, Einaudi). E non escludo di averne tralasciate moltissime. Per questa analisi fa fede e viene eletto a unico criterio scientifico la sincronicità che me ne ha fatte rintracciare alcune e reso invisibili delle altre[4]. Ma chi sono queste figure? Sono nonne unite, nel caso di Giovagnoli, Canepa e Meozzi, da una certa narrazione affascinata dal weird e dal sangue, quest’ultimo, il sangue, presente in due volumi su tre anche nel titolo. In bella mostra in copertina. Come un monito, un messaggio neppure troppo cifrato. Però sono anche nonne che invece in Forgione, Starnone e Fusconi appaiono come figure tradizionali, familiari in senso stretto, custodi dell’infanzia dei protagonisti. Come un album dei ricordi che viene sfogliato, col tentativo di innovare e capaci di rinnovare un filone che vedeva ne L’incendio dell’oliveto (Deledda), Va dove ti porta il cuore (Tamaro) e Mal di pietre (Agus) quasi dei classici. Donne anziane che preservano segreti e potere, che tengono le file della famiglia e che fanno i conti con un presente che soffia cambiamenti.

Come scrive Daniele Cerrato siamo sempre di fronte a un gioco di matriosche: pezzi che contengono altri pezzi, questo è la famiglia, ma anche pezzi che possono muoversi autonomamente, perché figli, madri e nonne sono entità a sé.  Dalla ‘madre’, così come si chiama la matriosca più grande, si può passare direttamente al ‘seme’, la matriosca più piccola, che non ne contiene altre, ma è quella da cui tutto si genera, in una relazione di continua reciprocità.[5] Come se fosse in atto la costruzione di una nuova genealogia, una linea che collega pezzi che tendono ad allontanarsi, quasi a respingersi. La figura della nonna, custode e allevatrice, si lacera e si esaspera, si contamina e si perverte. Non è più sacra, ma si fa umana, quindi colpevole, bugiarda, debole, persino maligna. Il rapporto con l’infanzia si manifesta in tutta la sua problematicità: il rapporto costante tra nipoti – solitamente giovani, se non giovanissimi – e nonne viene filtrato attraverso figure genitoriali assenti, combattute, problematiche e in ogni caso incapaci di tenere le redini della famiglia e della narrazione. Siamo la generazione cresciuta con i nonni e nell’assenza dei nostri genitori.

Il romanzo della Tamaro ha avuto il pregio di dare visibilità a un rapporto tra donne, nelle figure di una nonna e di una nipote, non sempre semplice né dolce, ma allo stesso tempo necessario: una discendenza che non fosse soltanto appannaggio del diritto di sangue paterno e maschile. Una famiglia che si costruiva anche nel femminile e attraverso le figure femminili. Nel confidarsi della nonna c’è il racconto di tutto il non detto familiare, di ciò che i nipoti in genere – per età, solitamente – rischiano di non conoscere mai: o si è preservati, esclusi dalle vicende più torbide oppure vi si è catapultati con una tale violenza da non riuscire comunque a comprendere alcunché. Quindi se spesso si ha il tempo per costruire un rapporto padre/madre/figlio tra pari, tra esseri umani,  nei confronti dei nonni/nipoti si vive una sorta di idealizzazione: la nonna come santa, nata già vecchia e cadente, già saggia e perfetta, e nipoti incolpevoli, buoni, perfetti, pieni di qualità e privi di difetti. È un rapporto assurdo e metafisico: perché quando siamo piccoli noi loro sono già vecchi, quando diventiamo adulti noi loro tornano bambini e si parlano sempre due lingue diverse, non si costruisce mai un rapporto tra pari. Solo amore, nient’altro.  Nel testo della Tamaro vi è un dialogo sospeso e interrotto tra queste figure, che riprende soltanto grazie a delle lunghe lettere: parole che denunciano un’assenza di rapporto tra figlia e madre, madre e nonna. Qualcosa che riporta al romanzo di Giovagnoli dove si può leggere l’ambiguità di rapporti costretti e sofferti: Caterina, la protagonista, neppure è consapevole di avere una nonna, concretamente, ma lo sa solo perché come lei ha una madre anche sua madre deve averne una. Con la madre non ne ha mai parlato, una madre che è malata e della quale conosce poco o nulla. Anzi è proprio la scoperta di questa nonna dimenticata e l’assumersi sulle spalle un ruolo di figlia che sua madre ha trascurato, finendo per raccogliere l’eredità di una nonna strega – o forse santa o forse pazza – che chiude la storia. Salda il rapporto mancante, cuce l’anello saltato. Rapporti che si riflettono, ruoli che si scambiano. Sono nipoti che diventano figlie, nonne che diventano madri. “[…] questa lettera avrei dovuto scriverla a tua madre, invece l’ho scritta a te. Se non l’avessi scritta per niente allora sì che la mia esistenza sarebbe stata davvero un fallimento. Fare errori è naturale, andarsene senza averli compresi vanifica il senso di una vita”[6].

Ribaltata è la situazione proposta dalla Agus: è la nipote che si confida, la nipote che racconta, la nipote che muove l’atto narrativo. Ancora una volta è la scrittura – non delle lettere, ma un quaderno – a spingere gli eventi. Quaderni che somigliano al Diario di Campo e agli appunti presenti in Cos’hai nel sangue, sottolineando il valore del ricordo, del recupero, della memoria. Sebbene Giovagnoli infarcisca il testo di misticismo, di leggende, di una dimensione onirica e a tratti allucinatoria che è sintomatica di un testo più recente e meno tradizionale. Non sono soltanto i rapporti a intrecciarsi, a confondersi, ma alle volte anche il tempo e lo spazio assumono confini instabili. Canepa e Meozzi costruiscono due narrazioni ambigue e imprevedibili, conturbanti. Lo fanno ancora più di Giovagnoli, forse aiutati dalla forma della novella che permette di confondere grazie a una maggiore brevità: il patto con il lettore si stringe più facilmente, l’assurdo viene mantenuto e accettato per un tempo limitato. Giovagnoli costruisce comunque un romanzo, offre coordinate sociali estremamente reali, impreziosite da momenti di lirismo e visione. Meozzi invece propone una favola nera, capovolta, una storia di metamorfosi e di costruzione del sé che passa attraverso l’incubo, il doppio, il sangue. Qui vi è l’abbandono di un figlio problematico e scisso nelle mani di una donna che recita la parte della nonna senza esserlo. È affettuosa e premurosa. È una saggia guida. Eppure non vi è nesso di sangue, tra i due: ma non nipote e non nonna si vincolano, bevendo quello delle bestie.

Non è nera, ma è nebbiosa, la scrittura della Canepa: una casa abitata dallo spirito di una nonna, di una nonna un po’ strega e un po’ angelo custode, che comunica e parla soltanto con la nipote. Una donna che si presenta come anziana, che vive un rapporto stanco e logorato con figlia e genero, ma che cerca di trasmettere la propria conoscenza alla bambina protagonista. Una bambina con la quale riesce a intrecciare e mantenere un rapporto anche e soprattutto dopo la morte. Aleggia, riempie le stanze, vive con lei anche dopo la fine del tempo: si mette in scena l’abusatissima formula i nonni non ti abbandonano mai. E così diventa, ma non è un bel vedere: un imprevisto drammatico, un furto domestico con conseguente sequestro di persona, rende l’atmosfera pesante e lo spirito della nonna terribilmente pericoloso. Si compie il male, la bambina diventa strumento di morte. Nell’inconsapevolezza dei genitori. Genitori assenti e distratti, vuoi per colpa vuoi per necessità, si ritrovano anche nell’opera di Fusconi: una storia a tre voci di altrettanti bambini. Una, quella problematica ed emarginata, dichiara un rapporto perfetto con la nonna. Una nonna che è amica e madre, che è capace di capire anche quando lei non parla: un idillio che si interrompe con la malattia improvvisa. Cambiano le regole e la certezza viene meno. La nonna diventa quindi strumento di ricordo e memoria, perché alle volte può essere la malattia altre è semplicemente il tempo che passa, ma anche il più perfetto tra i rapporti nonni/nipoti è destinato a concludersi presto.

Ma il ricordo e la memoria sono al centro anche dei romanzi di Forgione e Starnone: testi che infarciscono le figure delle rispettive nonne con tratti nostalgici, quindi compiacenti, positivi, innamorati. In tutti i testi fin’ora citati sottende un dolore indicibile. Il sangue e la sofferenza traspare nei titoli e nelle scelte linguistiche di alcuni, nelle atmosfere delle storie, ma si avverte anche nel lavoro dei due napoletani: una malinconia affettuosa, nonne che sono carne e ossa anche quando sono sul punto di morire, come in Forgione, o interpretano un ruolo oracolare, quasi mitologico, impersonale, come in Starnone. Tra Fusconi, Giovagnoli e Forgione è forte il richiamo della malattia: di qualcosa che arriva e condiziona, rende gli eventi ineluttabili e definitivi. Sono nonne che custodiscono abitudini e saggezza, familiare o popolare, familiare e popolare, che accompagnano questi due nipoti nel mondo degli adulti: in Forgiono lo fa morendo, impartendo forse la più terribile delle lezioni, in Starnone lo fa accompagnandolo nel primo amore, che come lezione di vita neppure scherza. Entrambe vestono i panni di figure consolatorie, oltre che risolutive come in tutti i testi qui citati: forse è un caso che gli autori condividano luoghi d’origine e sesso? Che i protagonisti siano anch’essi uomini? Potremmo dire di sì, riuscendo anche a includere la nonna non nonna di Meozzi: terrificante, ambigua e pericolosa, ma più nei rapporti con la madre del protagonista che con il protagonista stesso. Questa assonanza, alla quale sto pensando nel momento stesso in cui ne scrivo, mi porta alla mente anche il romanzo di Notaro, Densità[7]. Purtroppo, già soltanto il romanzo della Fusconi smentisce l’ipotesi: non è forse tanto una questione di genere, di uomo donna, di nonna e nipotino o nonna e nipotina, ma di sentimento. Ricordare, rimpiangere, ricostruire, risolvere? In base alla postura di chi scrive il rapporto viene declinato con una sfumatura differente. Si potrebbe persino parlare, volendo semplificare, del dualismo tra il Senex e il Puer Aeternus: archetipo il primo di una figura legata al sapere, alla tradizione, alla conoscenza e alla saggezza, ma anche connessa alla rigidità, alla solitudine, all’ordine. Il Senex al femminile, quindi  nel caso delle nonne, riporta a diversi archetipi: la saggia, la sciamana, la guaritrice, la missionaria, la scienziata, tutte entità nelle quali scorre energia vitale e positiva, ma anche terribile e potente.[8]

Continuando sulla scia dei punti di contatto, è curioso notare come l’archetipo resiste anche a dispetto della forma: Canepa e Meozzi lavorano a due racconti lunghi, entrambi pubblicati infatti in collane dedicate proprio alla narrazione breve. Questo sembra confermare un’interesse e una sensibilità che travalica non solo l’età degli scriventi e delle scriventi[9], ma anche la forma narrativa prescelta. E neppure l’età diventa strumento per analizzare il ruolo, narrativo e metaforico, delle nonne all’interno dei testi: verrebbe da pensare che i più giovani puntino verso figure di rottura, alternative, sperimentali, mentre con l’avanzare dell’età si finisca a confezionare ricordi, simulacri, commemorazioni. Non è così. Potrebbe essere non tanto l’età anagrafica quanto i momenti della vita a spingere verso queste figure. Ed è un piacere leggerne e interrogarsi. Nonne che custodiscono segreti e preservano il segreto del raccontare in un mondo dove parlare e parlarsi, comunicare, pare diventato impossibile. La nostra più grande mancanza. Tutti questi testi contribuiscono a una riflessione sulla generazione che sta partendo per l’ultimo viaggio, ma anche su chi si sta affacciando o si è affacciato da poco sul mondo dei grandi. Perché se ci sono delle nonne devono esserci necessariamente dei nipoti, e noi che nipoti siamo diventati? In definitiva pare questa la domanda che ognuno dei lavori qui citati continua a porsi, ognuno a suo modo. Ognuno con le proprie ferite. Chi sono stati e chi sono i nonni, ma soprattutto chi siamo noi e qual è il nostro ruolo. Cosa resta di quel che è stato e cos’è che saremo poi. Il rapporto con i propri genitori spesso ha tutto il tempo per logorarsi, per scoppiare, per ricomporsi: quello con i propri nonni, invece, ha un tempo limitato. Troppo breve per essere compreso fino in fondo, per esaurirsi nel tempo della vita. È destinato a bruciare un compleanno dopo l’altro, un Natale dopo l’altro e a finire sulle pagine. Perché le nonne, come scrive Ramondino, sono Le visioni, che sono verità rivelate, come le ossessioni, che sono verità non ancora rivelate, non si possono dimenticare; né però spiegare.[10] Qualcosa che non si conosce, né si dimentica né si spiega, ma si continua a raccontare.

[1]    In Scrivere, Feltrinelli (1994);

[2]    Fandango Libri (luglio, 2022);

[3]    Si fa riferimento al periodo che va dalla seconda metà del 2021 alla prima metà del 2022;

[4]    A tal proposito ringrazio tutti quelli che mi hanno segnalato, in fase di correzione, alcuni titoli. Tra i più recenti citiamo, per spirito di completezza: Teresa degli oracoli, Cecconi, Feltrinelli 2020; Sono difficili le cose belle, Nucci, HarperCollins 2022; Noi non abbiamo colpa, Zura-Puntaroni, MinimumFax 2020; Non muoiono le api, Natalia Guerrieri, Moscabianca 2021; La stagione più crudele, Chiara Deiana, Mondadori 2021;

[5]    Daniele Cerrato, Matriosche: nonne, madri e nipoti. Tre esempi di genealogie femminili nella letteratura italiana del novecento, Università di Siviglia (2018);

[6]    Susana Tamaro, Va dove ti porta il cuore (1994);

[7]    Pubblicato da Mondadori (2021) ritroviamo una nonna che mantiene un ottimo rapporto con il nipote, potremmo dire quasi salvifico, e che in chiusura di romanzo svolgerà nuovamente il ruolo di saggia risolutrice;

[8]    Si consigliano sull’argomento: C.G.Jung e A. Jaffè, Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli 1978 e J.Hillman Puer aeternus, Adelphi 1999;

[9]    Gli autori e le autrici avevano, al momento della pubblicazione dei libri citati, dai 20 agli 80 anni. Meozzi (28), Giovagnoli (30), Forgione (35), Notaro (37), Tamaro (37), Deledda (47), Agus (47), Canepa (55) e Starnone (79);

[10]  Questa citazione è presente come nota a piè pagina del primo capitolo La nonna di Althénopis, Einaudi 2016. L’incipit a cui si fa riferimento è il seguente: Era sempre vestita di nero, ma quando passava per la piazza di Santa Maria del Mare, come fiamme d’inferno i colori le guizzavano intorno, dei gialli, dei viola, perfino talora dei rossi e dei verdi; non portava bracciali, eppure bagliori dorati sembravano splenderle intorno ai polsi.

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2 Commenti

  1. Molto bello, questo testo, complimenti all’autore. Ed è vero, “quando siamo piccoli noi loro sono già vecchi, quando diventiamo adulti noi loro tornano bambini”

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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