Sotto il cielo del mondo

di Flavio Stroppini

Il giorno in cui nacqui scendeva un caldo vento da nord. Nessuno riusciva a raccapezzarsene: “Dal nord arriva il freddo” dicevano. Ma a quel vento non fregava niente di cosa pensassero gli esseri umani. Lui soffiava come gli pareva.
Il giorno in cui venni al mondo mia madre morì. Fu così, come gemmano i rami dopo l’inverno: prima la morte e poi la vita. Mia madre morì che ero a mezzo percorso. I piedi nel mondo e la testa ancora dentro di lei. Mi tirarono fuori a forza. Piansi per cercare aria. “Eccoti qua” dissero. Nessuno pensò a dire “Benvenuto!” oppure “Buona vita!”, d’altronde a chi sarebbe potuto importare di quel bimbo nato da madre morta e padre disperso? Mi tagliarono il cordone senza troppe celebrazioni. “Taglia che dobbiamo staccarlo dalla madre” dissero. Così fecero. Semplicemente mi tennero in vita, appena nato da una madre morta.
Quella stessa notte undici vacche del Giovanni si suicidarono gettandosi in un dirupo sotto l’alpe Aspra. Le trovarono il mattino seguente, accatastate l’una sull’altra a formare una collina di carne e ossa. Il Piero, che fu il primo ad arrivare sul posto, mi raccontò che con i raggi di sole di taglio che sbattevano sull’ammasso, quello sembrava formare quasi un volto. Le zampe ritte in aria i capelli, una schiena la bocca ghignante e due o tre musi fusi assieme dall’impatto, formavano un naso bitorzoluto e un paio di buchi del culo erano gli occhi. “Un cazzo di diavolo” disse il Piero.
Il giorno in cui venni partorito di mio padre nessuno ebbe notizia. All’ospedale del capoluogo c’era zia Ines, la sorella del disperso. Fu lei che mi abbracciò come una madre. Fu lei che mi diede il nome, dato che mia madre quello suo se l’era tenuto segreto. Mi chiamò Alvaro, come un cantante girovago che le aveva fatto girare la testa quando era appena diventata donna. Quell’Alvaro si era presentato al paese pochi giorni prima della Festa di San Valeriano, il 14 di aprile. In paese si stava preparando la celebrazione del patrono. Era tutto un brulicare di persone intente agli addobbi, alle luminarie per la processione notturna, all’allestire la cucina da campo nel cortile dell’oratorio. Ognuno con il suo mestiere se ne stava indaffarato ad abbellire quella manciata di strade che chiamavamo generosamente centro paese. Nei giorni di San Valeriano non litigava nessuno, era questo il grande miracolo. Già, quei giorni la natura rinsecchita dall’inverno germoglia festeggiando la primavera e anche gli uomini ogni anno ritrovano un poco di felicità. Me lo sono sempre chiesto come il festeggiare un martire possa farci stare bene. Chissà cosa avrebbe detto il nobile patrizio romano Valeriano di tutto questo? Avrebbe mai pensato di ritrovarsi onorato, quasi due millenni dopo, da un gruppo di montanari? Chissà quanti di questi montanari, per pochi giorni all’anno così religiosi, avrebbero avuto la forza di Valeriano di non toccare la moglie sin dalla prima notte di nozze poiché protetta da un angelo del Signore? Di sicuro non la ebbe quell’Alvaro girovago e cantante che nel pieno della processione si portò la zia Ines dentro al fienile e con lei si divertì per qualche ora. Poi sparì, proprio come spariscono tutti gli uomini della famiglia Giacometti. Certo, quel musicista non lo era, né famiglia né tantomeno uomo. La zia si trovò con un bimbo nel ventre e questo le rovinò la vita. Il bambino non arrivò al settimo mese che se ne volle uscire, e come è per i destini nati segnati, non resistette nemmeno il tempo di vedere sua madre. Emise solo un grido e poi se ne andò. Zia Ines non ebbe nemmeno il tempo di dirgli “Amore”. In paese non la volle più nessuno, se non per una notte. Questo le appiccicò una brutta reputazione che la fece aggrappare ai Santi e alle loro storie. Io ho sempre pensato che avesse voluto chiamarlo proprio Alvaro quel bambino e quando la zia Ines si ritrovò me in braccio fu come se le avessero dato una seconda possibilità. Come se non bastasse, a tutto quel dolore si aggiunse la morte della cognata e fu proprio quella la goccia che fece traboccare il vaso. Zia Ines il dolore lo buttò via tutto e decise di non volerci avere più niente a che fare. Si prese cura di me e si dedicò ai Santi. Tutti i Santi tranne uno, Valeriano. Quando scoprì che quello era il Santo invocato contro le tempeste le venne quasi un colpo e maledì quel fratello che da quando aveva ingravidato la moglie non si era più fatto vedere. Mio padre.
Fu come se la vita mi avesse insegnato subito come va il mondo. Respirai, mangiai e crebbi senza pensare troppo all’amore di madri e padri. Mi convinsi che al mondo ci fossero solo le cose che puoi toccare con mano. Se ti scotti, ti geli o ti feriscono, ecco che esistono e tutto il resto non conta. Per me c’era zia Ines e quel paese aggrappato alle Alpi.

NdR: questo testo è il bellissimo incipit del romanzo “Sotto il cielo del mondo“, del ticinese Flavio Stroppini, pubblicato da Gabriele Capelli Editore (2020)

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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