Non-traduzioni novecentesche

di Romano A. Fiocchi

 

Luca Milite, Traduzioni di autori vari. Romanzo,
Cooperativa Italiana Librai.

Il ventottenne che ha scritto questo romanzo, pubblicato nel 1990, ora ha sessantun anni e insegna lettere in un liceo. A dire il vero, nel 2007 ha fatto uscire anche un altro piccolo ed elegantissimo libro: Fiabe di città, edito da Sedizioni. Poi nulla più. Un vero peccato, perché già questo primo volumetto dal bizzarro titolo Traduzioni di autori vari, che traduzioni non sono poiché si tratta di un romanzo, è qualcosa di brillante e di geniale, spassoso e profondo, letterario e scorrevole. E – che di questi tempi non è poco – davvero ben scritto. Perché al centro di tutto non sono i personaggi, tanto meno la storia in sé: autentica protagonista è la lingua, la sua bellezza, i suoi equivoci, le sue ambiguità, i suoi giochi semantici, in una parola: la sua plasticità. Se da un lato l’ironia e il sarcasmo affiorano prepotenti, talvolta in veste goliardica (come si conviene ad un autore all’epoca poco più che studente), dall’altro c’è questo rispetto religioso dell’italiano letterario, elegante e preciso, anche quando – e succede spessissimo – la storia volge in parodia della grande letteratura. Ecco, per fornire un esempio, un breve brano, compiuto nella sua dimensione:

DE CONVERSIONE ABBATIS FARINAE

In una caverna sulla cima di un colle riarso dal sole che si innalzava al centro di una vasta distesa di sterpi secchi e ritorti su di un altopiano desertico e lunare circondato da una foresta pietrificata in cui l’occhio e la mente si perdevano, in questi luoghi, dove ora un fiume irriga una fertile pianura al centro della quale sorge la città di Paperopoli, viveva l’abate Farina, un santo eremita.

Egli s’alzava all’alba e cantava le lodi del Signore fino a sera. Si cibava di locuste e beveva il latte di una capra. L’eremita, la capra e le locuste erano i soli abitatori di un paesaggio senza fine.

Un giorno il demonio andò a tentare il sant’uomo.

Disse il demonio: “Se lasci questo luogo e mi segui avrai potere, onori e ricchezze, e godrai di tutti i piaceri dello spirito e della carne.”

L’eremita rispose: “Va bene, vengo subito.”

E così l’eremita e il demonio camminarono insieme verso l’orizzonte, sparendo in lontananza contro la luce del tramonto.

L’abate Farina – che fa ovviamente il verso all’abate Faria, personaggio inventato da Dumas padre – è il personaggio principale del libro. Le sue vicende si intrecciano con quelle del personaggio dello stesso autore, Luca Milite, ma soprattutto con le disavventure del brigadiere Capperò, del capitano Galante, comandante la legione dei carabinieri immaginari, e di Kwa Too Fong, il più famoso idraulicorùmeno. Tutti i personaggi entrano ed escono da manoscritti ritrovati, da note al testo, da storie che si replicano l’una dentro l’altra, in una struttura che assembla vari generi e forme letterarie: dal giallo alla novella, dalla prosa al sonetto (Rime dell’abate Farina). È sufficiente un esame del Sommario per comprendere la ramificazione strutturale di questo singolare testo. Per prima cosa la tradizionale suddivisione in “libri”: Libro primo, Paperopolis e Libro secondo, la palazzina signorile. Il Libro primo, scritto a quattro mani dall’abate Farina e dal brigadiere Capperò, comprende: La realtà romanzesca (di Luca Milite, con Note dell’abate Farina), I racconti di Paperopoli, il romanzo-saggio La vita quotidiana a Paperopoli ai tempi dell’abate Farina, Pepito e Rodrigo (traduzione in spagnolo dell’immortale capolavoro della letteratura russa Delitto e Castigo di Feodor Dostoevskij del prefetto de Manteca, volta in lingua italiana dall’abate Farina), Rime dell’abate Farina (con Nota al testo di Luca Milite). Il Libro secondo, scritto dall’idraulicorùmeno Kwa Too Fong (a cura di Luca Milite), è suddiviso in undici capitoli: il primo è privo di titolo, gli altri riportano la numerazione dei piani della palazzina signorile (Primo piano, Secondo piano, ecc.), salvo i tre capitoli Le insidie della traduzione, Portineria e L’ascensore di destra.

I dialoghi e l’intero testo sono disseminati di citazioni parodistiche più o meno velate, talvolta anche solo a livello di evocazione stilistica: dai richiami foscoliani («la noia, ultima dea, non rifugge dai morti»), agli spagnolismi gaddiani («il palazzo de Manteca»), ai poemi cavallereschi («Molto arrabbiato è il brigadiere, brandisce la spada, che ha nome Giacomini Silvana, glie la diede Lucio, imperator romano, quando emigrò nel Montana»), alle (false) traduzioni in spagnolo di Delitto e castigo, al fiume «Stigino», all’atmosfera kafkiana del cacciatore Gracco («D’estate le acque del lago evaporavano lentamente portando nelle case i pensieri degli annegati; si condensavano sui soffitti di pietra e la notte scendevano sul viso degli abitanti addormentati, applicandovisi come una maschera, ne rubavano il respiro ed entravano nei loro sogni»), al tema pirandelliano dell’esclusione dalla vita civile e sociale quale parodia de Il fu Mattia Pascal («Sono morto da più giorni ormai, ma preferisco, piuttosto che scendere nella tomba oscura, andare in giro, fare cose, vedere gente, vivere la mia vita»), sino alle variazioni sul tema dei venticinque lettori manzoniani: «Pensino ora i miei venticinque Lettoni quale fu lo stupore dei due e di quali casi straordinari sia piena la letteratura d’oggi», che più avanti diventano: «i miei venticinque Lapponi», «venticinque lebbrosi», «venticinque labbroni», e così via.

L’apparente assurdità delle vicende narrate ha la solidità logica di certe situazioni del teatro beckettiano (e penso soprattutto a Finale di partita) che scaturiscono dal linguaggio stesso. Eccone un esempio: alla domanda ‘Vi sono piaciuta?’ di Mitzi Papalla, attrice di teatro, l’abate Farina risponde così: «Piaciuta? Ma siete stata superba! Ma che dico, solo superba? Ah, Mitzi, siete stata superba, invidiosa, avara, accidiosa, ladra e bugiarda!» Del resto l’assurdità è logica proprio perché, come sostiene il capitano Galante, la realtà non lo è: «La struttura della realtà è passionale, non logica; l’investigatore non deve essere deduttivo, ma affettuoso e sensibile; le persone superficiali pensano che la realtà funzioni secondo leggi razionali e logiche, le persone un po’ più intelligenti e riflessive sono convinte che tutto sia governato dal caos più tenebroso e intricato».

L’abate Farina, nel suo ruolo di catalizzatore della narrazione, fa parte di questo secondo gruppo di persone o, come dice l’appuntato a Capperò, «riunisce in sé le qualifiche di macellaio e di prete cattolico». Solo con lui il brigadiere Capperò può quindi parlare «del crollo del gran teatro del mondo». Solo con lui la Filosofia può presentarsi in forma di una donna bellissima vestita di bianco, tastargli il polso al suo capezzale, e consigliarli qualche buon libro da leggere (ennesima citazione parodistica, questa, del De consolatione philosophiae). Cosa intenda poi l’appuntato con la sua classificazione – macellaio e prete cattolico – viene presto spiegato dal capitano Galante durante una conversazione con il brigadiere: «Amico Capperò, al mondo vi sono tre specie di uomini: i preti, i macellai e i carabinieri. I primi hanno una risposta per ogni domanda, i secondi non si pongono domande, noi infine ricerchiamo la verità giorno per giorno scovandone i frammenti che l’eterna tragedia dell’uomo sparge per ogni parte e ricomponendoli pazientemente e, bada bene, con amore».

Milite riesce a sviluppare una scrittura ad “effetto Escher” (espressione che mi sembra più puntale, in questo caso, di un semplice “effetto Droste” o di un “mise en abyme”), sia a livello ottico sia a livello narrativo vero e proprio. Straordinaria è la descrizione del famoso palazzo de Manteca, a cominciare dalla strada che si inerpica sulla montagna, la cui distanza dopo una settimana di cammino è il doppio di quella già percorsa. Quando si arriva allo spiazzo dove si erge il palazzo, ci si accorge che l’acciottolato è composto da massi erratici. Per cui si deve camminare giorni e giorni tra i massi, senza avvicinarsi mai, per capire che non ci si trova in una piazza ma in un’immensa pietraia, e che il palazzo è un edificio lungo chilometri e alto centinaia di metri, corroso dal passare dei secoli. In uno dei crepacci che si aprono sulla superficie della facciata, come in una evocazione collodiana, vive una famiglia di formiconi. Ma, al contrario di Collodi, qui torna l’assurdità generata dal linguaggio: «Il babbo lavorava in banca, la mamma insegnava lettere in un liceo, il bambino era ancora piccolo. Le giornate passavano liete per la famigliola, quando il babbo s’innamorò di una cantante di tabarin; una sera torno a casa e disse alla moglie: “Cara, non ti voglio più bene”. Ella lo guardò come un occhio di moglie comprensiva e disse: “Non si dice più bene; dovresti dire piuttosto: non ti voglio meglio”».

L’effetto Escher deforma anche il ritmo temporale della narrazione. Dopo la morte del signor de La Palice, «estremo garante della consequenzialità del mondo e ultimo amante della logica», freddato da un colpo di archibugio sotto le mura di Paperopoli, comincia a diffondersi per tutta la città la presa di possesso della realtà da parte dell’assurdo. Le eccezioni non confermano più le regole, le chiavi non aprono più le serrature, nelle sartorie qualche abito fa il monaco e qua e là si notano delle lacerazioni nel tessuto spazio temporale. Nella cantina dell’abate, poi, viene a formarsi una porta che conduce non in una stanza ma in un tempo diverso: «Chiunque avesse attraversato quella porta si sarebbe trovato nello stesso luogo, ma un anno dopo. Ripetendo l’operazione sarebbe ritornato al tempo regolare. Unico inconveniente: la possibilità di incrociare un altro se stesso che arriva nel tempo attuale partendo dall’anno prima, oppure di arrivare all’anno dopo incrociando un se stesso un po’ invecchiato che si appresta a passare all’anno dopo ancora, senza contare gli imbarazzanti incontri per la strada, che non si sa mai se salutarsi o no».

La Nota al testo del personaggio Luca Milite, che chiude il Libro primo, porta all’estremo il paradosso temporale alla Escher:

«L’abate Farina, nel periodo più travagliato della sua vita, durante quella crisi d’ispirazione che lo colse subito dopo la morte, pensò di appropriarsi di un successo altrui, utilizzando quel passaggio nel futuro situato nella sua abitazione.

Giunse quindi nell’anno dopo, quando vide in una vetrina di una libreria del centro il best seller del brigadiere Capperò: Paperopolis. Acquistato il libro, tornò al presente, quando lo ricopiò, apponendovi il proprio nome. Poi si recò dall’editore, ma sull’autobus che lo portava in centro un ladro gli sottrasse il manoscritto; il ladro quel giorno stesso fu arrestato dal brigadiere Capperò, che recuperò anche la refurtiva, ma, dopo una breve lettura, preso dal demone dell’ambizione, pensò di non restituire il manoscritto e di presentarlo all’editore col proprio nome. Così fece, il libro piacque, e l’anno dopo era un best seller.

Ma chi fu l’autore del libro? Non fu l’abate Farina, perché lo comprò in libreria e lo ricopiò; non fu il brigadiere Capperò, perché ne venne in possesso casualmente e se ne appropriò.

Mirabile cosa, un libro scritto da nessuno e plagiato da due, uscito e quasi incarnatosi nel sublime mondo della letteratura senza l’ausilio di umano intelletto creatore! Vedano bene i miei venticinque labbroni di quali casi sia piena la letteratura di oggi».

Insomma, il Libro primo, Paperopolis che il lettore ha letto sino a questo punto non è stato scritto da nessuno.

In tutto il romanzo i paradossi temporali si ripetono, sempre carichi di quell’ironia sorniona che caratterizza la scrittura di Milite. Un altro esempio: il ritrovamento della lettera scritta dal prete giovane a se stesso anziano, redatta come le catene di Sant’Antonio, porta il parroco novantaquattrenne ad impiccarsi con la corda della campana.

Effetto Escher anche a livello di struttura: il terzo capitolo del Libro primo, ossia Pepito e Rodrigo, che è in realtà la traduzione spagnola di Delitto e castigo del prefetto de Manteca tradotta in italiano dall’abate Farina, contiene anche la traduzione spagnola di Kwa Too Fong, il più famoso idraulicorùmeno, dal titolo Fulano, zutano e metil propano, volta in italiano dal capitano Galante e rinvenuta nel cassetto di Rodrigo (Rodrigo è un tavolo da soggiorno in legno di quercia). Pepito stesso legge la prima parte, Fulano, mentre la seconda, Zutano, è rinvenuta dalla sorella di Pepito su un foglietto sgualcito all’interno della sua borsetta e quindi da lei letta. La terza parte, Metil propano, viene riferita come storia veramente accaduta dal brigadiere Capperò.

Assurdo e paradosso generano tutta una serie di storie, una dentro l’altra. Dalla disastrosa rivolta della classe operaia della raffineria di Manzanilloföldvàr, seconda città dello stato, centro industriale e commerciale dove è particolarmente fiorente l’industria della lavorazione della guttaperka, ai fatti inquietanti del Libro secondo, la palazzina signorile (probabile citazione de La vita istruzioni per l’uso di Perec), con i capelli che crescono da soli una volta staccati dalla testa, il cane nero che si dissolve giorno dopo giorno come un ricordo, il bambino che piange sino ad allagare il terzo piano e richiedere l’intervento dell’abate Farina e dell’idraulicorùmeno, la nostalgica storia dell’ascensore di destra, il formidabile e grottesco gran ballo dei ciechi, il quinto piano con lo studio dell’ “avvocato suo” e l’ennesimo manoscritto ritrovato: «La Mano Morta / Rime dell’Indiziato, accademico della Libertà Provvisoria, per la prima volta stampate, onde potranno i giudiziosi lettori conoscere il valore e l’ingegno dell’avvocato suo. Con dotte, ed acutissime annotazioni dell’istesso avvocato suo. Con privilegi, in Pavia / MCMLXXXIX». Naturalmente le annotazioni smentiscono di volta in volta il più ovvio doppio senso.

Un romanzo, questo di Luca Milite, che a distanza di trentatré anni dalla sua uscita in sordina meriterebbe una riedizione. Se non altro per le inverosimili sei righe dell’incipit: «Il sole era un ballerino sovietico fuggito all’ovest per amor di belle donne e libertà; benché percorresse ormai il viale del tramonto i raggi della sua fiammante bicicletta riuscivano a rendere incandescenti i grossi volumi d’acciaio della Fratelli Fabbri Editori filtrando attraverso i finestroni della civica biblioteca di Paperopoli».

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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