Teognide – Elegie – Libro I, vv. 1-52

trad. di Daniele Ventre

Figlio di Leto, signore, rampollo di Zeus, di te mai,
   sia che cominci o finisca, io mi dimenticherò,
ma di continuo, al principio e da ultimo e anche nel mezzo
   ti canterò: però ascolta, offrimi prosperità.
Quando, o sovrano Radioso, nei pressi del mare accerchiante
   Leto signora, la dea, lei, che a una palma serrò
le agili braccia, ebbe te, bellissimo fra gli immortali,
   tutta d’ambrosio profumo ecco che Delo ne fu
colma, anche immensa qual è: ne sorrise, immane, la Terra,
   Mare profondo di bianca onda, lui pure gioì.

Ah, cacciatrice, di cui fu esperto Agamennone, a Troia
   mosso con agili navi, odimi, figlia di Zeus,
sviale da me, te ne prego, Artemide, le orride Chere!
   Sì, questo è poco per te, dea, però è tanto per me.

Muse e voi Grazie, voi, figlie di Zeus, se alle nozze di Cadmo
   foste presenti, se un bel canto spiegaste voi mai,
“Quello che è bello, è gradito, quel che non è bello, è sgradito”
   questa parola sul labbro agli immortali passò.
Cirno, nel mio poetare a questi miei versi un suggello
   si aggiungerà. Se rubati, altri non più sfuggirà
e non li permuterà col peggio in presenza del meglio,
   anzi ciascuno dirà: sono elegie, queste qui,
del Megarese Teògnide illustre fra gli uomini tutti”.
   Certo non posso piacere a tutti quanti in città,
no, Polipaide, non c’è da stupirsene: Zeus in persona,
   non piace a tutti, anche lui, o faccia piovere o no.

Per il tuo bene discerno: ti consiglierò tutto quanto,
   quel che dai nobili anch’io, giovane ancora, imparai.
Resta prudente: per gesti spregevoli, per ingiustizie,
   privilegi, virtù, lusso non prendertene.
Dallo così per inteso, e perciò con uomini vili
   non mescolarti, non tu, sempre fra i nobili sta’
e fra di loro anche mangia e bevi, e così fra di loro
   siedi, e compiacilo chi grandi ricchezze ne ha.
Apprenderai nobiltà dai nobili: se con gli indegni
   ti mischierai, guasterai anche l’ingegno che è in te.
Questo considera, unisciti ai degni, e un domani dirai
   che per gli amici, i miei, buoni consigli io ne do.

Questa città, Cirno, è gravida, un uomo a domare la nostra
   ostica soverchieria temo lo partorirà.
I cittadini, sì, ancora lo sono assennati, ma i capi
   l’hanno rivolta a cadere in grande meschinità.
Cirno, nessuna città mai la persero gli uomini degni,
   quando agli indegni però soverchieria piacerà,
loro corrompono il popolo e lecito a illeciti dànno,
   solo per beni privati e per potere, né avrai
di che sperare che tale città duri stabile a lungo,
   anche se adesso riposa in grande tranquillità,
solo che siano graditi ai meschini tali guadagni,
   beni che a calamità pubblica seguitano.
Lotte ne nascono, eccidi endemici fra i cittadini:
   ah, che a una tale città, non piaccia un despota mai!

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1 commento

  1. Un miracolo, m’imbatto per caso in questi versi, li comincio a leggere, mi fermo, ho sentito una musica, ricomincio ad alta voce, e si formano spontaneamente – in italiano! – esametri e pentametri, si alternano, un distico elegiaco che scivola via con estrema naturalezza, come se fosse nato per la lingua di Dante. Un vero gioiello! Grazie…

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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