Libertà selvatica

di Paolo Costa

( il brano riportato è tratto da L’arte dell’essenziale: un’escursione filosofica nelle terre alte, La bottega errante, Udine, 2023, euro 15, di Paolo Costa)

Ora non ricordo più se l’ho letto in uno dei suoi libri o gliel’ho sentito dire di persona – probabilmente entrambe le cose sono vere – ma so per certo che Reinhold Messner ha più volte spiegato la sua sovrumana capacità di uscire vivo da situazioni apparentemente senza scampo con la forza ciclopica della sua collera, della sua «aggressività congenita». In una situazione di grande pericolo, per citare le sue parole, «mi trasformo in una specie di animale selvatico. Mi si dilatano le pupille e il mio corpo sprigiona energia, coraggio, rabbia. Ho scariche di adrenalina al massimo livello. Una sorta di aiuto inconscio per sopravvivere. In certe situazioni senza questo tipo di istinti tanto io quanto alcuni dei miei compagni saremmo morti». Se capisco bene il punto, quello che lo scalatore altoatesino ci sta dicendo con il suo solito stile ruvido è che nei momenti in cui la montagna ci porge il suo volto più freddo, ostile, se non si vuole soccombere, l’amore, il rispetto, la pazienza, devono lasciare spazio a una furia cieca, animale: a un arcaico desiderio di essere lasciati in pace.

Vorrei far notare qui, en passant, come l’emozione dell’ira sia strettamente legata alla critica sociale, al desiderio di emancipazione, di riscatto. I profeti biblici, per fare un esempio classico, sono spesso inviperiti col popolo di Dio, talvolta persino con Yahweh. E lo stesso vale per i profeti secolari. Partendo da Giordano Bruno per arrivare fino a Marx, non si può certo dire che nel pantheon moderno degli intellettuali militanti ci sia stata carenza di brutti caratteri. La rabbia, d’altro canto, è spesso la principale risorsa contro l’oppressione sociale e il migliore antidoto al fatalismo che essa di norma genera in chi è stato abituato ai soprusi fin dall’infanzia. Se, come ho suggerito sopra, il senso d’impotenza, l’inermità, può essere una conseguenza della povertà-di-mondo – del sentirsi cioè abbandonati a sé stessi nel proprio sforzo idealistico di appagare il desiderio umano di pienezza – è però anche, a maggior ragione, l’effetto perverso di un mondo povero, un mondo che ti condanna senza colpa alla servilità.

Nell’amore per la libertà, detto altrimenti, non può mai mancare un fondo di collera, di sano odio per l’ingiustizia o, più banalmente, di insofferenza verso il paternalismo di chi si sente in diritto di trattarti come un bambino e può permettersi di umiliarti senza alcuna giustificazione razionale.

Se non sbaglio, l’equivalente dell’abito emotivo del teorico critico in montagna è l’attaccamento a una libertà che non saprei come definire se non “selvatica”. In questo caso, la reazione alla overwhelmingness della Natura, al suo assolutismo, si manifesta a un livello minimale come adesione spontanea alla propria fatticità naturale, al dato primitivo dell’essere vivi. Non solo si vive senza farsi troppe domande, ma si accetta di vivere senza risposte. Si vive perché si è al mondo e tutti coloro che pretendono qualcosa in più risultano di per sé sospetti.

C’è effettivamente qualcosa di liberante in questo modello di esistenza a una sola dimensione in cui la vittima predestinata della sorte si accomoda negli interstizi di un cosmo che ha un suo rozzo ordine naturale con cui è possibile venire a patti senza pagare costi inaccettabili. Citando obliquamente il filosofo francese Étienne de la Boètie (XVI secolo), si potrebbe parlare in proposito di “servitù non volontaria”: una condizione di subordinazione che, almeno comparativamente, potrebbe rivelarsi meno doma di quanto non sembri. Di fronte a una montagna che ci sovrasta ci si può sentire cioè “liberi” come i servi scaltri di un padrone svogliato e distratto.

Mi spiego meglio perché l’idea si presta a molti equivoci. In montagna, al culmine dello sconforto, della miseria, dell’abbandono, la scoperta di quanto sia profondo il nostro bisogno di “selvaticità” può essere vissuto come un’autentica liberazione. Parlando di selvaticità mi riferisco qui precisamente al bisogno di essere affrancati da parti di noi stessi che ci sono diventate estranee, ingombranti, persino nemiche. In questo senso il termine è da intendersi come un sinonimo di semplicità.

Ma fino a che punto ha senso definire “libera” questa condizione priva di interiorità, senza voce, il cui modello implicito è un’esistenza vissuta sulla pura superficie? Non c’è qualcosa nella nostra mentalità di uomini moderni che ci impedisce di aderire totalmente a questa prospettiva? Può esserci libertà dove c’è abbassamento, regressione, contrazione del sé?

La mia risposta a questa domanda è sì, esiste un nocciolo di libertà primaria che dipende dal contrarsi più che dall’espandersi, dall’aderire alla propria natura selvatica anziché dal distanziarsene. Già Messner, con il suo riferimento non casuale all’animalità, ha indicato la direzione in cui vorrei far procedere l’analisi ora. Pensiamoci su. La pietra dello scandalo nel caso della natura selvatica è evidentemente la noncuranza. La meraviglia che si può provare di fronte a una forma di vita animale o vegetale indipendente, autosufficiente, che sembra chiedere soltanto di essere lasciata in pace, è una sfida insidiosa ad alcuni pilastri dell’immaginario filosofico moderno. Come si può infatti giustificare o dare senso a un’esistenza che si esaurisce nel suo atto, che non rinvia ad altro da sé, che non è segno di nulla? Non dà in fondo la nausea una simile pienezza d’essere che non ammette l’idea che le cose potrebbero essere diversamente da come sono, che è semplicemente “in sé” senza essere mai “per sé”?

Per chi non ha già risposto affermativamente a questa domanda, il punto, credo, è proprio stabilire se non vi sia qualcosa, se non di fallace, di incompleto nel modo in cui la maggioranza dei moderni ha concepito la libertà (ossia come una forma di autodeterminazione, di fuoriuscita da una condizione di servile passività). Una lezione significativa che si può forse ricavare in quella dichiarazione implicita di estraneità a ogni progetto di riforma, riscatto o redenzione dell’esistente incorporata nel concetto selvatico di libertà suggerito sopra risiede proprio nel suo essere una pietra d’inciampo per l’attivismo moderno, per l’idea cioè che si possa essere in pace con sé stessi solo aggiungendo qualcosa a ciò che si dà spontaneamente.  C’è una parte di noi che ha forse qualcosa di essenziale da guadagnare dalla constatazione che vi è un fondo dell’esistenza – anche dell’esistenza umana – che si accontenta semplicemente di essere là, prima di qualsiasi «giustizia o misura», per evocare una bella canzone di Chico Buarque de Hollanda, O que será, che parla con perspicacia di «quel che non ha governo / né mai ce l’avrà / quel che non ha vergogna / né mai ce l’avrà / quel che non ha giudizio».

La mia impressione, per esprimersi fuori dai denti, è che ci sia qualcosa di filosoficamente denso da meditare in montagna in quegli attimi disarmanti che mandano a gambe all’aria le scissioni moderne tra forza e debolezza, libertà e necessità, senso e non senso. Non ha però le sembianze di una lezione che si possa tradurre compiutamente in parole. Assomiglia piuttosto a un sospiro di sollievo o a un urlo liberatorio: «Allora c’è altro oltre la commedia o la tragedia umana! Non tutto dipende o non dipende da noi! Esiste semplicemente un senza-di-noi!». Anche se questa intuizione non racchiude tutta la verità di cui abbiamo bisogno, ne è nondimeno un tassello importante. Tanto più oggi, di fronte al possibile catastrofico fallimento del sogno moderno di ricondurre il mondo intero a un ordine senza eccezioni.

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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