La solitudine pensante della lettura


di Romano A. Fiocchi

Francesco Permunian, Tutti chiedono compassione,
Editoriale Scientifica, 2023

È una scena tra il grottesco felliniano e l’apocalittico di Bergman del Settimo Sigillo. Su una strada bianca di polvere avanza un grosso carro trainato da un cavallo bardato a lutto. L’aria è infuocata. Il carro procede a sobbalzi con un lamento inquietante delle ruote sgangherate. Lo guida un pagliaccio travestito da angelo equestre, da dietro le spalle gli sbucano due ali di cartapesta. Accanto a lui, una sorta di segretario con i capelli lucidi tirati all’indietro e due baffetti alla Amedeo Nazzari, un lapis infilato dietro l’orecchio «come certi alimentaristi di paese». Il carro è stipato di ombre: i morti della lotta partigiana in Polesine. Ebbene, di tutto il libro credo che sia questa la scena che rimane più impressa nella memoria visiva del lettore. Così come del Don Chisciotte, nonostante le miriadi di disavventure narrate in diverse centinaia di pagine, il lettore ricorda la scena dei mulini a vento scambiati per giganti.

E qui è il primo aspetto curioso di Tutti chiedono compassione: la scena del carro dei morti della lotta partigiana appare nella Seconda Parte, che inizia ben oltre i due terzi del libro e si chiude con l’Epilogo appena trentasei pagine dopo. Aspetto curioso anche la collocazione di un incipit in seconda battuta: l’attacco narrativo non si trova in prima pagina – dove invece Permunian introduce il concetto di rovine, frammenti e calcinacci con cui, come Eliot, puntella la propria Terra desolata – ma si nasconde all’inizio della seconda:Francesco Permunian

«La contrada in cui sono nato contava sì e no una decina di case, tutte gonfie di umidità e corrose dal vento salmastro che proveniva dal mare. Piccole case più simili a stamberghe che, viste da lontano, a malapena si stagliavano sopra una landa di campi laggiù nel Polesine. Case in cui oggi si odono ancora, sul far della sera, i rintocchi di campane suonate in altri tempi. E per altre persone… Simulacri di focolari dove, da tempo immemorabile, non entra più anima viva e solo pernottano il gelo e l’oscurità. Luoghi in cui l’odore della solitudine regna sovrano nonostante, fino a non molti anni fa, risuonassero i clamori della giovinezza».

Perché dunque spostare due baricentri del testo in queste posizioni? Permunian dà la colpa alla sua prosa frammentata, «infarcita da materiali di scarto, da mattoni e mattonelle sbrecciate palesemente inadatte per costruirci un solido romanzo». Ma il suo scopo è un altro: prendere il lettore per mano, accompagnarlo nel suo mondo grottesco, mostrargli la verità, la vita, la morte, ma anche l’idiozia degli uomini, le loro insulse ambizioni, le loro fisime, e all’improvviso stordirlo con immagini di violenta bellezza letteraria. È una scrittura emotivamente altalenante, con invettive terribili alternate a picchi di prosa lirica e descrittiva. Il tutto edificato con cura maniacale perché Permunian non è scrittore che lascia spazio alla casualità, anche la singola parola è soppesata e valutata nella sua precisione semantica e musicale, da poeta. È infatti proprio dalla poesia che è incominciata la sua attività letteraria (Il teatro della neve, Arlecchino notturno, Un lungo sguardo silenzioso, ecc.), per poi espandersi nella pianura di una prosa vigorosa e travolgente (La Casa del Sollievo Mentale, Costellazioni del crepuscolo, Il gabinetto del dottor Kafka, Il rapido lembo del ridicolo, Giorni di collera e di annientamento, Elogio dell’aberrazione, per citarne qualcuno). Tanto meno è lasciata al caso la scelta dei titoli, particolarissimi, come si arguisce dai soli esempi qui sopra.

Francesco Permunian in uno scatto di Pino Mongiello

Il libro, si diceva, è diviso in due parti: la prima, uno zibaldone dove affiorano «microstorie» per lo più bizzarre ma autentiche, personaggi strampalati, esponenti della «romanzeria nazionale», ballerine di flamenco, luoghi magici (le cartiere di Toscolano Maderno), figure storiche quali Teofilo Folengo e Bernardo da Chiaravalle, esilaranti reperti burocratici come il Regolamento Scolastico del Tirolo del 1909, scrittori e poeti conosciuti di persona o attraverso letture (Parise, Cioran, Bruno Schulz, Sándor Márai, Gadda, Manganelli, Kafka, Borges, Ceronetti, Zanzotto, Maria Corti, Pietro Citati), fotografi del calibro di Lisetta Carmi, Mario Giacomelli, Mario Dondero, tutto questo in forma di «realismo autobiografico». La seconda parte, L’angelo di Dondero, ricostruisce invece il peregrinare che fece Permunian in compagnia della Leica di Mario Dondero tra i luoghi della Resistenza polesani, dove pullulano i fantasmi dei cittadini inermi trucidati dai tedeschi e dalle Brigate Nere della Repubblica Sociale di Salò. Ne elenca quarantadue, nome per nome, indicando l’età – i più giovani appena quindicenni – e la provenienza. Sono le vittime dell’eccidio di Villamarzana. Per non dimenticare. Perché quelle ombre, insieme a molte altre, continuano ad aggirarsi per le strade polverose e abbandonate del suo amato Polesine.

Scrittura dunque permeata di impegno civile, quella di Permunian, non solo nell’evocazione dei nomi da scolpire nella memoria collettiva, ma anche nel denunciare l’imbecillità del nostro tempo:

«L’odierna assurda e folle monomania di stare sempre sui social. Sembra quasi che tutti abbiano qualcosa d’importante da dire, qualcosa di necessario da comunicare al mondo intero. Anche se poi tutti, o quasi tutti, vogliono soltanto raccontare i fatti e i misfatti della loro vita privata. E più tale esistenza è per loro noiosa e tapina, oltreché disgustosa e miseranda oltre ogni limite, più ne parlano e straparlano chiedendo insistentemente attenzione come dei mendicanti che chiedono la carità per strada. Lungo le gelide e infinite strade del web. In realtà, tutti chiedono comprensione. O forse, alla fin fine, “tutti chiedono compassione”».

Con lo stesso rabbioso sarcasmo denuncia l’impoverimento culturale del settore che avrebbe proprio il compito di elevare la cultura:

«È vero, i libri vanno male ma i festival sui libri vanno bene. Perché ricordano la messa o il circo. Inscenare libri è figo, leggerli è pesante. In fondo restiamo un paese di cultura orale se non visiva nel senso delle figure, che ama l’ammuina e la festa patronale, la battuta o solo la pantomima, ma non la solitudine pensante della lettura».

* * *

Sono temi che, in fondo, lo scrittore di Cavarzere affronta da sempre. Vorrei però soffermarmi su due caratteristiche intorno a cui si sviluppa l’idea letteraria di Permunian. La prima si avverte leggendo semplicemente qualche riga di una pagina a caso, aprendo Tutti chiedono compassione o qualsiasi altro suo libro: la potenza della lingua. Una lingua, come ebbi occasione di scrivere altrove, pulita e tagliente, ruvida e colta, quasi dantesca, di quel Dante – per intenderci – che passa con disinvoltura da espressioni come “Taide è, la puttana che rispuose al drudo suo…” o quella del diavolo “che avea del cul fatto trombetta”, ai termini colti delle citazioni latine ed ebraiche, alla scena amorosa di Paolo e Francesca e alle visioni celestiali del paradiso.

La seconda è un’astrazione che si percepisce solo leggendo più libri di Permunian: il progetto globale della sua opera, di cui ogni libro è un particolare tassello. Come se tutta la sua produzione fosse un unico libro, un libro assoluto che costruisce il mondo visionario e maledettamente reale di Permunian. Un progetto globale, dunque, che si muove in piena libertà e non conosce limitazioni editoriali. Le opere di Permunian sono infatti uscite per un numero incredibile di editori, tutti dotati di un’impeccabile veste grafica: Aragno, Nutrimenti, Meridiano Zero, Quodlibet, Diabasis, Il Saggiatore, Oligo, Rizzoli, Ponte alle Grazie, Edizioni Theoria, Ronzani, Italo Svevo, Chiarelettere. Questa è la volta della napoletana Editoriale Scientifica, che lo ospita nella collana S-Confini diretta da Fabrizio Coscia, con illustrazioni dell’artista giapponese Furuya Korin applicate in prima di copertina e nella rispettiva bandella. Una raffinatezza grafica.

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gianni biondillo
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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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