Eritrea: una felicità insopportabile

di Daniela Mazzoli

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Prima colonia del Regno d’Italia, l’Eritrea resta ‘nostra’ fino al 1941. Le Nazioni Unite la dichiarano nel 1952 confederata alla regione etiope. Dopo una lunga lotta di liberazione ottiene nel 1991 l’indipendenza dall’Etiopia, e in seguito a un referendum del 1993 diventa uno Stato autonomo a regime dittatoriale. In questo Paese di estenuanti conflitti e lotte per il raggiungimento e il riconoscimento di un’identità politica, lo scrittore e poeta Tommaso Giartosio nel 2019 fa un viaggio insieme a un gruppo di fotografi, accompagnati dal loro coordinatore Antonio Politano. Di questo viaggio costruisce una memoria, un racconto diaristico in forma epistolare. Scrive Tutto quello che non abbiamo visto, per i tipi di Einaudi.

Spostarsi è scomodo, da qualsiasi posizione si parta, anche la più favorevole al viaggio. E fa paura anche quando si desidera farlo. Ogni viaggio inizia come una contraddizione. Mette subito in crisi l’abitudine alle parole, che cosa significhi per esempio ‘desiderare’, volere qualcosa, volerla fare: lo vogliamo davvero se inizia con un istinto di paura? Dice Giartosio che le prime esperienze di viaggio che ricorda nella vita sono partite da un conto alla rovescia: ogni giorno passato depennato dalla lista dei giorni verso il ritorno.

Comincia così il suo libro sull’Eritrea, il racconto di un viaggio fatto insieme ad altri compagni, fotografi però. Un percorso fatto di incontri, ma da osservare, da scrutare come entrando nel silenzio di un museo. Si va per vedere qualcosa di estraneo, per risolvere il segreto di un luogo? Viaggiare è un compito? Vedremo.

Il posto è lontano ma soprattutto sconosciuto realmente. Ci sono diverse condizioni climatiche, culturali, economiche, differenti malattie. Bisogna prendere le misure, studiare, immaginare prima più cose possibili, mettersi al riparo. Resta comunque un margine di imprevisto più ampio di quello che si prefigura girando tra simili in quartieri familiari. Sua figlia sulla soglia dice “papà vedi di non morire”.

Viaggiare è tradire, promettere di tornare e tornare uguali, non farlo; sentire mancanze che non proveremo. Più forte è la nostalgia del presente, quando i figli non se ne accorgono nemmeno di noi, nella prossimità. Lo sappiamo che partire significa dimenticare il punto di partenza, mentre si intravede dove stiamo andando.

Il viaggio è promiscuità. Negli aerei, nei treni, sulle navi, ci si trova accalcati, più stretti agli odori, ai volumi, si divide l’aria nell’aria altrui. Ogni viaggio passa per qualche forma di galleria, di costrizione da cui poi ci si libera uscendo dalla fila, evadendo, restituiti alla piena luce: si comincia a venire al mondo ogni volta daccapo.

Giartosio racconta così che la prima apparizione in questo paese d’arrivo sono i corpi, diversi dal proprio, fatti in un altro modo, con muscoli più resistenti e sottili, nervi più tesi, altri riflessi, altro sudore, movimenti controllati e nuovi. Avere un certo corpo e desiderarne un altro, sentire nella pelle di un esile immobile eritreo: scoprire se vengono pensieri diversi, una gioia o dolori inimmaginabili, non osservabili dall’esterno. Quella piccola illusione che si insinua, poi, andando avanti, del credersi meno alieni quanto più si interagisce con le persone del posto, si visitano edifici storici o uffici quotidiani, si interrogano gli abitanti sul perché delle cose, la vera forma della politica, non quella raccontata sui libri di storia o i reportage che sono sempre di parte. Ascoltare direttamente la parte lesa, il popolo sotto dittatura: chiedersi se se ne accorge, se è convinto o vinto, rassegnato, come mai resta invece di scappare, ma potrebbe? Ecco: il potere della comprensione. Trovare le differenze tra i due disegni quasi identici, che siamo noi e quelli che andiamo a conoscere.

L’autore incontra tanti altri, tante forme dell’alterità: chiama ‘alteritrea’. Racconta le donne, ai matrimoni stracolorati, allegri -il pudore della fantasia- proprio come ci si immagina che possano essere quando davvero è una festa. Racconta i bambini, piccoli coraggiosi, più svelti di lui, più ignari ed esperti, che lo inseguono allo sfinimento disperato, proprio perché inesauribilmente vitali. Gioca a nascondino, giocano. A sparire per poi rivedersi, riguardarsi. Racconta le guardie, che sono spie anche di se stesse. I fili spinati che non esistono, se non come una breve corda a volte. E i fucili che non si vedono ma ci sono, e carichi. Incontra i vecchi, proprio vecchi, vestiti di vecchi vestiti occidentali, altri vestiti come noi. Ci ricordano a noi stessi, nella forma che abbiamo avuto presentandoci, con quel poco che gli abbiamo lasciato.

Chi ha lasciato cose in questo paese? Di chi è il fantasma che si sente ancora circolare nei bar, nelle scuole sperdute, nelle architetture, negli sguardi fieri e diseredati? In un vuoto che non si colma. Una specie di padre, una traccia di buio nelle assolatissime città, sopravvissute ma come relitti, in posa per uno scatto estetico? Un padre buono, un amministratore dei beni, o un usurpatore? Un educatore col vizio del lascito imperfetto o un narcisista invadente, un semplicissimo superficiale? Più di quanto succede con gli invasori che depredano e distruggono, un colonizzatore espropria dell’identità il Paese in cui si insedia: , lo annichilisce . Ne confonde l’identità sovrapponendogliene un’altra, da cui la popolazione deriva qualche beneficio in termini di sviluppo e benessere. I colonizzatori costruiscono case, strade, teatri, scuole. Portano ‘civiltà’. Ed è un inganno dolorosissimo, con strascichi così lunghi che i colonizzati e soprattutto i postcolonizzati ne mostrano ancora le cicatrici, qualche volta con un senso di umiliazione, altre volte con reazioni di insofferenza, permalose. Quello che incontrano i fotografi e lo scrittore è un Paese dall’identità indurita e in difesa, come i coralli che circondano le Isole Dahlak: una barriera che protegge e imprigiona, e spesso distrugge le barche di chi non ne conosce i passaggi. Ma è comunque sontuosa.

Giartosio fa una lunga corsa verso un tuffo in un’acqua mai vista. L’incontaminato ‘altro’, la propria nudità tra pesci con cui provare a parlare, non guardare più sopra la superficie ma al di sotto. Restare a bocca chiusa e occhi aperti.

Il pullman fa una lunga corsa in discesa da Asmara a Massaua, una discesa di quasi sessanta chilometri: doverla affrontare suscitava i dubbi più forti al momento di decidere se andare. Come avrebbe vissuto quello spavento? In modo significativo quella prova gli viene preclusa: la crema solare finita per sbaglio negli occhi gli impedisce di vedere il paesaggio lontano, nella luce intorno fino all’orizzonte, e di provare anche il terrore che temeva. Solo uno sguardo breve gli è concesso da quel fastidio imprevisto, lo sguardo delle cose nel pullman, piccole, vicine. Questa diventa la sua filosofia dello sguardo, alla fine del viaggio. Guardare significa anche rinunciare a vedere. Guardare è una forma di abbandono, è una ricerca ma anche una perdita.

Non voglio dire più niente, dice lui a un certo punto. Perché al termine del cammino si ha voglia di tacere; è chiaro il limite che sarà tutto nel nostro ritorno. Anche tornare è un tradimento. Persino quando abbiamo fatto tutto per bene, riconoscendo dove siamo e dove non potremo mai essere. Proprio perché per andare e tornare dobbiamo essere qualcosa e non altro, uno sguardo e non altro, un obiettivo che inquadra tutti gli altri obiettivi ma non tutto.

Giartosio incontra l’alterità anche nei liberi e volenterosi compagni, testimoni curiosi, avvezzi, acuti. Perché nel viaggio ognuno è prossimo e sodale ma anche sempiterno estraneo.

Il libro ha in incipit una dedica alla madre, che era, diceva lei, un po’ africana. La madre, altro assoluto, partita proprio dal più immediato tentativo di fusione. Un po’ africana, diceva. E forse è sua la misura del viaggio, la sola possibile, che la si prenda come principio o al traguardo. Con tutto quello che abbiamo visto o capito degli altri, dell’altro, saremo sempre solo “un po’” nei suoi panni, conformi. Il resto ci rimarrà segreto, un mistero.

Giartosio ci insegna, forse non voleva farlo, che c’è una felicità insopportabile nel viaggio, una felicità piena di strazio nell’incontro, nel vedere e ricordare il dettaglio e il piano più ampio, senza risparmiarsi, camminando sempre, lasciandosi abbagliare dalla miseria, ferire dalla bellezza del tempo. Una felicità fondata sulla propria incompletezza.

La scrittura del suo libro rimette a posto i pensieri spaventosi e confusi che abbiamo quando non leggiamo. È fatta come il viaggio che racconta: ci fa vedere, ci spiega, come se fosse facile vedere, come se fossimo bravi ad accorgerci delle stesse cose anche noi, che lui le dice però. E a volte nasconde delle poesie nelle righe dritte, come la poesia è nascosta nelle ore solite, uguali ogni volta. Quando arriviamo alla fine della lettura, con un bagaglio tanto più pieno e leggero, lo sentiamo benissimo che ci sono molte cose che abbiamo perso a ogni angolo. Che hanno voluto conservarsi, restare a vivere senza di noi. Le nostre molte altre eritree.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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