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Un natale

di Paola Taboga

Sono solo le tre del pomeriggio del 17 dicembre ma, per Elide, anche questo Natale è passato.

Nel rassettare la cucina, prova un sollievo che – frantumandosi nell’aria – scende come una polverina leggera e si deposita ovunque, soprattutto sulle sue spalle chine mentre lava i piatti. Una stanchezza di mille Natali che sente annodarsi in un cerchio stretto intorno alla testa.

Appena finito si sdraierà sul divano. No, anzi, proprio sul letto.

 

Da quando suo figlio Roberto ha preso in affitto la casa in montagna, lei si arrabatta con quel pranzo anticipato, perché lui parte con la famiglia sempre prima di Natale. Per i regali, oramai, ha trovato la soluzione perfetta.  A Roby compra ogni anno un bel maglione di cachemire. Per le nipoti, visto che con tutta quella tecnologia non ci capisce più niente, da qualche anno opta per le buste coi soldi. E così anche per la nuora: anni fa ha provato a prenderle qualche piccolo gioiello, ma era chiarissimo che non le piacevano per niente. È una donna intellettuale, molto strana anche nell’aspetto: con quel profilo affilato e adunco sembra una specie di volatile esotico e decorativo. E ha gusti difficili in tutto, ha voluto una casa completamente bianca, nera e di vetro. Non si fida di nessuno, e non le ha mai lasciato le bambine nemmeno quando erano piccole, piuttosto spendeva miliardi in baby-sitter. Elide non si è mai lamentata, per carità, ma in cuor suo si è sempre chiesta come abbia fatto il suo Roby a scegliersi una così.

 

Quanti avanzi! Ma perché prepara sempre così tanta roba? Forse può surgelare qualcosa. La nuora non vuole mai niente da portare a casa e non si capisce proprio perché: a Roby piace così tanto mangiare… ma lei tiene tutti a stecchetto. E Roberto, che era uno robusto, adesso sembra quasi rinsecchito. Sarà che lavora tanto, è un medico meraviglioso.

 

Elide ha sempre contato su quel suo ragazzone. E anche se sa che oramai è inutile, gli chiede sempre, ogni Natale, di provare a sentire Giulia. Ma oramai non vuole nemmeno sentire parlare di sua sorella. Giulia ha fatto le sue scelte, ripete.  E, allora, basta così.

 

Quest’anno Elide ha comprato una fedina d’argento per Giulia. Il pacchettino è rimasto lì, sotto l’albero. Domani disferà anche quello, tanto a lei cosa serve? Ma adesso prende quella scatolina e va a metterla nella scatola dell’armadio dove ci sono gli altri pacchetti. Da un sacchetto trasparente spunta il cappello peruviano bianco e marrone. Un vero colpo di fortuna, trovato per caso in quel negozio dell’usato. Non che Elide vada a servirsi in quei posti, per carità, ma il cappello era in vetrina e si era ricordata che Giulia ne aveva uno così e glielo aveva preso. C’è anche un disco. Glielo aveva consigliato Roby, tanti anni fa. Lui li sapeva i gusti di Giulia mentre lei non ha mai capito gran che di musica. Chi era questa cantante? Ah, ecco, Patty Smith… che magrezza accidenti, forse però le somiglia. Ma no, questa sembra un uomo coi capelli lunghi.

 

Chiude gli occhi, Elide, i ricordi sono un brontolio dell’anima. Si domanda se questi anni abbiano trasformato i tratti del viso di Giulia. Però è certa che saprebbe riconoscerla, se la incontrasse per strada. Le basterebbe guardare quel suo incedere spavaldo, come a sfidare il mondo. Tanto Roby era grosso, chiaro, vivace e rumoroso, tanto Giulia era un ragnetto nero: sottile, scura, sempre pronta a volere a tutti i costi qualcosa che non c’era mai. Così precoce da chiedere a quattro anni: “ma se voglio un bambino cosa devo fare di preciso?” Elide non ha mai capito da dove venisse quella curiosità bruciante che sembrava una pericolosa ansia di crescere. Il tempo però l’aveva resa forte, ma anche inquieta e refrattaria a qualsiasi regola, incapace di compromessi.

Giulia ha sempre ostentato il conflitto come la scollatura di un vestito da sera.

 

“Non sembri nemmeno mia figlia” aveva mormorato una volta e lei era esplosa in quel suo modo sgangherato. Il problema più grosso però, era sempre stato col padre, e Giulia sembrava fare di tutto per mandarlo in bestia. E poi frequentava gente strana, e quelli erano gli anni della contestazione e della droga. Aveva deciso di iscriversi ad architettura, una delle facoltà più “calde”, dove poi aveva conosciuto quel tipo. Vent’anni di differenza, un vecchio. Uno poco raccomandabile.

 

E poi quella notte – quella famosa notte – quando era rimasta fuori senza avvertire. Era tornata a mattina inoltrata e il padre era già andato al lavoro, Elide ricorda molto bene in che condizioni era uscito. Ed era la vigilia di Natale. Giulia si era chiusa in camera e lì era rimasta tutto il giorno, con la musica assordante. Lui era tornato furioso. Per poco non cadeva la casa da quanto aveva strattonato la porta. Quando finalmente gli aveva aperto e lui le aveva dato quello schiaffo, Giulia era caduta a terra senza emettere un suono né un lamento. Si era alzata con lentezza, senza mai smettere di fissare suo padre con quello sguardo bellicoso. Poi si era vestita e se n’era andata.

Elide si era precipitata giù dalle scale per fermarla, ma si era vergognata delle parolacce urlate della figlia ed era tornata dentro, dove l’avevano accolta i profumi tiepidi della cena di Natale che aveva preparato. Negli occhi era rimasta l’immagine di Giulia che camminava nella notte ghiacciata, stretta in quel montone di seconda mano, i capelli chiusi nel berretto peruviano. Sapeva dove andare, Giulia, di sicuro da quell’artistoide con quel ridicolo codino grigio.

 

E allora Elide si era messa a strillare contro l’uomo che aveva sposato 30 anni prima in un giorno argentato e che in quel momento detestava con tutte le sue forze.  A occhi asciutti e spiritati le era uscito dalla bocca un formicaio di insulti brulicanti, con l’unico scopo di fargli male. Avevano perso Giulia ed era solo colpa sua. Non c’era altro dolore che somigliasse a quello.

Finché era successa quell’altra cosa, e lei allora era ammutolita.

 

Nel fragore immaginario di un minuto Elide aveva visto l’uomo che le stava di fronte trasformarsi. Aveva cominciato a tossire, con una tosse strana, che si strappava dal fondo del corpo, andando a prendere un male che non sapeva di avere e che gli aveva fatto vomitare una strana materia scura. Preda di quella ferocia esatta con cui la malattia colpisce il centro dell’esistenza, quell’uomo grande e grosso aveva iniziato proprio in quel momento l’accelerazione verso l’ultima curva.

Elide era entrata e uscita da smarrimenti diversi.

Fino a pochi istanti prima gli si era scagliata contro ma poi aveva visto, anche se qualcosa in lei non voleva capire del tutto. Aveva abbracciato con gli occhi le larghe carni di lui, che già iniziavano a seccarsi, già senza sangue, come i polmoni e le ossa.  Il tumore che lo avrebbe portato via in sei mesi, aveva iniziato ad artigliarlo proprio quella sera di Natale, quando Giulia era uscita di casa.

 

Le erano piovuti addosso gli anni e i gesti, quelli della consuetudine, le migliaia di colazioni fatte insieme, i sì con la testa e quelli più profondi degli sguardi. E poi i ricordi erano andati più indietro, al loro primo incontro con la timidezza: le sue braccia così grandi come ali, gli occhi allagati di quella commozione azzurra sempre pronta a venir fuori. Quella che poi aveva passato a Roberto quando era bambino. Non era un chiacchierone, quel suo uomo, ma Elide ne capiva il sentire, quando abbassava la testa per guardarla, o quando la baciava, sempre, ogni sera. Una irripetibile sostanza fatta di loro, tutti loro quattro, insieme.

 

E invece si era ritrovata a scegliere.

Da una parte, quella figlia scura che si spingeva nella notte vomitando insulti e intimandole di non avvicinarsi mai più, non finché fosse stata accanto a quel padre che lei voleva morto.

Dall’altra l’uomo che, mentre ripudiava il sangue del suo sangue, si scopriva prigioniero di uno scheletro già pronto a disfarsi. Il collo, ricordava soprattutto il collo, sgonfiato in un’infinità di rughe intorno ai nervi laterali sporgenti e già duri come cavi d’acciaio per quella tosse. C’era un altro essere umano sulla sedia della cucina, gravido di un qualcosa di nuovo che aveva già iniziato a consumarlo, lasciandolo all’improvviso senza più niente da aspettare, da immaginare né da vivere.

Era rimasta lì, Elide, in silenzio. È da allora che sta zitta.

Roberto le aveva raccontato che Giulia, dopo che quel vecchio l’aveva abbandonata, era andata a vivere in una comune in campagna, nel sud Italia. Non era nemmeno possibile sperare di incontrarla per caso… Per qualche tempo Roby era stato l’unico che riusciva a parlarle.

Fino a quel giorno, quando l’aveva avvertita che il padre stava molto male e Giulia aveva replicato ancora il vecchio mantra: “morte sua, vita mia”. Allora Roby aveva giurato che non l’avrebbe mai più sentita.

 

In tutti questi anni Elide ha continuato a immaginare cosa potrebbe dire a quella figlia perduta. Forse, che le ha sempre voluto bene. Anche adesso, in questa lontananza, che non si è mai trasformata in abitudine.

O forse dovrebbe solo chiederle scusa, perché una madre dovrebbe aiutare i figli a salvarsi la vita. Elide sa che la vita di Giulia è sempre stata più fragile di quella degli altri, per un limite buttato là, senza cura, oltre l’orizzonte. Un limite che nessuno ha potuto trovare per lei.

Anche se adesso, nel buco di quell’armadio, deve ammettere che forse non saprebbe più cosa dirle.

Ma anche questo silenzio ha molto a che fare con l’amore.

 

Chiude l’armadio, esausta.

A una certa età tutto diventa solo memoria.

Va allo scrittoio, apre un cassetto dove ci sono i bigliettini bianchi.

Con quella grafia oramai tremolante scrive: “ti auguro una vita felice figlia mia, una vita così perfetta da non stancarsi mai.”

Mette il biglietto nella scatola dei regali e, finalmente, va a sdraiarsi.

 

 

 

 

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Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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