Il mio primo maestro era svedese

di Paolo Morelli

Lo scorso 4 febbraio si è spento a 89 anni a Firenze Kurt Hamrin, calciatore di Juventus, Padova, Milan e Napoli, ma soprattutto e innanzitutto della Fiorentina, tuttora al nono posto dei marcatori italiani di tutti i tempi. Una leggenda, una delle tante storie infinite che il calcio contiene come forse nessun’altra vicenda umana.

È stato il mio primo maestro. Di sicuro è stato lui a convincermi di giocare tutte le mie fortune all’ala destra.
Avevo sei o sette anni quando è arrivato alla Fiorentina, di cui già ero tifoso. Era il 1958 e la palla, tra un rimbalzo e l’altro, occupava almeno il 90% del mio tempo, col vantaggio ulteriore che non me ne rendevo conto. La prima volta che ho visto una palla non me lo ricordo, ma lo potrei inventare. Mi sembrava che fosse tutto lì il senso, nel reagire al suo movimento, cercare di addomesticarlo, insomma capirlo. Lo studio era immersivo, si direbbe oggi, in ogni momento delle giornate della vita e senza nemmeno un dubbio o una stanchezza, tutto il resto spariva su altri piani meno interessanti, rimandabili di fronte a una necessità più che evidente, lampante, in perenne mutamento. Interno o esterno, anfratti, muri per ore, lampadari, da solo o con gli altri. Bisognava studiare, fare meglio, qualcuno faceva meglio di altri, il controllo totale però era escluso a priori, qualcosa di mai del tutto addomesticabile era costantemente sotto i nostri occhi stupiti da tanto insegnamento. All’epoca era il primo addestramento e l’unico nel vero senso della parola, i libri scolastici non reggevano il paragone. Ognuno sceglieva il suo punto di vista da cui operare nello studio e, proprio allo stesso tempo è costretto a sceglierlo dalle peculiari caratteristiche fisiche e psicologiche che ora, man mano, scopre di avere o non avere. Si imparano anche le regole del gioco, le prime regole di gioco di cui si sente parlare, chiare, intoccabili, così si crede, provenienti forse dall’inizio di tutto, per il resto si va a tentoni ma con i piedi, tra la polvere o il fango a seconda delle epoche dell’anno che sono tutte sterminate, senza limiti di campo. Si impara che siamo una squadra e che ci sono limiti utili dell’individualismo, mai oltre quelli che servono a superare l’ostacolo. A volte i campi di gioco sono così vasti che sconfinano nel fiume, qualcuno di noi c’è anche morto per recuperare la palla sacra, divina.
Quando lo svedese Kurt Hamrin arriva, la Fiorentina è una grande squadra. Io da romano ero diventato viola per la vita perché in quel periodo mio padre faceva il cuoco durante il ritiro estivo all’Abetone e Miguel Montuori mi aveva carezzato sulla testa. Miguel Montuori era il primo grande 10 della Fiorentina, dotato poi di una sfortuna grandissima.
Ed ecco che arriva l’esempio, l’insegnamento, la prima via da seguire. Ripeto, anche col vantaggio ulteriore di non rendersene conto, con quell’unico grande vantaggio di non saperlo non sapevamo che lo studio della Via consiste solo nel seguire, caso per caso, il corso degli eventi. A pensarlo e a dirlo semmai abbiamo imparato dopo.
E all’epoca poi bastava giocare a pallone coi calzettoni abbassati fino alle caviglie per scoprire chi si voleva essere al mondo e dichiararlo. O almeno quello per cui si veniva portati da un certo tale detto Destino di cui non sospettavamo l’esistenza. Un ribelle, un irregolare e, badiamo bene ancora, la fortuna stragrande è di non saperlo. La prima sfida che ne prometteva molte altre, senza sapere nemmeno che le sconfitte supereranno talmente le vittorie tanto da cancellarle. C’è da dire che portare i calzettoni giù, arrotolati fino sui rozzi scarpini era un gesto da attaccante, un gesto irridente e puro, voleva dire agli arcigni terzini avversari coi calzettoni alle ginocchia, non solo che incarnavano gli sbirri di ogni epoca e luogo nella storia del mondo ma che mai ci avrebbero preso. Coi calzettoni giù infatti non si portavano i parastinchi, così quelli avrebbero potuto farti male, magari spaccarti una gamba ma il chiaro messaggio era: non mi prenderai mai sbirro!, e poi ci si poteva comportare di conseguenza, con la libertà e l’agilità che il più delle volte si credeva solo di avere ma bastava e avanzava per tentare. Sivori, Meroni, Corso, Hamrin erano gli esempi da seguire per quelli che volevano rovinarsi la vita nella cerchia più stupida e insensata al mondo, chiamata svagata libertà. Per me soprattutto l’ultimo, Hamrin Kurt, basso biondino svedese, soprannominato l’Uccellino. Il mio primo maestro è stato uno svedese, e io qui lo onoro per questo.
L’ultima volta l’ho visto in un video, già qualche anno fa. Era a Firenze dove viveva, sotto la sede della Fiorentina Calcio. Non ricordo in che occasione erano lì con Giancarlo Antognoni, l’Eterno Dieci e alcuni tifosi. Siccome c’era un pallone in circolo se lo passavano come si fa da sempre, ognuno provava qualche palleggio prima di darlo agli altri. I tifosi erano scarsi al riguardo, perfino Giancarlo ha avuto qualche problema coi pantaloni e le scarpe da città, poi l’hanno data a lui. Quasi non riusciva a alzare i piedi, lui che certe volte pareva proprio volare, radente ai prati per poi atterrare improvviso nell’area di rigore, difatti era sunnominato l’Uccellino e sfidava la legge con l’onestà del coraggio.
Piccolo, biondo, col ciuffo ci ha regalato pochi momenti come questi belli, come dice il poeta. Io all’inizio avevo capito Hambrim.
Era il periodo degli svedesi. La loro nazionale era arrivata in finale ai Campionati del Mondo, l’aveva persa col Brasile di Pelè. L’allenatore di quella nazionale aveva dichiarato di essersi ispirato alla tattica della Fiorentina, in quel momento una delle squadre più forti sul globo terracqueo. Kurt era arrivato in viola subito dopo la vittoria del primo scudetto per sostituire Julinho all’ala destra, e ci è rimasto fino alle soglie del 1968, proprio quando il mio interesse defluiva, scemava, ma solo per una pausa confusa di qualche anno.
Quello irridente non è il modo giusto per affrontare un dribbling, insegnava Hamrin, soprattutto a gambe nude. Non come i sudamericani, Sivori ad esempio. Tanto, il terzino o chi per lui si sentirà comunque irriso, è nella sua natura. L’ideale sarebbe coinvolgerlo nell’euforia del gioco, ma siccome è impossibile ognuno stia al posto suo. Se vuoi irriderlo sei già nella posizione coinvolta della sua eventuale violenza, sei nella combriccola ed è facile che reagisci. Non mi ricordo che Kurt sia mai stato espulso per un fallo di reazione, e non ho voglia né bisogno di guardare le statistiche. Fateci caso, altro insegnamento: il fallo di reazione, anche se lieve, viene considerato più grave perfino della violenza bruta e comunque scatenante, anche moralmente intendo. Si imparava molto allora, era un campo talmente vasto da sconcertare, con le gambe marcate a vita da lividi e cicatrici. È il gran vantaggio di essere ignoranti.
Lui insegnava la calma, nella lotta, ma questo per noi era veramente troppo, lo è anche oggi: il vincente prima vince poi scende in campo, il perdente prima scende in campo poi cerca il modo di vincere. Il dribbling di Hamrin presupponeva la calma, in stile nordico, ma non significa per niente algido.
Scendeva sulla fascia destra saltando gli avversari come birilli, così si dice in gergo, voleva arrivare in porta con la palla al piede, così si dice, una volta l’ho visto con i miei occhi già sulla linea tornare indietro, perché gliene mancava uno e voleva completare il suo compito con diligenza. Depositare alla fine la palla nella rete veniva come istanza solo necessaria, e non era mettere ma depositare, fin lì giungeva l’eleganza.
Altezza 1,69, peso 69 kg., come sottotitolavano le figurine, biondo figlio di un imbianchino di Stoccolma, col ciuffo che certo doveva scuotersi all’aria alle sue movenze, figuratevi un canarino, altrettanto svagato all’apparenza. Passetti brevi, e bravi, il manto erboso lo piluccava con cura. Scatto, dribbling stretto, allungo, guizzo. Essere basso, avere il baricentro basso era un vantaggio allora più di quanto lo sia oggi, permetteva il movimento improvviso, lo scattare, lo sgusciare, permetteva la fuga. Gli alti, i rocciosi, i difensori dell’ordine costituito ci mettevano più tempo per scuotersi e provare a seguirti, braccarti, era la loro natura. Il 2 febbraio 1964, io avevo dodici anni, una domenica certo, segnava 5 goal nel 7-1 a Bergamo con l’Atalanta, un record ineguagliato. Io e mio padre mettevamo la radio al centro del tavolo di formica, solo posso inventare cosa sia successo al centro nel mio cuore basandomi su cosa mi succede adesso a raccontarlo.
E qui si apre uno squarcio, l’interrogativo gigante: io la racconto al naturale, ma come facevamo a sapere, a vedere tutto se scarsi, sfocati e traballanti erano i riflessi cosiddetti in tivù, le immagini delle partite? Eppure giuro che eravamo in grado di descrivere per ore i gesti di ognuno, al ralenti, imitarli frame by frame, farli fruttare come orientativi, educativi. Delle due l’una: o avevamo facoltà adesso dimenticate o mi sto inventando tutto. O sono i miracoli dell’elaborazione fantastica, per me allora ne eravamo capaci e nessuno mi può smentire.
Fiducia, mi insegnava la fiducia Kurt perfino quando è scriteriata, e che altro modo non c’è come questo bello. La mente resta alta pure se la testa bisogna tenerla bassa, a seguire le voglie del pallone, per assecondarlo e sottrarlo a chi vuole te soprattutto, per punirti, la palla in fondo gli interessa meno. Per forza che a volte gli si risponde con un tunnel, la palla sotto le gambe, l’affronto.
Fino dall’antichità si vocifera che ci sia un dio dentro, nell’aria lì racchiusa, e la riprova la vediamo nei rimbalzi e nei contrasti che fa ogni volta che uno di costoro, i benedetti, gli eletti se ne appropria, va da loro ogni volta, l’attirano come se gli appartenesse per diritto imperituro, per una qualità della giustizia.
Devo inventarmi pure questo, non del tutto forse. Forse dopo il suo insegnamento e l’addestramento che ne è seguito in ogni partita in cui non c’era l’arbitro, nel dubbio dei falli chiedevano a me, la mia opinione era risolutiva nelle contese, anche gli acerrimi avversari, come se uno potesse essere autorevole a dieci anni.
Oggi e da tempo portare i calzettoni abbassati è considerato illegale e la scusa è la solita: è per il tuo bene, per la tua sicurezza. Vale a dire non solo le gambe, puoi rovinarti la vita. Ipocritamente, velatamente qualche arbitro permette a qualche eletto di portarli a mezz’asta, Totti ad esempio, o K’varatskhelia.

 

NdR: Kurt Roland Hamrin era nato a Stoccolma il 19 novembre 1934, figlio di un imbianchino. Da adolescente ha lavorato come zincografo, anche mentre giocava nell’AIK Stoccolma dato che le squadre svedesi erano semiprofessionistiche. Dopo il secondo posto della Svezia ai Campionati del Mondo, finale persa contro il Brasile di Pelè, viene in Italia, preso e poi scartato dalla Juventus. Dal Padova passa alla Fiorentina, e dopo nove anni al Milan dove vince la Coppa dei Campioni. Conclude la carriera tra Napoli e IFK di Stoccolma. Viveva a Coverciano.

 

 

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2 Commenti

  1. Pezzo sobrio e commovente, l’unica commozione vera, dunque, l’unica commozione che conta, da groppo in gola silenzioso, quelle che cercano volontariamente le lacrime sono paccotiglia. Ho sempre pensato che chi ama Omero (e Shakespeare) dovrebbe spontaneamente amare il calcio, e viceversa: eppure questo non succede sempre, anzi forse addirittura succede molto raramente — ed è in un certo senso proprio il paradosso di cui mi sto occupando adesso, anche esplorando alcune gesta di Achille meno note agli ellenisti: quando indossò la casacca n. 11… E ora, leggendoti, mi verrebbe da aggiungere che anche Proust portava i calzettoni arrotolati, che per me sono soprattutto legati a un altro geniale mancino, che batteva le punizioni a foglia morta… Già, tu hai giocato tutte le tue carte all’ala destra, io come sai all’ala sinistra. Chissà, qualcosa vorrà dire… (p.s. Una curiosità… Dalla morte del grande Hamrin al tuo pezzo sono passati pochi minuti, come hai fatto? Lo avevi già pronto nel cassetto, o nel cuore?). Grazie.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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