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È morto un poeta

Enzo Moscato in “Ritornanti” di Enzo Moscato – ph©Pino Miraglia

 

(Un mese fa è morto Enzo Moscato. Qui un suo ricordo, uscito in versione ridotta sull’edizione cartacea de’ Il Mattino, 17 gennaio 2024. ot)

di Igor Esposito

È morto un poeta, un grande poeta della scena teatrale italiana, e di grandi poeti, come ebbe a dire Alberto Moravia ai funerali di Pasolini, non ne nascono molti in un secolo. Ma non basta scrivere che sia morto un poeta, perché dire che Moscato sia stato uno degli ultimi cantori del teatro italiano e un lirico supremo è una costatazione o una diagnosi a cui arrivano anche le orecchie di chi raramente frequenta la poesia o di chi, a tratti, si finge sordo. Terremoto, bradisismo, peste o fiume che esonda e tutto travolge è inequivocabilmente, da quarant’anni, la babelica drammaturgia di Enzo Moscato; ecco perché anche ai finti sordi che hanno avuto la sorte di inciampare in una pièce di Moscato è apparsa la poesia del teatro e della vita. Ora però, e soprattutto oggi, che vanno di moda le anime belle e i versificatori preteschi dediti all’anestetizzante consolazione dell’italico gregge, sempre più smemorato, schizofrenico e puerile, bisogna capire, una volta per tutte, in cosa consiste la vera natura di un poeta. E questa natura, o prima essenza di ogni poeta, è la sgradevolezza. Come ha scritto uno dei più grandi scrittori del secolo scorso, Julio Cortázar,

Lo sgradevole del poeta non sta nel fatto che abbia un cuore pettinato in modo diverso dagli altri, bensì nel fatto che è sempre un testimone, e si sa quanto siano sgradevoli i testimoni. Ma il poeta è peggiore, è quel testimone che non dice nulla contro di voi, ma voi sapete che dal momento in cui ha scritto il suo primo verso, quell’individuo sta testimoniando contro di voi, contro la parte di voi che è la città, che è il fine settimana, che è una marca di automobile, che è il vostro menefreghismo. E questa sgradevolezza è amplificata dal fatto che non c’è modo di afferrarlo.

Ecco l’inafferrabile Moscato, demiurgo d’una lingua polisemica e meticcia, un artista che non ha mai ceduto alle lusinghe del mercato, alle serie televisive che lui ironicamente sbeffeggiava apostrofandole serial killer, che non ha mai spalleggiato o suonato il piffero dei politicanti, che non ha mai avuto un pelo sulla lingua confessando pubblicamente lo stato comatoso del teatro italiano, impaludato in logiche clientelari; dove impera un Ministero, come già denunciava Eduardo, che non riesce a dare la giusta dignità al fuoco primordiale del teatro, ovvero agli attori e agli autori. Ma anche un Moscato che ripetutamente dichiarava che il teatro è una vocazione a cui non si può sfuggire e bisogna viverla sapendo che lungo la strada si incontreranno più spine che rose. Senza dimenticare la tagliente ironia su alcuni teatranti dediti ormai a un teatro di retroguardia, nati incendiari e morti pompieri. Ecco perché credo sia giusto sottolineare, al di là della sua opera iperbolica, ossimorica e allegorica, che avrà sempre la forza di parlare e difendersi da sola, come tutte le opere degne della parola Arte, che anche questa, nel deserto dell’industria culturale, è la preziosa eredità che Moscato lascia ai felici pochi. Un’eredità che valga come monito e insegnamento, da chi negli anni della sua giovinezza ha insegnato filosofia e partendo proprio dalla filosofia ha forgiato, come solo a pochi eletti è concesso, un’opera mondo, un angelico bestiario, un’epifania di sangue e bellezza, di sacri riti e bestemmie; e lo ha fatto dal microcosmo dei suoi Quartieri Spagnoli, riuscendo a regalarci l’universalità del cosmo e dell’umano. Un uomo che è riuscito a porre al centro della sua febbricitante scrittura teatrale anche l’aspetto filosofico e metafisico della vita e non sarà di certo un caso se Emanuele Severino, nel suo volume La filosofia antica e nel suo saggio Il giogo, ha posto Eschilo al fianco dei filosofi antichi, definendolo “uno dei più grandi pensatori dell’Occidente”. Ma è bene ricordare che Moscato ha fatto tutto ciò da esiliato in terra, restando fedele, con ferrea coerenza, ai suoi amati predecessori, da Giordano Bruno a Leopardi passando per Artaud, Genet, Pasolini e Lacan, solo per citarne alcuni. E questa affermazione però non vuole essere una santificazione. Perché anni fa, conversando con Laura Betti, l’indomabile giaguara mi fece capire che santificare un poeta o un artista significa neutralizzarlo e chiuderlo nella sua bara. E mi disse, riferendosi a Pasolini, che un poeta non è di tutti, ma di chi lo studia. E Moscato ha dedicato la sua vita allo studio, presupposto fondativo della sua scrittura, come affermò durante una nostra pubblica conversazione, di ben due ore, tenutasi nel 2020 al Cinema del Carbone di Mantova. E anche questo valga come monito per i drammaturghi che verranno, e a tal riguardo mi ritornano in mente le parole di Eduardo che in un’intervista dichiarò:

Scrittori che mi hanno mandato copioni e non li ho potuti recitare. Non si convincono. Io di fronte a una commedia sono in dubbio per trent’anni prima di mettere la penna sulla carta. Ma quelli dicono è facile, si mettono là tac tac tac e riempiono di paglia una pagina.

La paglia brucia o vola e di lei non resta nulla. Ciò che resterà è la scrittura di Moscato. Ora che il suo esilio in terra è finito, il suo corpo si sta già decomponendo ricongiungendosi alla materia del suo amato Lucrezio. Ma perdonami, Enzo, se di colpo ti do del tu, come facevamo nella vita, e perdonami ancora se oggi non posso tenere fede a questi versi di Lucrezio: “Nulla dunque è la morte per noi e non ci riguarda affatto, dal momento che la natura dell’anima è da ritenere mortale”. Perché io so che la tua anima resterà nelle compagne del tuo esilio, nelle tue vestali di scena, dall’inarrivabile Isa Danieli, alla straziante Cristina Donadio di Little Peach, alla Licia Maglietta di Palummiello, a Iaia Forte che ci ricorda che ‘A morte, ccà, è sulo festa a mmare o all’indimenticabile Imma Villa di Scannasurice; così come resterà nei tuoi fanciulli di strada, e qui forse, scherzosamente e con affetto, ti sarebbe piaciuto chiamarli guitti, dall’irriducibile Tonino Taiuti di Play Moscato a Benedetto Casillo, ai visionari Martone e Servillo del capolavoro che fu Rasoi, fino al tuo più giovane e intimo sodale: Giuseppe Affinito. Così come resterà in tutti gli attori della tua compagnia e in tutti i teatranti che ti hanno attraversato scegliendo di lavorare sui tuoi testi, dal Cerciello di Bordello di mare con città al Saponaro di Occhi gettati, solo per citarne alcuni; e anche in quel pubblico che hai saputo commuovere e contagiare, perché come amavi ripetere il teatro è prima di tutto, artaudianamente, contagio e azzardo. Ma questa non vuole essere una speranza, perché come insegna Monicelli la speranza è un’invenzione dei padroni e a te, filosofico scugnizzo, i padroni non sono mai piaciuti. E poi come potrebbe essere una speranza se oggi l’unica mia certezza è che la Bellezza senza di te, come cantava il tuo terribile ragazzo di Charleville, è ancora più amara. Addio Enzo, addio alla tua divina sgradevolezza; e se non ti chiamo maestro è solo perché nella mia mente resta indelebile una tua battuta: i maestri, i maghi della merda.

 

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ornella tajani
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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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