Isole che si credevano perdute

Riccardo Socci e Tommaso Di Dio in dialogo attorno a Poesie dell’Italia contemporanea (Il Saggiatore 2023)

 

RS: Caro Tommaso, quando il lettore si trova di fronte questo tuo originale e, per molti aspetti, coraggioso lavoro viene colpito innanzitutto da un fatto in senso proprio ovvio: la sua mole. Il criterio quantitativo che informa questa antologia (1085 pagine) è sottolineato, e implicitamente assunto a metro di riferimento per misurare l’importanza e la profondità dell’opera, già in quarta di copertina: “più di seicento poesie. Più di duecento autori. Cinquant’anni di poesia italiana”. I testi sono strutturati in cinque sezioni – una per decennio – e attraversano un arco di tempo che va dal 1971, anno che segna uno spartiacque nella storia della poesia italiana contemporanea, come la critica ha ormai ampiamente mostrato, al 2021. I loro autori coprono invece un lasso di tempo ancora più ampio, se consideriamo che tra l’anno di nascita del poeta più vecchio (Montale, 1896) a quello del poeta più giovane (se non vado errato: Cornelio, 1997) è passato oltre un secolo.

Durante la lettura, ho avuto l’impressione che il numero degli autori antologizzati per ogni decennio tendesse via via ad aumentare, fino a raggiungere una soglia particolarmente elevata nell’ultima sezione, 2010-2021. Ho pensato dunque di verificare questa idea. Nella tabella di seguito riporto i dati raccolti:

 

AUTORI 1971-1979 1980-1989 1990-1999 2000-2009 2010-2021
Totale decennio 44 60 56 80 111
Precedentemente citati / 22 35 34 36
Non citati prima 44 38 21 46 75
Totale antologia 224

 

Considerando sia il totale degli autori presenti per ogni decennio sia quello dei poeti di volta in volta “nuovi”, ovvero non citati nelle sezioni precedenti, si assiste effettivamente a una crescita quasi esponenziale del loro numero. Si passa ad esempio dai 44 poeti presenti nella prima sezione ai 111 dell’ultima, dai 38 autori “nuovi” del decennio 1980-1989 ai 75 di quello 2010-2021. Questa tendenza all’ipertrofia, per così dire, viene d’altra parte preannunciata al lettore nell’Introduzione, quando affermi di voler rappresentare, pur senza pretese di esaustività, “gli esiti ricchissimi della poesia degli ultimi vent’anni” (p. 14).

Se, da un lato, un impianto di questo tipo può essere letto come una sorta di mise en abyme, sul piano strutturale, del contesto storico-sociologico che ricostruisci nei cappelli introduttivi alle sezioni (la proliferazione di forme e stili, la progressiva democratizzazione della presa di parola in poesia, la parcellizzazione del campo ecc.), dall’altro il rischio di un effetto di sovraesposizione alla parola poetica (o meglio, alle parole poetiche) è molto alto. Credo che siano davvero ammirevoli l’ampiezza e la complessità di questo lavoro ma, all’atto della lettura, confesso che la preminenza accordata al criterio quantitativo, soprattutto nell’ultima sezione, ha finito talvolta, paradossalmente, per appiattire il “paesaggio” (riprendo qui la tua metafora), attenuando le specificità di forme e stili, che pure persistono. È un effetto, ripeto, che si amplifica a mano a mano che il lettore si avvicina al nostro presente, laddove il campo della poesia si fa più confuso e il lavoro di canonizzazione è ancora tutto da compiere.

Pur comprendendo benissimo la difficoltà di svolgere un discorso critico attorno a un oggetto così ravvicinato, l’impressione generale è che il criterio qualitativo, che di certo avrà avuto un suo peso nella costruzione dell’antologia, sia rimasto a volte in secondo piano. La selezione, in sintesi, sarebbe forse potuta essere più stringente. Partirei dunque da questo luogo comune, da questa domanda banalmente provocatoria, chiedendoti di riflettere sui temi sopra esposti: ci sono davvero, oggi in Italia, così tanti poeti e poetesse significativi e meritevoli di essere letti?

 

TDD: Caro Riccardo, ti ringrazio di questi utilissimi carotaggi numerici e della domanda finale che mi permette, fin da subito, di porre in evidenza un punto fondamentale del mio lavoro. Diciamo così: questo non è un racconto che parte dagli autori; pochi o tanti che siano, ho cercato il più possibile di disinnescare l’enfasi che di solito attribuiamo alla funzione autoriale quando leggiamo un testo di poesia contemporanea. Anche il paratesto che accompagna le poesie (con il nome dell’autore posposto, con l’anno sempre in vista in basso a destra, per esempio) è stato costruito in funzione di rendere più efficace questa esperienza. Abbiamo addirittura deciso di togliere le biografie degli autori inclusi (cosa sulla quale ho ancora dei dubbi), proprio per indicare ai lettori questa idea centrale con la massima evidenza.

La riduzione dell’enfasi autoriale, da parte mia, non ha alcun rigido presupposto ideologico, ma rispecchia semplicemente un metodo di lavoro. Poesie dell’Italia contemporanea è prima di tutto un esperimento con il genere antologico e, come tale, prova a manipolare alcuni presupposti ereditati dal Novecento, forse in maniera troppo meccanica: la centralità dell’autore è fra questi. Quando ho iniziato a scegliere i testi, non avevo nella testa un numero ristretto di autori dal quale poi avrei attinto la selezione. L’impressione che si ha leggendo un’antologia “classica” è che il curatore abbia già in mente un canone di autori. L’antologia diviene il momento in cui un critico esplicita ciò che era già implicito nella sua idea di poesia e questo per lo più avviene mediante un’esposizione del nome degli autori: che infatti in molte antologie è di solito esibito nelle copertine, se non proprio nel titolo (penso a Poeti italiani del Novecento di Mengaldo, con l’enfasi proprio sulla figura biografica degli autori).

Poesie dell’Italia contemporanea è composto rigorosamente al contrario: leggendo il più possibile in ogni direzione, senza alcun pregiudizio stilistico, ibridando il mio gusto e le mie letture con quelle di altri scrittori e critici che ne hanno uno opposto e poi scegliendo e selezionando sempre di più quello che mi sembrava essenziale per comporre un percorso testuale che mettesse a disposizione del lettore una gamma ampia (ma coesa) delle possibilità poetiche di ogni decennio. Insomma, ho cercato per quanto ho potuto di non rendere dirimente chi avesse scritto quello che a mano a mano andavo selezionando, ma soltanto la forma e il contenuto dei testi. Da questo punto di vista, il numero crescente degli autori nei decenni è un effetto del tutto secondario, ma certo non insignificante. Ti confesso che mi sorprende che ti abbia colpito per prima cosa questo aspetto in un lavoro che prova in tutto e per tutto a disinnescare proprio questo approccio alla lettura della poesia. È interessante: forse dice più di te e del modo che hai di guardare al panorama contemporaneo? Oppure è una riflessione nata per una sorta di controspinta? Comunque sia, mentre procedevo nella scelta ho avuto anch’io l’impressione che questo metodo avrebbe messo in risalto la minore importanza della funzione autore nei decenni più recenti: e così è stato e le ragioni possono essere molteplici.

La prima che mi ne viene in mente è una spiegazione banale: per esempio, se al tuo computo aggiungi il fattore generazionale il risultato prende una luce diversa. Aver deciso di inserire le forme testuali sviluppate anche da alcuni autori nati negli anni ‘90 del Novecento (cosa che è stata fino all’ultimo oggetto di discussione e ripensamento) e il fatto che anche molti poeti nati negli anni ‘80 abbiano esordito in quella stessa decade ha fatto sì che molti nuovi autori si aggiungessero ai già tanti e notevoli nati negli anni precedenti proprio in concomitanza dell’ultimo decennio del volume. Se togliamo dal computo i nati negli anni ‘90 gli autori nuovi citati diventano 57, se togliamo anche quelli nati negli anni ‘80 diventano una trentina: un numero in linea con le decadi precedenti. Dare al mio lavoro una soglia generazionale, come altre antologie nel passato avevano fatto, era assolutamente ciò che non volevo fare e il risultato è stato quindi un aumento del numero degli autori.

Un’altra spiegazione è sempre legata al metodo che ho seguito per costruire il volume. Proprio come ci insegna l’osservazione concreta di un paesaggio, a mano a mano che lo sguardo si avvicina alla soglia del punto di vista (cioè alla fine del volume, al punto prospettico dell’intero lavoro che non per caso ha nel titolo la parola “contemporanea” proprio per sottolineare il punto di vista: il mio non è un lavoro di storia della letteratura) da un lato aumentano i dettagli visibili, dall’altro diminuiscono le differenze. A grande distanza, distinguiamo agevolmente una montagna da un altopiano, mentre più in prossimità del punto zero le differenze diminuiscono. Credo che questo senso di appiattimento del paesaggio che tu mi indichi derivi anche da ciò: è una deformazione prospettica dovuta all’avvicinarsi al punto di vista dell’intero lavoro. Ti confesso che dopo un paio di mesi dall’uscita del volume, non mi pento delle scelte che ho fatto. Sono ancora in dubbio su di una decina di pagine forse, ma non di più: mi sembra che se avessi tolto ancora, avrei mancato di segnalare alcune ricerche più interessanti di questi ultimi anni.

Infine c’è un’altra spiegazione che mi sembra più intrigante, perché forse indica meglio qualcosa del nostro tempo e vorrei sapere cosa ne pensi. Forse sempre meno la funzione autore è una soglia decisiva per indicare la qualità dei testi. Mi spiego. Al netto delle eccezioni, converrai che la gran parte degli autori pubblica di più, per più anni di seguito, con meno censura, con meno controllo, con meno dialogo (anche con la critica); questo ha come effetto che anche autori interessanti producono più libri, ma sempre meno “perfetti”, con poesie certo potenti e significative, ma in mezzo a altre che lo sono molto meno. Se questo è sempre successo, in questi anni mi sembra che il fenomeno sia più esteso e degno di nota. Questo comporta il fatto che, mentre – diciamo – fino ai primi anni Duemila, l’autore era una marca utile per trovare una sicura esperienza, oggi lo sia molto meno. Ci sono autori che, pur non potendo uscire dal canone, hanno smesso di scrivere poesie decisive da molti anni, ma che continuano a pubblicare libri e libri: come nell’incanto di una strana inerzia. Proprio qualche settimana fa ho assistito a una lezione di una ottima professoressa e studiosa di poesia contemporanea che sosteneva davanti agli studenti che, pur essendo bruttissimo, avrebbe letto e studiato l’ultimo libro di un certo celebre autore solo perché era di quel certo autore. Ma perché? Per dirla in maniera un poco provocatoria: perché questa auto flagellazione? Perché perseverare a oltranza nell’affezione alla funzione autore, quando se ne potrebbe fare a meno, se non sempre, soprattutto in certi contesti? In sintesi, possiamo dire anche così: è come se, pur aumentando la quantità di scritture notevoli, si sia estesa anche la rarità dei fenomeni poeticamente significativi, che quindi sono distribuiti su di un numero sempre maggiore di autori. Cosa ne pensi?

 

RS: Sottolinei un punto importante, che può rendere ragione anche dell’impostazione generale che hai dato alla tua antologia. La proliferazione di cui si parlava riguarda tanto il numero degli autori presenti nel campo poetico quanto quello delle raccolte che ciascuno di loro produce. Nel corso di quarant’anni di carriera, il poeta lirico forse più importante del secondo Novecento italiano, Vittorio Sereni, ha pubblicato in totale quattro libri di versi. Molti autori dell’ultima generazione raggiungono oggi i trent’anni avendo alle spalle tre, quattro, cinque pubblicazioni. Lo stesso vale per quelli della generazione più vecchia, che nell’arco degli ultimi due decenni hanno dato alle stampe un numero davvero elevato di libri, quasi sempre non all’altezza dei lavori precedenti – a questo proposito, le scelte che hai fatto nell’antologia mi trovano del tutto d’accordo. Le cause di questo mutamento sono molte; ne segnalo soltanto due: da un lato gli autori hanno abbassato il livello di autocensura, allargando le maglie di quel senso del pudore che ancora accompagnava un poeta come Sereni; dall’altro molti editori (in particolare i più importanti) hanno reso i loro criteri di selezione via via meno stringenti, o comunque meno legati al valore delle scritture. Il risultato è quello che hai evidenziato: il nome dell’autore non è più una garanzia dello spessore letterario dell’opera, mentre la qualità media delle pubblicazioni, per un fatto anche solo puramente statistico, si è senza dubbio abbassata (ciò ovviamente non significa che oggi non si scrivano grandi libri di poesia). Spesso restano singole poesie importanti o addirittura decisive, circondate da altre meno necessarie.

Vengo però qui a un punto sul quale vorrei invitarti a riflettere. Per molti autori, questa è una scelta programmatica. Soprattutto a partire dagli anni ’90 (ma è un fenomeno di lungo corso), il macrotesto ha assunto un rilievo crescente. La struttura e il progetto generale della raccolta sembrano essere diventati spesso il punto principale della riflessione poetica, a discapito dell’autonomia delle singole poesie, che soltanto all’interno dell’organizzazione macrotestuale prevista dall’autore riescono a trovare coesione e senso. Come hai affrontato il problema del rapporto fra testo e libro nella tua antologia?

Un altro tema sul quale mi piacerebbe conoscere il tuo punto di vista riguarda, più in generale, la funzione dell’antologia. Quell’impressione di ipertrofia e di sovraesposizione al testo poetico avuta leggendo non dipende soltanto dell’aumento del numero degli autori antologizzati (il chi ha scritto la poesia), ma anche da quello degli stili e delle poetiche (il come la poesia è stata scritta). Le due cose sono ovviamente collegate. Nel corso degli ultimi anni, la critica ha condotto un lavoro (tuttora in corso) di sistemazione del campo poetico italiano tra anni ’70 e ’90. Quest’opera è invece ancora tutta da svolgere per quello che accade a partire dal Duemila. Forse è anche a causa della mancanza delle categorie critiche necessarie per leggere e ordinare i fenomeni poetici che l’effetto di caos stilistico aumenta nelle ultime due sezioni della tua antologia. Come accade in Parola plurale, sembrano qui convivere senza contraddizioni, e quasi prive di una dialettica di fondo, le forme e gli stili più vari. Nel corso del Novecento (mi rifaccio ad esempio agli studi di Scaffai), l’opera di canonizzazione e lo scontro fra le diverse poetiche è avvenuto soprattutto in sede antologica (Mengaldo, che hai citato, Sanguineti, Porta ecc.). Scegliere di includere un autore (non in quanto nome, ma in quanto rappresentante di una proposta formale e stilistica) significava escluderne volutamente un altro. È evidente, ed è stato ribadito, che il tuo lavoro prende le mosse da altri presupposti e si pone altri obiettivi. Pensi però che questa pubblicazione, nel campo poetico odierno, possa riattivare, magari per contrasto, anche quel tipo di funzione antologica? Più in generale, credi che un certo modo di vivere il campo poetico, fatto di contrasti aperti, prese di posizione pubbliche e discrimini sia definitivamente tramontato con il secondo Novecento?

 

TDD: Dici bene, Riccardo. Poni problemi che mi sono posto anch’io in sede di elaborazione del progetto, ma non a tutti ho saputo (o ho potuto) dare una risposta adeguata. Ogni progetto prevede un metodo e ogni metodo seleziona cosa enfatizzare e cosa invece sarà messo in ombra. E in fondo un libro è anche ciò che sceglie di non essere. Uno dei limiti che più ho sofferto dell’impostazione che mi sono dato per Poesie dell’Italia contemporanea è proprio quello che tu indichi: come restituire i macrotesti? È un problema che ogni antologista incontra, anche quello con un’impostazione più tradizionale. Tra l’altro sono convinto anch’io, da poeta, della loro importanza: penso ai miei lavori come Verso le stelle glaciali (Interlinea, 2020) oppure l’ultimo Ardore (Aragno, 2023) che è un vero e proprio poema, con un personaggio, in cui ogni sezione è incatenata alla successiva, con una cornice narrativa di sfondo. A tutto questo, il mio volume non ha potuto dare una risposta, se non in maniera del tutto indicativa: segnalando, nelle cinque soglie introduttive alle decadi, alcune forme macrotestuali notevoli, che spero il lettore curioso possa poi verificare in sede di lettura in proprio. Perché, Riccardo, il problema più grande non è stato tanto con i macrotesti alla Caproni, per intenderci, o alla Riccardi, in cui ciascun frammento mantiene una sua parziale autonomia, ma con quel particolare macrotesto che è il romanzo in versi: e non sono pochi i poeti che negli ultimi cinquant’anni hanno scelto questa forma e hanno saputo dargli una veste molto convincente. Penso soprattutto a tre esempi: Bertolucci, Pagliarani, Targhetta. Come si fa? Qui davvero ci si scontra con l’impossibile. A consolarmi della sconfitta, però, è stata questa riflessione: che anche il mio lavoro è, in fondo, un macrotesto. Ho pensato ogni sequenza di poesie come una sorta di libro autonomo, in cui, oltre alla rappresentatività autoriale, gli attriti fra i testi e i contatti e persino i loro scontri (pure ironici) sono stati il criterio di scelta e di selezione. Ogni testo collocato nella mia sequenza assume un senso diverso dall’originale e spero che questo compensi, in parte, la mancata restituzione del contesto di partenza. Questa se vuoi è una caratteristica importante del mio lavoro: non si è trattato tanto di restituire il libro di origine, ma di creare con i testi altrui un nuovo testo, che potesse essere letto e goduto anche in autonomia rispetto ai libri da cui estrae i materiali. Poesie dell’Italia contemporanea è, in fondo, un lavoro di montaggio e solve e coagula è il suo motto, come ho provato a dire con l’ultima poesia di Anedda che chiude il volume: «sgretolarsi permette di coagularsi di nuovo»

In questo senso, il mio libro è anche una provocazione, senza alcuna arroganza: non credo né che il mio metodo sia l’unico né che escluda altri; spero invece che questo libro apra, anche per contrasto, a risposte inedite e alternative e – perché no? – anche al ritorno di posizioni forti, magari con categorie critiche più stringenti delle mie. Detto questo, penso che sia impossibile tornare ad una situazione novecentesca di canone ristretto unilaterale: il quadro è troppo frammentato, le forme troppo ibridate, le genealogie sono tutte giustificate a priori; e poi è cambiato il ruolo sociale dei poeti, che sono tutti «più simili e soli», come dice un frammento di Claudio Parmiggiani che apre, non a caso, l’ultima decade. Ma dico questa senza alcuna nostalgia: ho voluto il mio lavoro inclusivo e polifonico anche perché risponde prima di tutto alla necessità di restituire un enorme massa di esperienze che era del tutto sottratta ai lettori, non solo come testualità, ma come percezione. Volevo innanzitutto lanciare un segnale, aprire un campo del sensibile. C’è tanta buona, ottima poesia che si è scritta negli ultimi vent’anni e credo che nessuno lavoro potrà dirsi definitivo; e questo per me non è un male: è liberatorio. So che alcuni studiosi stanno approntando un lavoro antologico con tutt’altri presupposti; io stesso ho in mente di scrivere un prossimo libro con criteri completamente diversi da quello di cui stiamo parlando. Spero che nell’incrocio fra strumenti e risultati diversi si potrà guadagnare una prospettiva più complessa e più ricca sulla poesia contemporanea. In fondo un’antologia è un cannocchiale: non solo avvicina al lettore forme che prima erano lontane e meno visibili, ma sposta gli orizzonti e fa trovare isole che si credevano perdute.

 

RS: Riguardo all’impostazione generale che hai dato all’antologia, mi piacerebbe soffermarmi su un altro punto che coinvolge ancora, per certi aspetti, il rapporto fra i singoli componimenti e il macrotesto di appartenenza. Pur non essendo il tuo, come hai ricordato, «un lavoro di storia della letteratura» in senso stretto, da una prospettiva diacronica questo libro propone anche una ricostruzione (che ovviamente non pretende di essere esaustiva) del campo poetico italiano degli ultimi cinquant’anni. Per ogni decade, il discorso prende le mosse da un breve inquadramento storico nel quale si mettono in luce gli eventi che più hanno segnato la vita sociale, politica e culturale nel nostro Paese, stabilendo così (com’è naturale che sia, a mio modo di vedere) una correlazione più o meno stretta fra la storia collettiva e quelle dei percorsi poetici individuali. I componimenti sono ordinati secondo il criterio più oggettivo che si possa scegliere: la cronologia. Come scrivi nell’Introduzione (p. 18), «la cronologia dei testi diventa il valore dominante. I testi scorrono entro il nastro del tempo, ciascuno nell’anno della prima pubblicazione del libro da cui è estratto».

L’antologia non è evidentemente la sede adatta per approfondimenti critico-filologici, ciononostante, credo che un’impostazione di questo tipo, unita all’arco di tempo relativamente ampio preso in considerazione, possa esporre talvolta a rischi di anacronismo. Faccio due brevi esempi: il più evidente, a mio giudizio, è il caso di Sandro Penna, inserito all’altezza del 1973, anno di pubblicazione del volume Poesie per Garzanti, nel quale l’autore ha raccolto, poco prima di morire, gran parte della sua produzione. Se, da un lato, questa collocazione aiuta ad esempio a mettere in luce il rapporto fra Penna e un poeta più giovane come Bellezza (che a lui soprattutto guardava in Invettive e licenze), dall’altro si rischia di dimenticare che i testi presenti nella tua antologia sono stati composti verso le fine degli anni Trenta (seguo la cronologia proposta da Deidier nel volume Mondadori), e già pubblicati in raccolta fra anni Trenta e Cinquanta. Sono testi, insomma, che sul piano storico non hanno nulla a che fare con l’attentato di Piazza Fontana, e che da un punto di vista di storia letteraria dialogano (o, al contrario, scelgono di non dialogare) più con Saba, il primo Montale e un certo ermetismo che con Bertolucci o Satura. Il secondo esempio è quello di Mario Benedetti, i cui testi compaiono per la prima volta nell’antologia all’altezza del 2004, anno di pubblicazione di Umana gloria. Benché sia stato proprio il volume Mondadori ad affermare Benedetti come uno degli autori più importanti della sua generazione, non possiamo non considerare il fatto che i testi lì raccolti sono stati quasi interamente composti e pubblicati in varie plaquette fra anni Ottanta e anni Novanta. La sua poesia forse più nota, Che cos’è la solitudine, è stata ad esempio scritta, verosimilmente, verso la metà di quest’ultimo decennio, e quindi pubblicata già nel 1999 nel Parco del Triglav. Faccio riferimento a questo caso specifico proprio perché la poesia mi sembra perfettamente aderente al cappello introduttivo che proponi per il decennio 1990-1999, intitolato Lo spettatore immobile, ad esempio quando scrivi: «non è un caso che l’arte di questo decennio abbia trovato nella violenza immobile alcuni emblemi rappresentativi. […] Le azioni artistiche ora mettono di fronte un corpo deformato, davanti al quale si è chiamati a sentire, restando a distanza. Si è interpellati a incarnare la figura del testimone, più che quella del produttore di significati» (p. 310).

Un’antologia di ampio respiro come la tua non può ovviamente tenere conto di tutti i casi particolari, ma mi è sembrato interessante proporti questi due esempi per chiederti di parlarci, in generale, di come hai affrontato il complesso rapporto fra storia e poesia e quello, forse anche più complesso, fra poesia e storia.

 

TDD: In un mare così ampio e divergente di scritture, mi sono risolto a individuare un criterio di ordinamento dei testi più neutrale possibile, ma al contempo – come hai ben sottolineato  – non mi sono astenuto da prendere alcune scelte: anzi, a mio parere il mio lavoro sta tutto qui. Ma ci arriviamo. Innanzitutto è bene dirlo subito: al contrario di altri lavori esplicitamente storico-letterari, ho voluto dare vita soprattutto a un racconto. Le cinque soglie che introducono la scelta dei testi sono proprio cinque narrazioni che insieme formano un romanzo della poesia italiana, che sia anche un romanzo della società italiana: qualcosa che interpreta, raccoglie, elabora e prova a restituire in maniera non inerte una serie di informazioni e dettagli, ricalibrati nel fuoco di un racconto. Il punto è che non ho scritto le soglie narrative prima della scelta dei testi, ma dopo. In questo senso Poesie dell’Italia contemporanea è un lavoro induttivo, non deduttivo: non è un’antologia a tesi, come altre – e notevoli – sono state pubblicate in passato (penso per es. a quella di Enrico Testa). Le soglie narrative sono state pensate e scritte soltanto dopo aver costruito le sequenze dei testi, dopo averle attraversate e meditate. Quelle pagine introduttive sono state immaginate affinché creassero le atmosfere di cui mi sembrava necessario che il lettore si impregnasse prima di imbattersi proprio in quei testi e non in altri. Da questo punto di vista se non sono certo racconti completi delle decadi, hanno però l’ambizione di suscitare l’impressione che vi sia un legame fra testo e contesto e la cosa pareva naturale anche a me, ma non è scontata: mi è stata anzi criticata da più parti. Mi hanno infatti accusato di uscire dal campo della mia “specializzazione”, di toccare questioni che esulano dalla letteratura. Per me però era importantissimo che il lettore avesse sempre il sospetto che il testo non fosse un assoluto, ma fosse circondato da un contesto ermeneutico, da una serie di elementi (sociali, economici, artistici), prossimi e remoti, che ne costruiscono il senso e che concorrono alla sua interpretazione. Detto questo, capisci bene che il senso della storia che ho voluto indicare non è certo storicistico: non c’è alcun determinismo fra i contesti e i testi. Se anzi c’è qualcosa che la grande poesia fa spesso è proprio smentire la storia, o meglio: la grande poesia sta in un accordo-discorde, in un equilibrio scaleno, non prevedibile, non desumibile da ciò che accade; sta nell’anticipo e nel ritardo, non è mai desumibile dai fattori che la circondano, ne è anzi la rivelazione e insieme il sovvertimento. L’idea di storia che volevo emergesse fin dalle prime pagine di questo lavoro è l’idea di storia che Walter Benjamin aveva sviluppato nei suoi Passages. Ciò che si trattava di formare non era una collezione di frammenti, giustificati da una pedagogia critica (l’ipotesi di tante antologie), ma una “costellazione del risveglio” in cui è il lettore a dover connettere il mito del passato con il suo presente, attraverso la mediazione del testo, così da crearsi da sé quello che Benjamin chiama una “relazione dialettica”. Avevo in mente le parole di Benjamin: «Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione» (p. 516). Ancora Benjamin scrive: «Il testo è il tuono che poi continua a lungo a risuonare» (p. 510). Ecco, volevo che il lettore ascoltasse, nell’ora della sua lettura, nella dimensione fisica e linguistica del testo che si trova davanti, il lento propagarsi dell’eco di questa luce trapassata. Il montaggio di testi e tempi che ho costruito è principalmente volto a costruire una storia per fratture, dialettiche, shock e emergenze: per eventi e agnizioni, più che per ragionamenti e discorsi, che pure ci sono, come sai, ma non volevo che fossero né l’unico modo né quello privilegiato per entrare nell’esperienza della poesia.

A questo punto, forse è più chiaro perché ho deciso di mettere Penna negli anni Settanta e Benedetti negli anni Duemila. Sono due casi diversi, ma ugualmente interessanti. E mi fa molto piacere che tu li abbia notati: sono infatti due storture, due sbreghi dello spazio-tempo. Ho deciso di inserire Penna nel decennio della sua maggior influenza, in cui vinse i premi letterari più importanti, in cui era circondato da una serie di scritture che guardavano a lui come un modello. Non metterlo significava sottrarre al lettore un’esperienza testuale di cui si parlava, che si leggeva, che in quegli anni era nelle mente di molti poeti, più di quanto era accaduto negli anni della sua prima pubblicazione. Mi sembrava insomma un elemento essenziale del contesto sociale del poetico dell’epoca, ma in più mi permetteva di dire qualcosa sulla poesia, in generale. La poesia di Penna è un perfetto esempio di fuori-sincrono: sembra essere del tempo perché non è stata del suo tempo. Esiste una Penna degli anni ‘30 e esiste una Penna degli anni ‘70, potremmo dire. Ma escludere questa seconda vita di Penna sarebbe stato una mancanza: la sua supposta ingenuità e la sua supposta antiletterarietà antiborghese fanno parte del sapore degli anni ‘70, ne sono la rivelazione in una vorticoso hysteron proteron. Diverso il discorso per Mario Benedetti. Hai perfettamente ragione: la sua poesia si iscrive molto bene nel decennio degli anni ‘90 (come Penna negli anni ‘30). Avrei potuto inserirlo nella sequenza degli anni ‘90 e avrei sicuramente compiuto un gesto storico-filologico. Ma sappiamo bene entrambi che in quel decennio la poesia di Benedetti era del tutto impercepita e che i libri prima di “Umana gloria” (2004) per Benedetti non avevano valore di opere compiute. Dovendo fare delle scelte, delle esclusioni, delle sottrazioni, ho preferito allora dare risalto alle quattro opere di Benedetti dei primi anni Duemila: mi sembrava che collocarlo lì ne potenziasse al massimo la forza testuale, la capacità di creare connessioni inattese. Il criterio che ho seguito in questo senso è sempre lo stesso: rintracciare la possibilità, nei limiti della cronologia, che un testo provochi la massima reazione nella catena e non la sua astratta collocazione storico-filologica.

 

RS: Per concludere il nostro dialogo, ringraziandoti per la disponibilità al confronto, vorrei chiederti una riflessione sull’accoglienza ricevuta finora dalla tua antologia. Non mi riferisco tanto ai dibattiti e alle critiche in merito ai singoli autori e ai singoli testi che si è scelto di includere/escludere (questioni che pure comprendo ma che trovo perlopiù oziose, se alimentate, come spesso accade, soltanto da interessi privati e da posizionamenti individuali), quanto alla discussione più ampia che, a tuo parere, questo lavoro è riuscito (o meno) a generare, sia nel campo della critica sia in quello, forse più importante, dei lettori di poesia.

 

TDD: Grazie a te Riccardo, per la generosa disponibilità a discutere insieme. Potrei cominciare dicendo che a fronte di un ottimo riscontro meramente editoriale di vendite, non si è poi davvero avviata per esempio sui giornali la riflessione che speravo sui metodi delle antologie o anche solo sulla ricchezza della poesia italiana contemporanea. Di sicuro, ha pesato il fatto che fosse un’opera non allineata con le varie correnti esistenti e che fosse, in più, un lavoro se non innovativo, almeno insolito, che richiede tempi di lettura e di studio non indifferenti per scriverne. Mi è dispiaciuto soprattutto per via di alcune proposte che gettavo sul piatto sulle quali mi sarebbe piaciuto si potesse creare un dibattito. Nel mio lavoro c’è implicita, per esempio, un’idea di lettura della poesia che non sia solo sull’asse critico\studente, ma che possa essere incontro ermeneutico di un lettore adulto (non per forza laureato in lettere) di fronte alla complessità di un testo; oppure l’idea della fine dello stato di belligeranza fra la cosiddetta poesia di ricerca e poesia lirica; oppure ancora un altro tema su cui mi sarebbe piaciuto ragionare insieme sarebbe stato il tema della continuità fra le generazioni, che molte antologie hanno oscurato. Devo aggiungere però che diversi insegnanti di istituti secondari superiori mi hanno scritto dicendomi che hanno portato il volume in classe, hanno letto i testi insieme agli studenti e hanno provato a creare attraverso la lettura le categorie di interpretazione del testo: pare che si siano avvenute esperienze didattiche interessanti. Non ho pensato questo volume per le scuole (né per l’università) e mi sembra senz’altro azzardato e coraggioso, ma mi ha fatto piacere saperlo usato in contesti per cui non è stato pensato. In generale, ho riscontrato una forte dicotomia nella ricezione del mio lavoro: da una parte i nostalgici, dall’altra gli entusiasti. Fra i primi metterei una categoria che indicherei come “Letterati”, ovvero coloro i quali hanno in genere una laurea in filologia e sono nati dalla prima metà degli anni Novanta in giù. Mi pare abbiano sofferto molto per la mia impostazione non tradizionale e non storicistica e che non siano stati colpiti dal tentativo di seguire i modelli di Benjamin e di Warburg (che sono belli da leggere, da citare, ma non da seguire); molti hanno manifestato una certa nostalgia per un impianto più tradizionale. Insomma – per essere un poco semplificatori – mi è sembrato che volessero, ardentemente, un nuovo Mengaldo. È come se dicessero: vogliamo il Novecento che non abbiamo vissuto. Hanno l’idea (rispettabilissima) di un’opera antologica che sia una messa in ordine di un panorama che percepiscono troppo confuso (un monumento ordinato di ciò che è stato) e che, al contempo, esprima un gesto di forza egemonica di una linea della poesia o della critica (naturalmente: quella a cui appartengono). Da questo punto di vista, il mio lavoro ha scontentato un po’ tutti; innanzitutto perché – in questo seguendo da vicino Antonio Porta e il suo Poesia degli anni Settanta (1980) – non ho voluto fare un monumento statico, che addomesticasse una volta per tutte una pluralità, ma un oggetto dinamico e policentrico che restituisse un’immagine percorribile dello stato dell’arte. Su questo ha fatto una riflessione importante Andrea Cortellessa nella presentazione che si è tenuta a Roma: non c’è una teleologia nel mio lavoro perché viviamo in tempi radicalmente non teleologici. Ma appunto non a tutti va bene così: alcuni pensano l’antologia come strumento di “ortodonzia letteraria”, di correzione o compensazione delle storture della propria epoca. Dall’altra parte rispetto ai “Letterati”, invece ci sono stati gli “Entusiasti”: spesso sono lettori non specialisti, che non scrivono sulla stampa, che non fanno recensioni, che hanno comprato il volume sulla fiducia e sulla scorta di una passione sincera per la poesia. Diversi mi hanno scritto messaggi personali e mi confermano che si sono trovati a loro agio dentro le pagine: si sono anche divertiti a giocare con i testi e con le tante interpretazioni possibili e hanno scoperto molti autori di cui non avevano mai sentito parlare. (Ricordo per esempio una persona che mi ha ringraziato tantissimo perché ha scoperto Beppe Salvia, che non aveva mai sentito nominare prima). Ho notato poi che alla categoria degli “Entusiasti” appartengono più facilmente i non laureati in lettere (sono magari studiosi di filosofia o di arti visive o artisti) e i lettori molto giovani (diciamo nati dopo la metà degli anni ‘90). Si sono trovati completamente a loro agio nell’impostazione del volume e diversi mi hanno anche sottolineato il carattere “liberatorio”: l’idea insomma che la poesia non sia per forza legata a un’idea di studio manualistico, ma a un’esperienza diretta di un testo è più in linea con i loro desideri. (In particolare mi ricordo un fotografo di Perugia che mi ha detto che si era trovato molto a suo agio nell’impostazione perché – a detta sua – la successione delle immagini in molti libri di fotografia è costruita come nel mio volume). Mi ha poi stupito la ricezione di alcuni poeti, che sebbene non abbiano scritto pubblicamente, mi hanno mandato dei messaggi sul mio lavoro. Alcuni poeti (anziani) mi hanno ringraziato; uno ha paragonato il mio lavoro a una “spotify della poesia” (non so se c’era volontà di offendere nella definizione: a me è piaciuta molto). Altri ancora, più vicini alla scrittura lirica, sono stati colpiti (e addirittura offesi) dalla presenza nel mio lavoro di molti poeti legati alle tradizioni della sperimentazione e della ricerca; al contrario, molti poeti sperimentali hanno apprezzato la prossimità violenta e le somiglianze improvvise fra stili così difformi (stupendosi e a volte inquietandosene). Non in pochi hanno poi colto il piano artistico dell’opera e sono rimasti colpiti dall’idea di poter leggere il decennio come “un libro di libri”, disinnescando il criterio dell’autore. In fondo, mi sono accorto, la tracciabilità dell’autore interessa soprattutto ai poeti (il cui narcisismo è proverbiale) e agli storici (cioè: ai laureati in filologia, che tra l’altro sono anche spesso poeti), a tutti gli altri interessa davvero poco o, quanto meno, accettano più facilmente l’idea che non sia la categoria principale. Mi sono reso conto solo a posteriori in effetti che Poesie dell’Italia contemporanea è pensato più come una mostra d’arte che un’antologia letteraria. Proprio in questi mesi al museo della Triennale di Milano è allestita una mostra antologica sulla pittura italiana che si intitola Pittura italiana oggi, a cura di Damiano Gullì, che pur lasciando visibile il nome del pittore e selezionando solo le opere di artisti italiani nati tra il 1960 e il 2000, dispone senza distinguere fra le generazioni centoventi opere pittoriche in una sequenza libera, ritenuta significativa dal curatore. Mi ha colpito che per molti punti l’impostazione sia simile a quella che ho seguito nel mio lavoro e in quel caso nessuno ha avuto da ridire sul metodo del curatore (ma anche in quel settore molto si è discusso sui nomi degli esclusi e degli inclusi, ovviamente). Insomma, mi pare che in generale la poesia italiana faccia fatica a pensarsi come un linguaggio fra le arti contemporanee e desideri sempre tornare a legarsi alla propria nicchia specifica: di metodi, di aspettative, di interessi. Se c’è una cosa che invece mi piacerebbe accadesse è che in futuro il mio lavoro fosse rubricato come un tentativo di emancipazione della poesia dai propri schemi, dai propri pregiudizi: forse anche da se stessa.

 

*

 

[Una versione più breve di questo dialogo è stata già pubblicata in «Gradiva», n. 64, II, Fall 2023, pp. 73-79]

 

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