Da tempo il dibattito sulla decolonizzazione dei musei europei si è imposto all’attenzione di un pubblico più vasto della cerchia degli addetti ai lavori. Per i fautori si tratta di un’impresa necessaria, mentre i detrattori lo considerano un’aberrazione paranoica. Quando e come ha cominciato a riflettere su questo tema?
Mi sono posto per la prima volta il problema della decolonizzazione dei musei negli anni ’90, quando ancora vivevo in Giamaica, dove sono nato, cresciuto e rimasto fino al 2007, pur avendo soggiornato nel frattempo in Olanda e negli Stati Uniti in maniera intermittente per proseguire gli studi. Appena diplomato in chimica all’Università delle Indie Occidentali, a Kingston, mi fu proposto di progettare e costruire un laboratorio chimico all’interno di un museo locale. Accolsi volentieri l’invito, entusiasta di quel connubio che mi sembrava eccezionale: all’interno del museo la chimica poteva finalmente prendere corpo nella materialità gli oggetti.
Lavorando sul campo ho capito quanto la museologia fosse integralmente dominata dai canoni europei, a partire dalla centralità attribuita alla struttura museale come unico sito adibito alla conservazione del patrimonio. D’altra parte, i mezzi a disposizione erano limitati e la pretesa che le pratiche di conservazione in Giamaica dovessero conformarsi ai protocolli europei era fuorviante. A proposito di chimica e di materia, come si fa a pensare di conservare gli oggetti a 17 gradi in un paese in cui fin dall’alba la temperatura è già a 27, per di più con un’umidità fortissima? Eppure, l’ipotesi che in Giamaica si potesse contravvenire alla concezione made in Europe di cosa fosse e come dovesse essere allestito un museo era inconcepibile. Direi che proprio in questo scarto è emersa per me la questione della decolonizzazione: come un problema concreto prodotto dalle contraddizioni di una società postcoloniale.

In Europa – pensiamo ad esempio alla Francia, alla Gran Bretagna e all’Olanda, tre paesi che nei secoli scorsi sono stati alla guida di immensi imperi coloniali – come ha cominciato ad affacciarsi l’idea di decolonizzare i patrimoni nazionali?

Francia, Gran Bretagna e Olanda rappresentano tre realtà nazionali molto diverse, ognuna delle quali è erede di una storia distinta dalle altre. E le differenze politico-culturali affiorano chiaramente se paragoniamo i risvolti del dibattito sulle restituzioni in ciascuno di questi paesi. In Gran Bretagna la cultura dei musei è pedagogica; in Olanda individualista e molto poco comunitaria; in Francia nettamente elitista. Questo si traduce in approcci piuttosto divergenti alle teorie e pratiche della decolonizzazione.

Quando sono arrivato in Inghilterra nel 2007, mi sono reso conto che il tema del colonialismo era ancora un grosso tabù. Era l’anno delle celebrazioni del bicentenario dell’abolizione della tratta, che finalmente dissotterrava la storia sepolta della schiavitù, facendo solo qualche rara allusione all’esperienza coloniale britannica, ma senza mai prendere di petto la questione. Il museo etnografico presso cui lavoravo a Londra, l’Hornimon Museum, di cui dirigevo la sezione antropologica, è un museo relativamente piccolo, ma molto affascinante per la sua natura spiccatamente coloniale, e per il suo carattere fortemente didascalico. Non credo di aver mai visto un museo così tanto frequentato da famiglie con bambini, e così radicato nella vita delle comunità locali. La pratica curatoriale implicava il coinvolgimento delle comunità, i cui trascorsi migratori affondavano le radici nella storia dell’impero britannico. Il sentimento istituzionale dominante era la volontà di includere e riconciliare, anziché il desiderio di approfondire il lascito doloroso e conflittuale della storia coloniale. Mentre oggi in un museo etnografico la questione coloniale è semplicemente ineludibile, all’epoca si usavano altri termini per designarla: si parlava di ‘incontri’ e ‘relazioni’, parole che hanno il merito di dissipare la violenza e sovrascrivere la dominazione, cancellando tutte le ferite, quasi si fosse trattato di una bella avventura. Da alcuni anni però le cose sono cambiate e la Gran Bretagna ha adottato un approccio diretto e pragmatico alla questione, pur sempre all’insegna della conciliazione.

In Francia, invece, domina un certo elitismo, come dicevo, e una persistente difficoltà a misurarsi con il lascito del passato coloniale. Dall’esperienza inglese ho imparato l’importanza di radicare i musei nel tessuto delle comunità che abitano la città. In Francia siamo agli antipodi: l’arte è materia d’élite e come tale viene protetta dalla cittadinanza, perciò, l’intervento delle comunità interessate in particolare ai discorsi sulla decolonizzazione fa molta fatica ad essere accolto e guadagnare legittimità.

In Olanda la questione della decolonizzazione è affrontata con un discreto pragmatismo per rispondere alle esigenze crescenti che vengono dal basso, benché la cultura museale sia tradizionalmente individualista e non comunitaria. Quando sono venuto in Olanda per la prima volta durante circa un anno, nel 1998, per un seguire un master in museologia alla Reinwardt Academie di Amsterdam, la situazione era molto diversa da oggi: parliamo di un’epoca precedente all’11 settembre, quando non era ancora stata decretata la morte del multiculturalismo, e non era stata avviata la svolta destrorsa e nazionalista che i Paesi Bassi avrebbero conosciuto qualche tempo dopo. Quando sono ritornato nel 2010 per lavorare al Tropen Museum, ho trovato tutt’altra atmosfera. Nel corso degli anni si è imposta, non senza ostacoli e resistenze istituzionali e dell’opinione pubblica, una consapevolezza diffusa della necessità di fare i conti con la storia coloniale e di coinvolgere le comunità interessate, il cui presente è tuttora condizionato da quella storia. E ovviamente la questione si è posta in maniera ancora più urgente e bruciante per i musei etnografici, in Olanda come altrove.

Nei Paesi Bassi, invece, come ha preso corpo il dibattito sulla decolonizzazione dei musei?
In Olanda è da molti anni che artisti, intellettuali e attivisti hanno iniziato a sollevare critiche giuste e coraggiose a proposito della colonialità delle pratiche curatoriali dei musei. Hanno cominciato a farlo quando ancora un dibattito pubblico sulla storia coloniale del Regno era assolutamente impensabile. C’è stato però un punto di svolta, una scintilla che posso ricordare in prima persona, perché riguarda un progetto lanciato al Tropen Museum di Amsterdam nel 2015. È in questo contesto che, per la prima volta, la parola d’ordine #DecolonizetheMuseum è stata introdotta in un museo nazionale per iniziativa di un gruppo di tre attiviste decoloniali coinvolte nel progetto: Simone Zeefuik, Hodan Warsame, e Tirza Balk. Il progetto prevedeva di invitare artisti e attivisti a riflettere criticamente sullo spazio del Tropen: dalle collezioni, alla maniera in cui erano presentati gli oggetti, alle didascalie. Nel 2016 il gruppo di lavoro ha proposto di organizzare un evento pubblico, intitolato Decolonize the Museum, coinvolgendo curatori, artisti e ricercatori dall’Olanda e dall’estero. Per questa occasione gli organizzatori avevano predisposto una serie di pannelli con inserzioni di testo che facevano il controcanto ai pannelli ufficiali del museo, raccontando in parallelo un’altra storia. Alcune di queste inserzioni riportavano l’origine degli oggetti esibiti e le circostanze in cui erano stati acquisiti, ovvero rubati e strappati alla propria provenienza per esser trasportati nei Paesi Bassi. Altre richiamavano la storia coloniale, rievocando la tratta degli schiavi, le piantagioni, lo sfruttamento, e contestandone l’omissione intenzionale nelle didascalie ufficiali. Per noi responsabili del museo l’esito dell’iniziativa fu una sorpresa, esperita con un certo disagio. Il messaggio trasmesso al pubblico fu una critica senz’appello, ma ne accettammo le conseguenze, perché ritenemmo che fosse un battesimo del fuoco fondamentale: quando dirigi un museo è importante sapere cosa «vedono» i visitatori e cosa non va. Saper accogliere le critiche è il primo passo per poter riorientare lo sguardo. Questa è la principale sfida da accogliere rispetto alla decolonizzazione: accettare e rispondere al disagio generato da critiche e rivendicazioni legittime e comprendere che l’obiettivo di decolonizzare la società chiama in causa la natura stessa di processi sociali e regimi epistemici intrisi della matrice coloniale che non possono essere disfatti in un lampo.
Al Tropen non possiamo non fare i conti con il fatto che i nostri magazzini ospitano resti umani e oggetti rubati deportati dalle ex colonie olandesi. Il carattere etnografico di questi contenuti condiziona lo spazio e ogni mostra allestita qui dentro. Una tale consapevolezza deve spronarci ad analizzare criticamente la conservazione, la funzione che ciascun museo adempie naturalmente. Cosa significa conservare e cosa significa esporre questi materiali? C’è bisogno di riflessione, perché non c’è nessun decalogo della decolonizzazione pronto per l’uso e valido in ogni dove.

Una delle piste più dibattute in relazione all’impresa di decolonizzare i musei europei è quella delle restituzioni. Il «Rapporto sulla restituzione del patrimonio culturale africano» (2018) commissionato dal governo francese a Felwine Sarr e Bénédicte Savoy ha contribuito ad avvalorare questa opzione, che rimane tuttavia osteggiata da molti. Restituire è necessario?
È necessario, ma non sufficiente. Con la fondazione Museum van Wereldculturen, che raggruppa i principali musei etnografici dei Paesi Bassi, abbiamo cominciato ad affrontare la questione delle restituzioni già diversi anni fa. E nel tempo abbiamo avviato ricerche sulla provenienza e predisposto un sistema di tracciabilità consultabile online per fare in modo che le nostre collezioni siano aperte a tutti, disponibili e accessibili. Da anni collaboriamo con diversi musei in Indonesia, dal momento che una buona parte del nostro patrimonio, circa 140 mila oggetti, viene da lì. Nella nostra esperienza il rischio paventato che i musei etnografici europei vengano svuotati dalle restituzioni è chiaramente immotivato.
Quindi direi che restituire è sicuramente importante, ed è necessario, ma decolonizzare non significa solo restituire. Come lo sottolineano già Savoy e Sarr nel loro rapporto sottotitolato Vers une nouvelle éthique relationnelle, la decolonizzazione dei musei chiama in causa le relazioni che sussistono tra paesi, istituzioni e patrimoni e che passano per gli oggetti – i resti, gli artefatti e le opere d’arte. Si tratta di ripensare e riconfigurare queste relazioni, ma ciò non può avvenire senza rimettere in discussione i rapporti di proprietà e senza concepire un nuovo diritto alla circolazione delle collezioni. C’è bisogno di desacralizzare il ruolo del museo quale unico spazio adibito all’esposizione e la funzione della conservazione considerata come prerogativa esclusiva dei musei, e come un imperativo indiscutibile nell’ambito dei beni culturali.

Si tratta d’immaginare, ad esempio, che conservazione e fruizione di un patrimonio possano avvenire al di fuori degli spazi museali o all’interno di spazi museali concepiti diversamente rispetto a quelli europei. Significa pensare la conservazione e insieme la perdita possibile di porzioni dei patrimoni nazionali: dobbiamo conservare tutto, tramandare tutto e accumulare all’infinito? Forse no, è anche una questione di decrescita. Aprire alla restituzione vuol dire accettare la possibilità che un oggetto esposto diventi un oggetto privato, oppure un oggetto dislocato altrove, fruito altrimenti e da altri. Significa detronizzare la tradizione museale occidentale, e provincializzare l’Europa nei contenuti espositivi. Parlare di restituzioni implica anche questo.
Una cosa da sottolineare è che il dibattito sulle restituzioni ha portato alla ribalta l’idea di redistribuzione. La restituzione è una pratica redistributiva che consente di concepire un diverso ordine della proprietà e della circolazione. Le opere d’arte del British Museum devono poter circolare in Ghana e in Cambogia. Il Sud globale deve poter avere accesso alla fruizione dell’arte esposta nei musei europei. E questa ipotesi è complicata dalle disparita materiali che rendono la circolazione un processo a senso unico poiché i costi che comporta non possono essere sostenuti in paesi come la Giamaica o la Nigeria.

Ma se fossero finanziati dai paesi più ricchi in un’ottica di fruizione globale dell’arte? L’obiettivo di decolonizzare i musei non può che costringerci a ripensare la fruizione, privilegiando la circolazione per controbilanciare le asimmetrie che esistono tra Nord e Sud, determinate dalla proprietà e dalle risorse. Da due anni dirigo un progetto di ricerca intitolato Pressing matters. Ownership, Value and the Question of Colonial Heritage in Museums che indaga le forme e i rapporti di proprietà con l’obiettivo di reimmaginarne di nuovi, ispirati talvolta da altre culture, che possano essere implementati dalle istituzioni museali in diverse parti del mondo. Ci sforziamo di concepire proprietà condivise o transitorie, di privilegiare l’uso al possesso, riflettiamo sul valore degli oggetti. Quanto vale una maschera mortuaria? Quanto vale un cranio? Di chi è questo cranio di provenienza neozelandese, e di chi sono le foto che ne ritraggono la misurazione avvenuta nei Paesi Bassi? Queste sono alcune delle domande che ci poniamo e a cui proviamo a rispondere per complicare, ma anche per risolvere, le questioni sottese al dibattuto sulle restituzioni.

Negli ultimi anni ha collaborato alla grande esposizione «Slavernij» (Schiavitù, 2020) al Rijks Museum e ha curato più recentemente «Onze koloniale erfenis (La nostra eredità coloniale», Tropen Museum 2022 e ancora in corso). Che tipo di progetto o di idea di decolonizzazione veicolano queste mostre?
Da curatore credo fermamente che ogni esposizione sia una pratica del fallimento. Ogni mostra è intrinsecamente parziale e, nell’esibire quel che esibisce, rivela anche tutto quel che manca, tutte le promesse che l’esposizione non mantiene. Questo vale ancora di più per le mostre decoloniali. La decolonizzazione, però, non è solo disagio, è anche festa, celebrazione di un’alterità rimossa che ritorna, rivoluzione di un paradigma che muta. Il disagio deriva dal passato: siamo partecipi ed eredi di una storia coloniale di estrattivismo, sfruttamento e dominazione, che non può che metterci a disagio. E una consapevolezza del genere inevitabilmente destabilizza. Riflettere una tale consapevolezza all’interno di un museo significa smettere di concepire quello spazio come un sito edificante deputato alla fruizione del bello. Il museo decoloniale può nascere dal disfacimento e rifacimento del museo coloniale soltanto dentro questa consapevolezza.