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Spazio delle mie brame

di Giuseppe Dambrosio 

(è in uscita un libro di filosofia dell’educazione che tratta dello spazio-potere e della relazione tra l’ipercittà e l’elemento spaziale del dispositivo disciplinare scolastico. Di seguito l’introduzione al volume.)

Giuseppe Dambrosio, Spazio delle mie brame. Riflessioni sul potere, lo spazio e l’educazione diffusa,  Ed. Mimesis, 2023. Postfazione di Francesco Muraro

Lavorare per molti anni nel disagio educativo come insegnante ed educatore a scuola, nei centri di aggregazione giovanile e in progetti di educativa territoriale, mi ha portato a riflettere in modo critico su come ripensare il mondo dell’educazione formale e non formale a fronte dei cambiamenti epocali che attraversano la nostra epoca.

Grazie all’esperienza diretta, ricca di osservazioni e sperimentazioni sul campo, del disagio, nel corso del tempo, ne ho fatto il mio oggetto privilegiato di riflessione, cercando dapprima di inquadrarne le cause e successivamente delinearne una possibile risposta pedagogica, ma guardando ad esso come a qualcosa che sempre più si radicalizza nella quotidianità di tutti noi e non esclusivamente di chi viene categorizzato come “portatore di disagio” educativo, sociale, psicologico, sanitario, ecc., ossia coniugando il disagio educativo con quello sociale.

Avendo lavorato soprattutto con preadolescenti ed adolescenti ritenuti inadeguati, difficili, incontenibili, asociali, se non etichettati come veri e propri devianti − molti dei quali finiti nelle “prigioni chimiche” degli psicofarmaci, fuoriusciti dal sistema d’istruzione o caduti nelle maglie del sistema giudiziario minorile − mi sono chiesto inizialmente se la causa di così tanto disagio, generatore di emarginazione e devianza sociale, non fosse da ricercare soprattutto in quella “tecnologia disciplinare” oggi sempre più sofisticata e al contempo mascherata, che tende al disciplinamento dei corpi dei minori ed al limite al loro totale dominio, finalizzata essenzialmente all’omologazione al sistema di potere vigente.

Nel presente lavoro ho cercato dunque di sintetizzare la mia lunga ed eterogenea esperienza sul campo, avvalendomi della prospettiva analitico-riflessiva di ricerca e soprattutto dei concetti portanti proposti dal filosofo Michel Foucault, quale chiave interpretativa per descrivere le strutture e le dinamiche storico-materiali che presiedono i processi di formazione del soggetto, in un’ottica dialettica di teoria e prassi.

Di Michel Foucault ho condiviso in prima battuta l’idea che l’istanza di disciplina e di controllo che presiede al sorgere delle carceri si sia affermata − e perduri ancor oggi − anche in altre “istituzioni segregative” che nascono parallelamente in seno alla società occidentale: ospedali, manicomi, scuole, caserme. 1

Ossia l’idea che ancor oggi assistiamo purtroppo alle propaggini delle istituzioni totali in quelle ordinarie.

Particolare attenzione è stata rivolta dunque ai dispositivi disciplinari e di governo, ai processi di assoggettamento e di soggettivazione, nonché alle procedure di controllo, sorveglianza e contenimento che pervadono gli ambienti formativi, in primo luogo la scuola e più in generale l’intera città in cui essi sorgono e sono inglobati.

Il lavoro proposto, inserendosi nella prospettiva di una pedagogia critica, affronta dunque in generale l’importante e spinosa questione del potere in educazione ed in particolare indaga l’elemento spaziale del dispositivo disciplinare strutturale, per l’importanza fondamentale attribuitagli da Foucault stesso che ha definito la nostra esser l’epoca dello spazio.

La riflessione teorica procede criticando la struttura architettonica scolastica, definita statica, monolitica, plumbea e mortificante, in relazione alle trasformazioni che investono la città post-moderna, definita ipercittà − smart city neoliberista, città dei flussi, città-rete, città-fortezza, città-panico − proponendone una ridefinizione generale e profonda.

Emerge dunque con evidenza il tema della deriva securitaria e del controllo esasperante che negli ultimi anni ha completamente colonizzato l’ambiente scolastico, che procede di pari passo con l’esasperazione del controllo sociale, oggigiorno implementato dall’introduzione delle nuove tecnologie digitali antropometriche che hanno trasformato le nostre città in immense prigioni a cielo aperto.

A fronte dell’inquietante delirio securitario, legittimato da una certa idea di progresso sociale, viene proposta la radicale destrutturazione dello spazio disciplinare scolastico in virtù di un’educazione diffusa, sulla scorta in parte della rielaborazione della contro-educazione di Paolo Mottana e dell’ultra-architettura di Giuseppe Campagnoli, condensate nell’idea di città educante e più in generale degli apporti teorici della pedagogia libertaria, proponendone un rilancio ed una valida attualizzazione.

L’educazione diffusa viene qui proposta quale miglior antidoto per il superamento del disagio sociale ed educativo imperante e al contempo quale argine alla deriva securitaria e al controllo sociale totalizzante nella metropoli post-moderna.

Le riflessioni contenute nel saggio mettono necessariamente in relazione l’ambito pedagogico con quello politico in vista di un cambiamento radicale d’ordine educativo e sociale, poiché il fine della formazione proposto è il soggetto etico suggerito dallo stesso Michel Foucault 2, capace di sfuggire da ogni dipendenza e da ogni asservimento, in opposizione all’homo consumens. Quest’ultimo descritto come il docile lavoratore e consumatore della post-moder-nità, deprivato di ogni possibile immaginario collettivo e totalmente omologato al sistema di dominio neoliberista.

Un individuo sempre più plasmato dall’imperante pedagogia grigia e direttiva, disciplinante e normalizzante, che mira, servendosi degli apporti dei progressi tecno-scientifici, al mantenimento di pratiche di assoggettamento dei corpi e di de-soggettivazione delle persone, attraverso la sempre più deleteria robotizzazione delle azioni umane e l’informatizzazione della società, grazie alla fusione tra Rete Internet e modo di produzione capitalistico.

Le domande che attraversano indirettamente il saggio  ̶  A che cosa educare? come educare? perché educare?  ̶  non si pongono dunque in astratto, ma in stretto rapporto con l’attuale contesto storico-culturale, caratterizzato da una nuova concezione tecnocratica dell’anthropos, dalla selvaggia colonizzazione digitale che in pochi anni ha investito il mondo della scuola, del lavoro e delle istituzioni e dallo sfruttamento a opera del capitalismo avanzato.

Una condizione che ha dato luogo ed accresce quotidianamente nuove forme di disagio sociale e vede l’affermarsi di una società sempre più atomizzata, fluida, sostanzialmente composta da uno sciame di consumatori alienati che ronzano, insieme ma isolati, nell’illimitato spazio dell’ipercittà, sdoppiati tra identità reale e virtuale.

Per cambiare alla radice l’idea di educazione dei bambini e degli adolescenti risulta necessario dunque superare il concetto di scuola imperante, fatto di rigidi codici disciplinari, norme esasperanti, materie ossificate, interrogazioni, esami e valutazioni selettive agite in luoghi de-umanizzanti, spartani, fatiscenti, alienanti e totalmente mortificanti.

Un’educazione nel complesso performante e devitalizzante, che annienta nei minori l’autentica curiosità, il senso della meraviglia per la scoperta, il desiderio di conoscenza e nega lo sviluppo di un’autentica capacità critica nei confronti di una cultura della produttività, della prestazione e del successo.

“La scuola mi ha distrutto psicologicamente” denunciano i ragazzi, “i professori non si preoccupano per me”, “soffro di un disturbo bipolare diagnosticato a causa dello stress dello scorso anno scolastico”, sono solo alcune tra le migliaia di esternazioni da parte dei minori da sempre ridotti ad “allievi”, imprigionati dentro le quattro mura scolastiche ormai da più di un secolo, come denunciano Mottana e Campagnoli nei loro testi.

L’idea che pervade dunque l’intero libro è che l’educazione debba finalmente cessare di assumere il ruolo di annichilimento della libertà e del desiderio del soggetto, per assumere quello di insegnamento dei diversi modi attraverso cui l’individuo può praticare la libertà in armonia con gli altri, attraverso la “liberazione del proprio corpo” e non “dal proprio corpo”. Liberazione che necessita della possibilità di dar luogo ad un apprendimento a contatto con il mondo reale, con le cose e le persone, opportunamente mediato da soggetti pregni di autentica sensibilità pedagogica, in netta antitesi con la nuova idea di formazione dilagante che si vorrebbe imporre dall’alto, quella della DAD e della DDI, che struttura nuove identità di connessione addestrate ad una nuova forma di obbedienza a distanza.

I minori risultano oggigiorno quanto mai assoggettati, sottomessi e imbrigliati che in passato, perché dal “sorvegliare e punire” di foucaltiana memoria, si è giunti al “controllare e prevenire”, patrocinato da quella ragione “strumentale” – di cui argomentavano Horkheimer e Adorno – al servizio del sistema totale di dominio.

Quella che attualmente si presenta ai nostri occhi è una nuova forma di potere, inedita rispetto al passato, che sta progressivamente colonizzando anche il mondo scolastico e fa presagire i soggetti in formazione vengano silenziosamente e meccanicamente sempre più annientati dentro, attraverso tecniche affinatissime e apparentemente indocili di addestramento che inducono alla propria auto-sorveglianza ed auto-punizione. L’educazione diffusa, pubblica e ovviamente gratuita personalmente intesa, farebbe da contraltare al tentativo di relegare la formazione all’interno delle mura domestiche nella forma dell’e-learning, finalizzata all’addomesticamento del futuro home working ed al contempo porrebbe un sicuro argine al delirio securitario dilagante, che ha fatto sì le nostre città si siano progressivamente trasformate in veri e propri panottici digitali.

La riflessione guarda infine alla necessaria interazione che dovrebbe sussistere tra scelte politiche ed istanze pedagogiche e per far ciò si avvale del pensiero del pedagogista venezuelano Luis Bonilla- Molina, che nel saggio Apágon Pedagógico Global, afferma le pedagogie pericolose per il capitalismo esser quelle che interpretano i fatti educativi nella loro complessità, che mettono l’aula scolastica in relazione con la dimensione collettiva, con l’ambiente circostante, col progetto Paese e il contesto geopolitico internazionale.

 

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NOTE
  1. La medesima istanza presiederebbe, secondo Michel Foucault, persino alla nascita delle scienze umane, che sorgono nello stesso periodo con l’intento di studiare il comportamento degli individui e di controllare i meccanismi che lo determinano. I suoi studi hanno dimostrato inoltre come le scienze umane siano diventate tali grazie alla diffusione capillare delle pratiche esaminatorie, in ospedale come a scuola. Per un approfondimento si rimanda ai saggi: “Storia della follia nell’età classica” (1961), “Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane” (1966) “Sorvegliare e punire” (1975).
  2. Foucault intravede in quella che definisce cura di sé, la possibilità di un nuovo processo di soggettivazione che si concretizza nell’esercitazione di pratiche di libertà – tecnologia del sé – che hanno la finalità di comprendere la forza vitale e la capacità di autodeterminarsi come corpo. Il nuovo soggetto che ha la possibilità di profilarsi all’orizzonte, viene definito etico, in quanto capace di determinazione, di cura, di comprensione dei propri limiti, di dominio delle proprie passioni, di gestire relazioni intra e interpersonali complesse.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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