La voglia fortissima di non essere chi rimane – poesia e fotografia in Mia Lecomte

di Massimiliano Damaggio

 

Forse non molti sanno che Mia Lecomte è anche fotografa. E che la sua attività di fotografa – la capacità di vedere di ogni cosa un momento, un aspetto unico e irripetibile – è strettamente legata alla sua scrittura. E viceversa. In lei poesia e immagine sono entrambe risultato dello sguardo, del modo che ha di restituirlo allo sguardo del mondo. Come risulta evidente mettendo in dialogo i testi dalla sua ultima raccolta poetica Lettere da dove (InternoPoesia, 2022, con una nota di Ugo Fracassa) e le fotografie che lungo gli anni lei ha pubblicato ed esposto, in gran parte raccolte nel suo sito personale.

In Lecomte, la fotografia è ulteriore angolazione e lente d’ingrandimento. Non tanto su un “particolare”, ma su un “non particolare” di vuoto e assenza che la sua poesia spesso provoca quando la scrittura, improvvisa, brusca, si ferma, finisce, s’interrompe e chi legge sente chiaramente che dopo c’è qualcos’altro – che non è dato leggere. È la mancanza, le mancanze che la fotografia dell’autrice sembra cercare. L’inquadratura del “bianco” di cosa non è detto. Gli smottamenti di “nulla” fra i versi. Asciuttezza, assoluta assenza di foschia, nella fotografia come nella parola, per percepire tutto il detto, il non detto e il forse.

 

 

Caro XYZ

 

ora raccontami di te
dammi notizia
qui le tue lettere
non sono mai arrivate
Dietro le porte
come una luce voci attorno
sta la famiglia
Per il resto
tutto l’inverno è vuoto

 

(da Lettere da dove, 19)

 

Come si guarda il vuoto? Come se ne scrive? Come lo si rappresenta?

Nelle fotografie, come nelle poesie di Lettere da dove – in particolare nella prima delle cinque sezioni in cui è suddiviso il libro – molto, se non tutto, è passato, è stato, è andato. Non è rimasto. Molto non è mai stato. Una stanza vuota piena di un letto vuoto. Una figura senza volto, a metà coperta da una tendina, dietro la finestra di una cucina. Una battaglia immobile fra soldatini a cavallo che corrono verso un nemico fuori dell’obiettivo. I segni lasciati sul muro da ciò che una volta potevano essere i gradini di una scala. La prospettiva glaciale di panni stessi su fili perfettamente paralleli, e un tavolo di fòrmica, e un grembiule viola attaccato al muro, vuoto, liscio, senza il minimo ricordo del corpo che l’ha indossato. Immobilità, “trattenersi” in un luogo e in un tempo dove ciò che non c’è più si fa “trattenere” in tutta la sua assenza.

 

SGOMBERO

 

Il primo giorno hanno smontato il superfluo:
non luccicava neppure sul lato meno ruvido
l’hanno dovuto appoggiare

il secondo dedicato all’imballo:
riponevano necessità piccolissime
in scatole all’orizzonte
più e più lontane

il giorno che si dice terzo è soltanto molto vuoto
un abisso non in grado di stare

(intanto pare abbia avuto inizio
la sesta estinzione di massa)

 

(da Lettere da dove, 47)

 

 

In scrittura questa creazione di vuoto e assenza, oltre che con la “secchezza” e il rigore espressivi – che evitano pericolose derive sentimentalistiche quando si tratta di temi come l’assenza – è dovuta anche a un puntiglioso lavoro di giustapposizioni visive, di dettagli su dettagli, immagini a cascata su altre immagini che invece di produrre caos visivo, semantico, rumore di fondo, “intagliano” negli occhi del lettore una precisissima forma del vuoto: l’assenza che si scava il proprio spazio nel pieno delle cose.

Poesia, fotografia, sguardo. Il momento in cui la luce penetra l’occhio e crea, ricrea, ricostruisce, mette a dimora un seme destinato a sbocciare quando sul bianco della pagina si apre e richiude l’obiettivo, e la forma si congela in un’immagine immobile, fotografica, e in una evanescente, scritta. Due pesci morti che nuotano insistentemente sul ghiaccio del bancone, gli occhi vivissimi, cristallo perfetto che ancora riflette, nella sua definitiva fissità, tutto il movimento che manca.

 

 

MANUTENZIONE STRAORDINARIA

 

Oggi si è rotto ancora qualcosa
Dettagli dalle fondamenta
al tetto nelle strutture
pezzo a pezzo
un elenco crescente dal passato
verso la completa distruzione
La casa in cui mi trovo
prosegue il vuoto
per cosmiche variazioni
Da qui a breve
pulire non sarà più mio compito
dio mi perdoni
potrò concedere ai detriti di posare

 

(da Lettere da dove, 49)

 

 

Leggendo, guardando le poesie di Mia Lecomte, il percorso è quello su un sentiero di “velamenti”, di partenze, arrivi e subitanee ripartenze. Sembra a volte un giocare a nascondino, un non voler esserci a tutti i costi. Sembra quasi che l’autrice, in poesia e in fotografia, in realtà non ci sia, non sia dietro la macchina, non abbia in mano la penna: sembra essere qualcuno andato via con altri, di cui rendiconta l’assenza. Come nelle immagini della Versilia a fine stagione, quando “sono andati via tutti” e regna un sentimento di sospensione a tempo determinato che solo i luoghi in “disuso” riescono a dare, dove anche il mare con le ombre dei bagnanti è già ricordo, anticipazione del ricordo. “Goloso anticipo della morte”, citando Carlo Bordini. È un’immagine bellissima, che Lecomte reitera spesso nella sua scrittura, nel suo fingere (sembra) di non essere l’unica rimasta, l’ultima a testimoniare la pensilina vuota dopo la partenza: chi desidera far parte del quadro, del ricordo, dell’assenza, e infine del vuoto che lei stessa ritrae. La voglia fortissima di non essere chi rimane.

Anche l’inquadratura fotografica, così come la parola, è rigorosa, precisa: un modo per avere sotto controllo tutta la scena, esaminarla e ricomporne le tessere sulla carta. Angolazione perfetta, geometrica, punto di fuga all’infinito, impalcatura essenziale delle cose, lessico scarno, colori algidi che tendono a sbiadire. Come il ricordo. Fotografia fredda, indagatrice, poesia frontale: un’eco di Ghirri e l’iperrealtà di una realtà imprigionata in momenti di impossibile immutabilità, poesia che non cede mai – o non vuole – alla carnalità di uno Jodice, ad esempio, dove la pietra della statua non è pietra ma altro.

Nella poesia di Lecomte avviene il contrario a tutti gli effetti: il suo sembra un compito di testimonianza ultima – e quindi freddo disincanto, distanza – di cosa si è spento. E in questo più che l’immagine riesce la parola, capace di sottili sfumature di senso e significato. A volte, anche nella sua apparente nitidezza semantica, una parola porta in sé, etimologicamente o per utilizzo acquisito, una sorta di diluizione del proprio significante in altre immagini, in rimandi, in echi. Cose che un’immagine non può. Ed è questa possibilità che l’autrice approfondisce in scrittura: il suono dell’eco, dello straniamento, della presenza di un’ombra in uno dei tanti musei “delle cose morte”.

 

 

TRA I REPERTI

 

Restano le meteoriti
c’è scritto sotto:
effetto dell’impatto e della combustione
Occupano la sala grande
tra mucchi di cenere tizzoni verticali
Brillano spente
rotolano immobili
tanto fredde che sembrano scaldare
Al centro del museo delle cose morte
non c’è che una didascalia
la loro
si legge ancora:
eppure queste (malgrado le apparenze)
stanno vivendo
D’altra parte
è giusto chiedersi
quando l’amore consuma fuori orbita
cosa ne può restare
La notte a volte
qui scende così in fretta

 

(da Lettere da dove, 77)

 

 

Autobiografie non vissute, Terra di risulta, Intanto il tempo, Al museo delle relazioni interrotte, Là dove hai il corpo. Sono i titoli di libri di poesia di Mia Lecomte. Come per questo Lettere da dove, il lettore si chiede: dove è chi scrive? Dove viene fatto entrare chi legge? Non c’è luogo, non c’è corpo. L’inquadratura è quella di una finestra da un interno, una tenda leggera che la copre, come una nebbia, e lascia vedere solo l’ombra di un fuori che potrebbe essere “casa”.

La poesia in fondo è forse una questione di sguardo. Di come uno sguardo riesca a farsi guardare da altri – gioco di trasferimenti di realtà (o irrealtà) da uno sguardo a un altro. Fino a quando l’immagine chiede di essere solo sé stessa, basta la fotografia. Quando chiede di muoversi, di ondeggiare, di farsi e disfarsi negli occhi altrui, letta, è necessaria la parola. Soprattutto per guardare adesso il vuoto che sarà poi.

 

 

BLACK FRIDAY

 

Prima di morire sarò già morta
una questione di mesi forse anni
o avrò deciso in un unico giorno
Me ne sarò andata ogni sera
a tavola la forchetta nel piatto
o tutto a un tratto
una mattina improvvisa d’estate
Sarò già morta amore mio
già ordinata la cassa
(scegli oggi per risparmiarti il domani)
aperta in uno sbadiglio fiammante
Dovrai solo scomporre le lettere
vocali e consonanti non necessitano
in alcun modo di punteggiatura
detradurre il tradotto
lasciare che ricominci al contrario
avvolta da capo ogni recondita agonia
quello che sarà stato di me

 

(da Lettere da dove, 89)

 

 *

[Le immagini sono di Mia Lecomte, tratte da https://www.mialecomte-ph.com/]

 

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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