Pellicola (sillabario della terra # 2)

di Giacomo Sartori

Quando vado in giro a parlare della terra domando a chi mi ascolta, capita che siano dei bambini, quanto è profonda. C’è chi mi risponde diversi chilometri, chi centinaia di metri. Tutti pensano che sia sconfinata, lo si vede dalla gravità delle loro esitazioni, quelle che ci vengono fuori quando sono in ballo le entità incommensurabili. Ma è evidente che nessuno ha in mente una misura precisa. E è normale, perché quello che ci è dato a vedere è solo la sua faccia che guarda il cielo, e avari indizi, non facili da spigolare, ci aiutano a supporre quanto si spinge in profondità.

In realtà quasi sempre la terra non ci arriva allo sterno, nei casi migliori è alta come un giocatore di basket. Tutta la vita e tutti gli importantissimi processi che ospita, la capacità di far crescere le piante, di riciclare la sostanza organica e di immagazzinarla, sono concentrati in quello spessore da nulla. E soprattutto nelle prime spanne, perché poi diventa sempre meno attiva. Sotto di lei ci sono materiali inerti, roccia impenetrabile, o sedimenti inospitali per le radici, privi di vita. Pietra compatta o sciolta che non svolge alcun ruolo attivo, se non quello di supporto.

Molto spesso è proprio bassotta, come un cagnetto rizzato sulle zampe posteriori. Tutto lì. Le radici e le reazioni della vita devono concentrarsi in quella pellicola estremamente ridotta. Molti magnifici vini, tanti deliziosi formaggi, nascono lì. Nei deserti è ancora più sottile, così come sulle montagne alte. Perché per formarsi la terra ha bisogno di spessa vegetazione e che la si lasci tranquilla per moltissimi anni, migliaia di anni, altrimenti resta esilissima, o viene trascinata via dalle acque che scorrono in superficie o dai venti. Sulle scarpate erte mano a mano che si forma viene allontanata, Araba Fenice destinata a non crescere mai. Nei paesi molto freddi è perennemente ghiacciata, quindi è come se non ci fosse.

La nostra attuale alimentazione, ma anche quella del futuro, dipendono allora da questa esigua pellicina che dove il clima è clemente ricopre le terre emerse, come una glassa di gran qualità. Ma anche la vita di tutti gli altri animali, intendo gli animali che non sono uomini, che si nutrono di piante, o che mangiano altre bestie che mangiano le piante, dipendono da questa risibile scorza, della quale vediamo solo la membrana esterna. Ma pure una grossa fetta degli scambi gassosi con l’atmosfera, che tanto ci preoccupano adesso, avvengono lì. Comprese le emanazioni che causiamo noi coltivando. Buona parte dei gas che si accumulano nell’atmosfera, spingendo l’acceleratore dell’effetto serra esalano dalle terre agricole. E in particolare il metano, che sale soprattutto dalle risaie, che alimentano i poveri, e dagli allevamenti, che impinguano noi ricchi.

Solo nelle regioni tropicali è profonda molti metri. Sono quelle strisciate arancioni che tagliano come cicatrici le foreste tropicali, quelle spianate color arancio dei paesi caldi che fanno da sfondo a tante immagini. Li è molto fonda, questo sì, ma eccettuando i primi centimetri è una terra troppo vecchia e poverissima, quindi non è che un velino di vita, poi diventa substrato inerte. Riciclando con virtuosistica parsimonia quei pochi elementi che possiede, come fanno i vecchini, riesce a ospitare lussureggianti foreste, ma appena la foresta viene falcidiata li perde, e sono problemi. Va benissimo per fare i mattoni, per questo viene chiamata laterite, ma per le colture industriali si beve vagonate di concimi chimici, in mancanza di strategie umane più intelligenti.

Solo adesso ci accorgiamo che tutto dipende dal guscetto di terra che nutre le radici e tutti quanti. Prima vedevamo la terra in superficie, e davamo per scontato che continuasse fino a chissà quali abissi. Constatando quanto è importante, eravamo meno incoscienti di adesso, pensavamo che fosse profonda, inesauribile. Tanto che abbiamo chiamato il nostro pianeta Terra. Sarebbe stato più saggio, e più pedagogico, chiamarlo Sasso, o Pietra, o Lava.

Le persone alle quali faccio la domanda lo pensano ancora, si illudono che la terra sia profonda come la Terra. Io provo a spiegare come stanno le cose, ma le mie parole non sono forse molto convincenti. Quindi mi procuro gli attrezzi, e partiamo in esplorazione: naturalmente il meglio è sempre constatare con i propri occhi, facendo una buca e osservando i piedi della terra, carezzando il suo corpo determinato ma anche fragile.

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2 Commenti

  1. Grazie Giacomo, faccio parte dell’esercito che ignora, cercando però di fare cordata con i pochi disposti a ricordarsene una volta saputolo, tentando di fare compagnia ai quasi nessuno che se ne dolgono.
    Fa male assistere a questo sassicidio.

  2. no, no, in realtà tutti noi ignoriamo moltissimo (anche tra gli addetti al settore, figuriamoci fuori), il disprezzo per l’ambiente comincia proprio lì, dal non considerarle cose importanti, mentre siamo tutti rivolti verso le tecnologie, quelle sì le conosciamo, quasi queste potessere bypassare le conoscenze e risolvere tutti i problemi; e l’agricoltura – proprio per il suo essere a cavallo tra spazi abitati/trasformati e “natura”, è paradgmatica di questo disinteresse (paradossalmente si sa di più sulla “natura incontaminata”, con i suoi animali fotoigienici…)

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giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016) e Baco (Exorma, 2019). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese.
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