di Stefano Domenichini

per Roberto Camurri

 

1.

Lo scrittore famoso Stefano Bertolini non era riuscito ad abbassare in tempo la cerniera dei pantaloni. Dicono che quando si inceppa sia sufficiente spruzzare la cerniera di Vetril o lubrificare il carrello con la grafite, ma il fatto è che allo scrittore famoso Stefano Bertolini scappava un piscio che era un frantumo di diga e nella sua dotazione di Ambasciatore della Cupa non sono previste né boccette di Vetril, né una matita.

Tirava un freddo meschino e, si sa, quando tira un freddo meschino la fase sensazione di piscio-impellenza-liberazione è ridotta a poche frazioni di secondo. Se la cerniera ti pianta in asso, si rischia grosso. Diciamo allora che lo scrittore famoso Stefano Bertolini aveva affrontato il rischio: dopo aver socchiuso gli occhi, si era lasciato andare.

A guardarlo lì, in quel preciso momento, nel livido cortile del capannone della cooperativa, lo scrittore famoso Stefano Bertolini faceva pensare a certe scene esilaranti in prossimità delle rotonde, con il tamponato che spiega animatamente come era possibile evitare ciò che era già accaduto.

Infatti, lo scrittore famoso Stefano Bertolini stava continuando a smanettare, pollice e indice in stretta tellurica, la cerniera inceppata, mentre cominciava a brinare la calda mappa del suo sollievo.

Quando le sue dita mollarono il cursore della cerniera (che voi potete anche continuare a chiamare pirullo, tanto non comparirà più in questo racconto), constatò l’ampiezza del tappetino di aghetti ghiacciati che risaltava sul blu dei pantaloni. Sembrava quasi fosse passata una qualunque nonna pina o maria che si era esercitata con il punto spiga all’uncinetto e aveva cucito un centrino, quasi fosse un bersaglio, sul rigonfiamento pelvico dello scrittore famoso Stefano Bertolini.

C’era poco da fare, il grigiore ghiacciato della pianura aveva vinto. A fidarsi di quel mattino di gennaio, probabilmente per sempre. Ma anche a essere ottimisti, la possibilità che la chiazza si asciugasse all’aria aperta richiedeva, in termini di probabilità, complicatissimi calcoli metereologici che andavano combinati con dati non facilmente reperibili, tipo la quantità di emissioni stagionali per riscaldare le zone urbanizzate del nord della Finlandia, da mediare con quelle rinfrescanti rinvenibili in certe zone ricche del Brasile, per cui nel breve ci si poteva accontentare di una stima approssimativa: per oggi scordatelo.

Con tutto che anche l’intera giornata sarebbe stata troppo per lo scrittore famoso Stefano Bertolini, visto che di lì a mezz’ora doveva ricevere la delegazione ospite.

Con questo stato d’animo, attraversò il cortile per entrare nel capannone, zona uffici, senza rinunciare alla postura diritta e altera che la sua dignità di Ambasciatore della Cupa richiedeva.

2.

In fondo alla Cupa c’è una casa bianca sospesa sul mare. È la casa dell’Ambasciatore, che, come tutti gli ambasciatori, è sempre in giro per il mondo, quindi non c’è da stupirsi se, passando di lì, si vede un chicchessia sul terrazzo, o se il passo sulla scaletta che scende verso la spiaggia, di fronte alla fila di roulotte parcheggiata sull’argine, è un passo ignaro del sontuoso destino di quella piccola dimora. Qui, prima o poi, si insedierà l’Ambasciatore e con lui ci sarà Fiammetta, a guardare questa parte di mare che ce la mette tutta per sembrare un vero mare, adesso che il mondo si è aperto ai confronti e non è più solo una questione di sale, iodio, spiaggia e pesci, adesso che contano la trasparenza, le barriere coralline e la profondità a riva, e c’è sempre quello con il ghigno vincente che dice «ma non vorrai mica chiamarlo mare, quello lì».

L’impegno ce lo mette questo spicchio di acqua, tra alghe, fango e schiuma di risciacquo, con l’entusiasmo ingenuo di chi per un attimo pensa di avercela fatta, l’attimo in cui la natura si distrae e per una rara combinazione di correnti, venti e maree, questo spicchio di mare sembra come tutti gli altri. Come una volta che ci fu il mare bello a Cesenatico e la gente telefonò ai parenti, anche a quelli che erano andati lontano, in Belgio o in vacanza in Sardegna, correte, gli dicevano, correte. Ma Cesenatico è un poco più a sud del posto in cui la Cupa arriva al mare e lì non conoscono la storia di come lo scrittore famoso Stefano Bertolini fu nominato Ambasciatore.

3.

Lo scrittore famoso Stefano Bertolini si fermò a scrutare i due commessi all’ingresso del palazzo. Uno era un extraterrestre. Nel senso che era verde, con le antenne, gli occhi gialli e una lingua chilometrica e collosa con cui catturava e si cibava di qualunque cosa gli passasse davanti in quel momento.  Solo che non si vedeva, come dire, se uno lo guardava non se ne accorgeva che era verde, con le antenne eccetera, se lo guardava sembrava un essere umano.

E questo per via di un sofisticato congegno che alterava la percezione che quell’essere dava di sé. E non era solo una questione visiva, c’era tutto un effetto materiale, di sostanza, visto che anche se lo toccavi, tipo su una spalla, sembrava fatto di carne e ossa.

Solo il nome lo tradiva. Si chiamava Cosmo, Cosmo Pellegrini, e lì capivi come anche la più spietata arma letale, quale doveva essere quell’alieno sempre in agguato, abbia la sua debolezza che non gli aveva consentito di chiamarsi, che so, Umberto o Piero, lasciando così aperta quella zona di vulnerabilità.

Cosmo era alto un metro e cinquantotto e il sofisticato congegno che ne celava le sembianze aliene era un paio di occhiali con due lenti talmente spesse che se ci guardavi in fondo, con attenzione, ci vedevi la storia intera del mondo, con le guerre, le canzoni e tutta la noia, in una curvatura dello spazio e del tempo che noi umani ancora ce la sogniamo, che nessuno ha mica mai capito bene cosa sono esattamente la curvatura e lo spaziotempo, mentre lì, negli occhiali di Cosmo Pellegrini, era tutto chiaro, lineare.

Lo scrittore famoso Stefano Bertolini, in qualità di Ambasciatore della Cupa, era stato informato, non si ricordava bene da chi, sicuramente uno dei servizi segreti, che nelle lenti degli occhiali di Cosmo Pellegrini era inserita una tecnologia avanzatissima in grado di registrare, scomporre e ricomporre, qualunque impulso, anche emotivo, che intercettava. I dati venivano letti in simultanea sul pianeta alieno, generando una forma di controllo sul genere umano paragonabile solo a quella che fu sperimentata sui bambini con il gioco delle palline Clip Clap nella lontana estate del 1971.

Il mondo era in balia di Cosmo e tutte le potenze mondiali erano impegnate allo stremo per trovare una forma di contrattacco. L’unica alternativa fino a quel momento considerata possibile era quella di sfilare gli occhiali a Cosmo con il rischio, probabilmente la certezza, che Cosmo, tornato alieno, si mangiasse in un niente la nostra galassia con la sua lingua famelica.

In quel preciso istante, mentre lo scrittore famoso Stefano Bertolini scrutava i commessi, lo sguardo algoritmico di Cosmo Pellegrini era puntato sulla patta ghiacciata dell’Ambasciatore che mantenne il suo sussiego, ma non si sentì per niente tranquillo.

4.

Mentre Cosmo Pellegrini osservava la patta dello scrittore famoso Stefano Bertolini, l’altro commesso aveva sollevato il telefono.

Era un tipo vicino ai due metri, completamente calvo, con una barbetta isterica che sembrava un giardino di Chernobyl. Era di una magrezza che imponeva riflessioni metafisiche, tipo come poteva esistere un fenomeno corporeo privo di struttura scheletrica, visto che quell’uomo era così sottile da non poter neanche immaginare che uno scheletro, anche ridotto a sistema di fasci vascolari, potesse entrare in quella linea dritta che, in un mondo meritocratico, avrebbe potuto avere enorme successo come lungomare e che invece, si diceva, fosse fuggito da un paese mediorientale dove il commercio di armi e droga, gli omicidi e gli stupri erano considerati volontà di dio, purché a commetterli fossero certi pretacci con il mitra, il turbante e l’alito fetido delle maledizioni assurte a preghiere, gente così simpatica che certi preferivano aggrapparsi al carrello degli aerei in decollo pur di fuggire da lì.

Così aveva fatto l’Afgano, come chiamavano il commesso bislungo, ovviamente nel senso che era fuggito trovando accoglienza nella stiva, che stare aggrappato al carrello, per 6.500 chilometri a un’altezza di undicimila metri, si sa, è impresa piuttosto disperata, anche se l’Afgano, con quel suo corpo lungo e privo di peso, non avrebbe sfigurato, poteva sembrare uno di quegli striscioni che, attaccati all’aereo, reclamizzano amore e rasserenano i bagnanti.

Lo scrittore famoso Stefano Bertolini aveva più volte riflettuto sull’amaro destino di quell’uomo che era fuggito dall’orrore per trovarsi tutto il giorno chiuso in un gabbiotto con quel mostro di Cosmo Pellegrini che lo aveva sicuramente soggiogato e lo teneva in suo potere. Ma l’Afgano non ci faceva caso, anzi, trovava piuttosto rassicurante quel piccolo mostriciattolo occhialuto che, tra l’altro, parlava anche poco.

5.

Quando stai al governo per vent’anni, qualcosa di buono devi pur farlo. Non è che puoi solo allearti con i nazisti, mandare paesani in Russia con l’ombrellone e le pinne, matteottizzare chiunque abbia letto un libro e ti considera un coglione, prendere il ciarpame umano più ebete e frustrato, dargli una divisa e un manganello e dirgli «adesso comandi tu, mena chi ti pare»; vent’anni sono lunghi, è inevitabile azzeccarne qualcuna, tipo mandare i bambini al mare d’estate.

Ci fossero stati gli alberghi, distribuivi dei buoni vacanza e via, ma anche se fosse stato così, anche se la riviera romagnola fosse già stata deturpata dai tre stelle, lui no, lui non poteva mica ridursi a così poco, il Mussolini era uno che non aveva paura neanche di mandare dei ragazzi in Russia con l’ombrellone e le pinne mentre lui giocava a tennis a Villa Torlonia con il Monzeglio campione del mondo; qualcuno gli diceva: «Duce, lungi da noi voler sembrare disfattisti, ma con l’entusiasmo e l’orgoglio di sempre ci permettiamo di avanzare l’ipotesi che in Russia potrebbe non esserci un clima adatto all’utilizzo delle pinne», ma lui niente, neanche un dubbio, sguardo fiero diceva: «ci ho paura io? guardate che rovescio. Vi sembra il rovescio di uno che ha paura?».

Fu così che, invece di comprare scarpe e calze agli alpini, venne tirata su una colonia tra il Canale Immissario delle Saline e il Canale della Cupa, Comune di Cervia, dove Milano Marittima passa la bandiera al Lido di Savio, una robina sobria, sessantamila metri quadri, che ci entri da un arco che sembra la dogana del giudizio universale e dentro ci stanno fino a cinquecento bambini per volta.

Eppure, non bastava: se in mezzo a sangue e merda fai anche cose buone, bisogna che le cose buone si notino. Così l’architetto, un curioso omino fuggito dalle persecuzioni razziali in Ungheria e divenuto fervente nazi-fascista in Italia, decise di erigere una torre di oltre cinquanta metri, simbolo imperituro della stupefacente virilità dei camerati tutti, che il fascismo ce l’ha duro, a volte un po’ precoce nell’esplodere la sua potenza, come si diceva del Duce nostro, ma, si sa quanto sia prevedibile l’invidia.

6.

Fu lì che arrivò, un mese di luglio dei tardi anni ottanta, un pullman della Cooperativa Sociale la Greppia di Pratofontana che accompagnava, per una breve vacanza, un gruppo di ragazzi tra i dieci e quindici anni, le cui attività psichiche, diciamo così, uscivano un po’ dai rigidi schemi del nuovo regime democristiano, studia, prega, lavora, prega, pensa alla famiglia e se ti sembra di scoppiare, vai allo stadio e sfogati.

Su quel pullman c’erano questi ragazzini che i medici avevano deciso, non senza una pia compassione, che proprio non ce la facevano a fare quelle cose lì con la giusta linearità, capaci che pregavano quando dovevano lavorare o che studiavano a memoria un’enciclopedia solo perché farlo li faceva stare bene; soprattutto erano inadatti a creare una famiglia, dunque non compatibili con il progresso e la crescita della nazione.

Su quel pullman c’era anche un giovane Stefano Bertolini, non ancora divenuto scrittore famoso e non ancora Ambasciatore della Cupa. Se ne stava muto come sempre e guardava fuori dal finestrino, scrutando i pini marittimi che sembravano navicelle aliene nel cielo azzurro. Ma quando passò sotto l’arco della colonia, ora intitolata ai Monopoli di Stato, sentì un fremito ignoto, come se presentisse avvenimenti grandiosi, forse definitivi per la sua vita.

La colonia aveva perso la grandezza e lo splendore dei tempi imperiali (anche la torre fallica si era appassita, come purtroppo succede anche ai migliori), ma era reduce da un restauro a opera della CMC di Ravenna e tutto sommato si presentava ancora imponente; era sparita la ridicola grandiosità dell’Impero per far posto a una modernità agile e disinvolta, dove il popolo felice non veniva più minacciato con il manganello, ma bastonato a dovere con le rate costanti, compra e ubbidirai per tutta la vita; era pur sempre uno spettacolo di marionette esaltate.

Mentre il giovane Stefano Bertolini scendeva dal pullman con il suo portamento austero e signorile, per nulla adombrato da una paio di ciabatte Adidas di due numeri più grandi e un pantaloncino da bagno in poliestere che abbinava a uno sfondo vinaccia delle stampe di delfini gialli, mentre il futuro scrittore famoso e Ambasciatore si guardava intorno con aria solenne, sul piazzale di ghiaia parcheggiava un altro pullman dal quale scese come una furia un tappetto biondo in infradito e maglietta del Lanerossi Vicenza.

La maglietta arrivava poco sotto l’ombelico e non ce la faceva a coprire lo slip da bagno giallo, molto essenziale nelle misure e messo a dura prova da un’erezione che, a prima vista, non sarebbe dispiaciuta alla torre del ventennio.

Il biondino sembrava indemoniato, girava su sé stesso come una trottola, saltava e gridava: «Mangiamo una pizza? Dai che si va al mare. Giochiamo a pallone? Io sono Rondon. Facciamo a chi arriva prima. Mi faccio un gelato. C’è un bagno qui?».

Gli assistenti della Cooperativa Sociale Golgota di Nogazzara, mentre facevano scendere i compagni di viaggio del biondino, si limitavano a tenerlo d’occhio, richiamandolo di tanto in tanto.

Il demonio, nel frattempo, rifiatava e la coltre di polvere che aveva sollevato si abbassava con lentezza impaurita, quando i suoi occhi eccitati notarono, a pochi metri da lui, una figura elegantissima che si era portata una mano sul cuore e sembrava ascoltare una musica maestosa. Con un balzo gli si parò davanti, fece un inchino, e disse: «Lei deve essere l’Ambasciatore». Stefano Bertolini riportò il braccio destro in posizione perpendicolare e si concentrò su quel frullo biancorosso più basso di lui di almeno venti centimetri.

«Mi chiamò Marino Rampin, Contea di Arcugnano, mi permetta di esprimerle tutta…avete un bagno qui in ambasciata?».

Fu quando Stefano Bertolini venne accompagnato nel suo alloggio che la cosa tornò fuori. L’infermiere, mentre disfaceva il bagaglio, diceva: «Oh, cos’ha detto quel biondo? Come ti ha chiamato? Sai che ci sta, sembri davvero un ambasciatore, te c’hai classe Stefano, lasciatelo dire…oh, ma poi, ambasciatore di cosa, qui bisogna che troviamo un posto adatto». E se ne andò, lasciando il giovane Stefano Bertolini a rimirarsi in uno specchio arrugginito.

Quella sensazione di nuova era che aveva avvertito passando sotto l’arco della colonia non era sparita, anzi, la sentiva sempre più forte.

 

7.

A trovare il posto, ci pensò Marino Rampin.

Lo stesso giorno in cui aveva nominato Ambasciatore il non ancora famoso scrittore Stefano Bertolini, il frullo Rampin trovò duemila lire.

«Guarda cosa ho trovato, Ambasciatore!», disse concludendo un movimento da molla proprio davanti al Bertolini.

Questo se ne stava impalato su un tombino della Sip, del tutto insensibile ai trentatré gradi che gli picchiavano in testa, essendo la testa impenetrabilmente assorbita dal pensiero che gli dava il suo nuovo ruolo diplomatico, per onorare il quale si era infilato una Lacoste talmente sbiadita che non vi era possibilità di risalire alla nuance originaria. Sollevò il quadernetto che teneva sempre in mano e, in una pagina bianca, scrisse a matita: «Dove?».

«Ah, ma sei muto…cristo santo, dove…dove, adesso te lo dico, ti porto ad Haiti, ti porto» disse il Rampin.

L’ancor giovane Stefano Bertolini celava dietro la sua fissità espressiva la curiosità di aprire in due quel frullo biondo per capire di quale meccanismo elettrico fosse dotato. Rialzò il quadernetto e scrisse: «Dove li hai trovati?».

«Gli schèi?  Erano intrappolati, senza speranze, parola di Rondon» e fece vedere il numero nove sulla schiena della maglietta del Lanerossi Vicenza. «Ma sei muto o sei uno scrittore? Andiamo ad Haiti, dai!».

Al non ancora famoso scrittore Stefano Bertolini la spiegazione parve non priva di imprecisioni ma, allo stesso tempo, sentì che l’immobilismo che lo aveva contraddistinto fin dalla tenera età non era più compatibile con il suo nuovo ruolo, e si incamminò lentamente dietro al tornado biondo che già saltava verso un preciso punto della recinzione.

8.

Se il Bertolini poteva stare fermo come una statua per giorni e giorni, l’ipercinetico Rampin doveva aver già perlustrato in lungo e in largo il territorio. Aveva scovato un buco nella rete che separava la colonia dall’adiacente campeggio. Da lì passò facendo strada all’Ambasciatore.

La prima cosa che videro fu un gruppo di ragazze che prendeva il sole ai bordi di una piscina e questa apparizione ripropose istantaneamente la questione dell’abnorme rigonfiamento che metteva a dura prova la resistenza del già esile slip da bagno di Marino, il quale poggiò una mano sul braccio dell’Ambasciatore e disse: «non ce la faccio a arrivare in bagno, aspettami qui» e sparì nel fogliame che copriva la recinzione.

Lo scrittore Stefano Bertolini tornò nella sua congeniale modalità pietrificata e iniziò a contare le persone che stavano ai bordi della piscina e quelle dentro l’acqua. Mentre analizzava il rapporto tra totale di esseri umani e numero di sedie sdraio presenti, rispuntò il frullo biondo senza più rigonfiamento, ma con un’espressione rilassata sul viso.

Il campeggio era pressoché deserto. Marino era colpito dalla nobiltà dell’incedere dell’Ambasciatore e rallentò il passo per aspettarlo. Erano ormai in prossimità dell’uscita, quando dai bagni venne fuori una donna bionda, molto formosa. Era a piedi nudi, con una quarta di seno sulla cui mirabolante compattezza non potevano sussistere dubbi, dato che era il sole l’unico indumento che la ricopriva, a parte un paio di slip da bagno sgambatissimi.

Ora, non so a voi cosa succede davanti a queste visioni, ma potete immaginare quale fu la reazione del Rampin che di nuovo posò la mano sul braccio del non ancora famoso scrittore Stefano Bertolini e disse «aspettami qui, torno subito». Ma questa volta, con inaspettata agilità, il Bertolini mise una mano su quella di Marino e lo bloccò. Aprì il suo quaderno e scrisse: «dove vai?».

«A fare pipì», disse il frullo. «Ho la pisciata ibrida, a volte è gialla, a volte escono come delle meduse, ma con le meduse è meglio, devono essere le medicine», e sparì dietro le porte da saloon dei bagni per tornare di lì a poco con l’aria rinfrancata.

 

9.

Furono gli ombrelloni del Bagno Haiti a ratificare la nomina ad Ambasciatore del non ancora famoso scrittore Stefano Bertolini. Come un popolo acclamante, vibravano all’unisono sotto un vento entusiasta. Il Bertolini li osservava con sguardo serio e impenetrabile dalla veranda rialzata del bar del Bagno Haiti, mentre il Rampin agitava freneticamente le duemila lire che, a suo avviso, dovevano rappresentare un richiamo irresistibile per qualunque sogno ribelle alla regola di non doversi mai realizzare. L’Ambasciatore era inespugnabile nella sua fissità, ma dentro sentiva una commozione nuova, dolce come una strada che ti ha riconosciuto e ti sta portando in un posto dove non ti dovrai preoccupare più di niente.

Era questa la situazione interiore in cui si trovava il neo Ambasciatore Stefano Bertolini quando dinanzi al tavolino che stava occupando assieme a Marino Rampin si palesò una ragazza che istantaneamente l’Ambasciatore ebbe la certezza si chiamasse Fiammetta. Sentì anche di esserne follemente innamorato.

«Uè bambola», disse il Rampin, «champagne ne abbiamo?».

Agitò le duemila lire in modo che entrassero dritte nella visuale della cameriera.

Questa si bloccò a pochi centimetri dal tavolino.

Vide un biondino in evidente stato di agitazione che chiedeva champagne e uno spilungone fermo come un semaforo che roteava le pupille per non perdersi neanche un centimetro del corpo della cameriera. Nessuno dei due doveva avere più di quattordici anni e lo spilungone aveva un’erezione.

«Voi due da dove siete scappati?».

«Missione diplomatica, tesoro», disse il biondino. «Ti presento l’Ambasciatore», e indicò lo spilungone che accennò a un impercettibile sorriso, mentre il delfino che stazionava sulla zona pelvica del suo costume da bagno sembrava sempre più intenzionato a tentare il record del mondo di salto in alto.

La cameriera fece una smorfia divertita che accentuò la paffutaggine delle guance. Aveva due occhi inespressivi e capelli piuttosto malandati. Le duemila lire però sembravano vere, quindi prevalse la sua professionalità.

«Se volete per voi ci sono dei gelati», disse con fermezza.

«Portaci due cornetti Algida», ordinò il biondino.

L’Ambasciatore Stefano Bertolini aprì il quaderno e scrisse: «Per me all’amarena».

La cameriera prese le duemila lire dalle mani del Rampin e se ne andò verso il bar. Anche lei aveva un costume sgambatissimo, ma non bastava a slanciare due gambe corte e tozze, già bucherellate dalla cellulite anche se non dimostrava più di vent’anni.

L’Ambasciatore fissava la casa bianca sospesa sul mare che distava poche decine di metri dal bar del Bagno Haiti. La trovava una residenza perfetta per lui e Fiammetta. Da lì potevano difendere il territorio dagli attacchi marittimi. Il problema era il canale che portava verso l’interno. Il non ancora famoso scrittore Stefano Bertolini prese il quaderno e scrisse: «quando torna Fiammetta, puoi chiederle il nome del fiume qui accanto?».

Marino Rampin si era alzato e saltava come un ossesso sulle note di I want your sex che arrivavano da una delle roulotte parcheggiate lungo il canale.

«Chi cazzo è Fiammetta?», chiese il Rampin, coprendo il passaggio cruciale in cui George Michael dichiarava I don’t need no Bible, just look in my eyes.

«Fiammetta è l’Ambasciatrice. La cortese fanciulla che ci ha offerto i gelati», scrisse il non ancora famoso scrittore Stefano Bertolini.

Rampin tornò a sedersi, mostrando un leggero affanno, guardò l’Ambasciatore e disse: «ecco perché non ho sentito il bisogno di andare in bagno quando l’ho vista: perché piace a te».

Quando la cameriera tornò con i gelati, preceduta da un cacofonico ciabattamento da infradito, il Rampin assolse ossequioso il suo compito.

«Cupa», disse la ragazza, «Canale della Cupa. E comunque, qui non si balla. Mangiate il gelato e filare». Lasciò il resto sul tavolino e se ne andò.

Il non ancora famoso scrittore Stefano Bertolini aprì di nuovo il quaderno e scrisse: «Sono l’Ambasciatore della Cupa, dunque».

«Figo», disse Rampin scartando il cornetto, «che figata».

Dopo il primo morso, lesse il nuovo messaggio dell’amico: «potresti, per cortesia, lasciare il resto all’Ambasciatrice come appannaggio per la ristrutturazione della nostra dimora?».

Rampin buttò l’occhio verso la casa bianca sospesa sul mare e notò che la scaletta di accesso mostrava qualche segno di cedimento.

«Ha senso», disse, «D’accordo».

Pur nello sconvolgimento degli accadimenti della giornata, il non ancora famoso scrittore Stefano Bertolini non riusciva a non pensare a quella che al momento gli sembrava la questione più importante: la difesa del territorio.

«Abbiamo bisogno di un esercito», scrisse sul quaderno.

«So dove trovarlo», disse Marino Rampin quando ormai il cornetto era finito.

Rampin sentì un nitido slappamento provenire dalla sua destra, dove sedeva l’Ambasciatore.

«O il tuo gelato parla, o hai emesso un suono», disse girandosi.

«Ti nomino Ministro della Difesa della Cupa», proclamò l’Ambasciatore.

«Ma allora parli», gridò il biondino.

«Solo quando è necessario», dichiarò l’Ambasciatore.

 

10.

Lo scrittore famoso Stefano Bertolini ricordava che un attimo dopo alcuni infermieri della Cooperativa Sociale La Greppia di Pratofontana e della Cooperativa Sociale Golgota di Nogazzara fecero irruzione al bar del Bagno Haiti e scortarono lui e Marino Rampin alla colonia dove furono accompagnati nei rispettivi alloggi dai quali non uscirono più fino al termine della vacanza. Durante il breve tragitto l’Ambasciatore avvertì una certa concitazione, legata soprattutto a una questione relativa a duemila lire di cui uno degli infermieri aveva denunciato la scomparsa.

Lo scrittore famoso Stefano Bertolini non vide mai più Marino Rampin, ma quando il pullman costeggiò la Cupa per riportare i vacanzieri verso Pratofontana, l’Ambasciatore notò che sull’argine destro, poco dopo il Centro Ippico Le Siepi, erano impilati dei covoni di fieno di forma cilindrica. I rotoli più in alto erano stati raddrizzati e ora poggiavano come volti sui solidi corpi delle pile. A quei volti erano state appese delle plafoniere, due per covone, simmetriche, attente, occhi sempre spalancati e vigili su chiunque decidesse di spingersi più in là, verso la foce della Cupa.

«Adesso abbiamo il nostro esercito», pensò l’Ambasciatore.

 

11.

Il famoso scrittore Stefano Bertolini aveva lasciato un biglietto a Cosmo e all’Afgano con il quale gli ricordava che la delegazione ospite sarebbe arrivata da lì a poco e che si affrettassero a indossare le livree.

Una raccomandazione analoga la ricevette anche lui quando entrò nel salone dove sarebbe avvenuto l’incontro ufficiale e gli si fece incontro la Moira, una ricciolona rossa, magra e pallida, che lo aiutava nelle attività quotidiane e che si era occupata dei dettagli organizzativi del ricevimento di quel giorno.

«Stefano», disse, «stanno arrivando i bambini delle scuole medie. Bisogna che ti cambi i pantaloni, vado a prenderti una tuta».

Lo scrittore famoso Stefano Bertolini la guardò con gratitudine e pensò che era rimasto giusto il tempo per controllare che tutto fosse a posto. Vide che gli altri addetti dell’ambasciata erano già tutti presenti e che sembravano aver completato il loro compito.

A ciascuno di loro era stato dato un cartoncino e un pennarello sul quale dovevano scrivere un pensiero che li rappresentasse.

Secondo la Moira era un metodo per far sì che i membri della delegazione straniera capissero più facilmente le consuetudini e la cultura del paese in cui si trovavano e questo, oltre a essere una forma di accoglienza particolarmente rispettosa, avrebbe agevolato lo svolgimento dei lavori diplomatici. Lo scrittore famoso Stefano Bertolini aveva approvato la proposta della Moira e ora voleva sincerarsi che i compiti fossero stati svolti correttamente.

Alcuni dei cartoncini erano già stati appesi al muro. Lo scrittore famoso Stefano Bertolini trovò la cosa piuttosto irritante, visto che il protocollo prevedeva che l’ostensione fosse preceduta dall’approvazione dell’Ambasciatore. Ritenne però inopportuno, visti i tempi stretti, chiedere spiegazioni ora e si avvicinò al muro.

Il primo cartoncino che mise a fuoco era stato preparato da Oscar Bertini. L’Ambasciatore si girò e lo vide seduto su una sedia del laboratorio dove si separano i bottoni. Stava suonando con foga una batteria. Era molto bravo, riusciva a farlo senza emettere alcun suono. Sul cartoncino aveva scritto Berlino è una città bellissima. Non date retta al cantante.

Bene, pensò l’Ambasciatore, è giusto prendere posizione, accorcia i tempi della conoscenza reciproca. E si avvicinò al cartoncino successivo.

La firma era di Wainer Losi che, come sempre, stava bisbigliando all’orecchio della Bianca Boretti raccontandole storie e proponendole progetti senza mai prendersi una sosta. Losi aveva scritto: Avete presente il fuorigioco? Il fuorigioco è quello che tu resti solo che gli altri via, sono andati via. Allora te sei in fuorigioco e gli altri via, ma chi ha sbagliato!?! Io credo che sono andati via loro. PUM! Odio il rumore, ma credo che non si spara agli uccellini che rientrano dal fuorigioco.

E niente, pensò l’Ambasciatore, parla parla, parla sempre anche quando scrive. Ma tutto sommato lo ritenne un buon lavoro.

Gli sembrò che le cose si mettessero bene, gli restavano cinque cartoncini da controllare, ma le premesse erano buone.

Fu interrotto dalla Moira che si avvicinava a lui con in mano un paio di pantaloni di felpa grigi. Il famoso scrittore Stefano Bertolini si irrigidì pronto a redarguire la sua collaboratrice: lo spezzato non era per niente adatto all’occasione, per niente, ma la Moira non gli diede tempo di reazione: «Cambiati in fretta, stanno arrivando, e non hai ancora scritto il tuo cartoncino», gli disse con tono fermo.

Non è il momento per le lavate di capo, pensò l’Ambasciatore, meglio rinviare a dopo.

Appoggiò il felpato su una sedia, si accomodò su quella accanto, prese cartoncino e pennarello, e scrisse: Sono Stefano Bertolini, Ambasciatore. Assieme al Ministro Marino Rampin e alla dolce Fiammetta difendiamo il territorio della Cupa.

Rilesse e gli sembrò poco diretto, troppo istituzionale, in fondo erano cose che la delegazione straniera già sapeva.

Prese un altro cartoncino e cercò le parole per farsi capire: Mi chiamo Stefano Bertolini, voglio fare lo scrittore famoso e andare a vivere al Lido di Savio.