La televisione e la metamorfosi del palinsesto
di Pasquale Palmieri
Non guardiamo più la televisione come una volta. Ce lo ripetiamo spesso, contribuendo a costruire un solido luogo comune, ma fatichiamo talvolta a comprendere le ragioni di quello che sta accadendo davvero al “piccolo schermo”. I nati negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso – per fare un esempio – hanno un’esperienza del tutto peculiare del medium, difficile da spiegare alle nuove generazioni. Le giornate erano scandite dai palinsesti. Si mangiava all’ora di Beautiful, di ritorno da scuola. Si sostava sul divano durante I Simpson, si aprivano svogliatamente i libri per studiare dopo la sigla finale di Non è la Rai, prima della Melevisione o di Bim Bum Bam. La passeggiata con gli amici segnava uno dei rari momenti di disconnessione dal “tubo catodico”. Il rientro a casa era accompagnato dalla sigla di apertura del telegiornale, ma nel giro di pochi minuti iniziavano le contese familiari per la conquista del telecomando. Duravano poco, in genere. In fondo la tentazione di abbandonare il notiziario per il Karaoke di Fiorello, Sarabanda, Un posto al sole o per l’ennesima replica di Una mamma per amica era forte anche per gli spiriti più responsabili o desiderosi di informazione.
Ormai da anni è in corso un cambiamento profondo, che appare inarrestabile. Cosa lo ha reso possibile? Quali dinamiche hanno contribuito a ridimensionare il ruolo di un oggetto che sembrava possedere un’assoluta e indiscutibile centralità nelle nostre vite? Non ci sono facili risposte per queste domande. Siamo soliti fare riferimento all’arrivo di internet e delle piattaforme digitali, ma rimane difficile trovare un orientamento in questo paesaggio variegato. È di certo utile allo scopo l’eBook di Alice Valeria Oliveri, intitolato Mondovisione (contenuto nella serie “Quanti” di Einaudi), che si pone l’obiettivo esplicito di costruire una mappa della tv contemporanea in Italia. Fin dalle pagine introduttive, l’autrice suggerisce di concentrare l’attenzione proprio sul concetto di palinsesto, baluardo delle reti tradizionali, capace di salvaguardare “la verticalità del contenuto” e di arginare “l’orizzontalità dei cataloghi infiniti” – quelli di Netflix, Disney+, Prime, Youtube, in prima istanza – a disposizione di utenti seguiti e profilati in ogni scelta, guidati dagli algoritmi verso prodotti che si ritengono confacenti alle loro preferenze.
Gli anni Venti del Duemila continuano a spostare le prospettive e sembrano rendere meno appetitoso questo infinito menù, pronto a soddisfare ogni palato. Si intravedono i segni di un’uscita definitiva dalla “sbornia” di “grande serialità” internazionale che ha caratterizzato l’inizio del nuovo millennio, fatta di draghi, metanfetamina, zombie e isole misteriose. Non servono più grandi prove per ammettere che le fiction Rai – da molti denigrate, fino a divenire bersagli di spassose parodie – svolgono bene il loro compito. Una replica del Commissario Montalbano riesce a raggiungere con facilità il 20% di share, ma anche prodotti come Blanca, Le indagini di Lolita Lobosco e L’amica geniale ottengono risultati importanti in termini di ascolto. Questa solidità di consenso si spiega, secondo Alice Valeria Oliveri, con “una scrittura semplice e distesa”, che coinvolge senza sconvolgere, creando “un rapporto di fedeltà tra lo spettatore e la messa in scena che si solidifica col tempo”. Una dinamica simile è innescata da Domenica In, fondata sul rapporto intimo che si stabilisce fra conduttrice e ospiti, impegnati nella ricerca di ricordi comuni sospesi fra sfera personale e memoria collettiva del paese. Altrettanto efficaci come dispositivi di coinvolgimento sono i giochi a premi, capaci di ricreare un ambiente familiare, nel quale chi segue la competizione può assorbire le sensazioni dei concorrenti, le loro paure o la loro voglia di rischiare.
Diverse sono invece le caratteristiche del “continente Mediaset”, che un tempo provava a cavalcare il mito della libertà dai vincoli statali configurandosi come terra di coraggio e innovazione, ma oggi ripiega su una strategia di conservazione, legata a programmi e volti garantiti dal “bollino di Canale 5”. Il cuore pulsante di questa impresa è il regno di Maria De Filippi, “una sorta di Vaticano della tv, pari allo Stato Pontificio sia per potere che per influenza nel resto dell’universo televisivo italiano”. Uomini e donne, Temptation Island, C’è posta per te e Amici vanno a formare una sorta di pianeta parallelo abitato da tronisti, traditori seriali e aspiranti stelle che “rimbalzano da studio a studio”, rendendosi riconoscibili grazie a una peculiare postura etica, estetica e verbale. Tutto ruota intorno alla parola “percorso”, che è la chiave di volta di ciascun segmento narrativo: un “percorso” per trovare il grande amore della vita, un “percorso” per avere conferma della solidità dei propri legami sentimentali, un “percorso” di riconciliazione familiare, un “percorso” di crescita professionale o artistica. Le regole sono dettate proprio dalla conduttrice, che accompagna le trame con la sua voce e il suo sguardo (benevolo, interrogante, giudicante), interpretando i sentimenti del suo pubblico, accarezzando il senso comune, arrogandosi il diritto “mettere ordine, legiferare, ristabilire gli equilibri”.
Più in generale, si ha l’impressione che Mediaset abbia trovato un suo assetto iconografico stabile e faccia costantemente leva su un palinsesto rivolto al passato. Cosa hanno in comune Paolo Bonolis, Luca Laurenti, Gerry Scotti, Michelle Hunziker, Ezio Greggio, Enzo Iacchetti, Federica Panicucci, Ilary Blasi, Alfonso Signorini, Silvia Toffanin, Claudio Bisio e Vanessa Incontrada? Poche cose, si direbbe a un primo giudizio superficiale. Usano diversi registri e si impegnano su diversi generi. Ciò nonostante, risulta difficile ignorare il fatto che siano accomunati da una residenza stabile in azienda – con occasionali o rare eccezioni – che copre un periodo oscillante dagli ultimi 20 agli ultimi 40 anni. Di certo non possono bastare iniziative isolate, come la defenestrazione di Barbara D’Urso o l’ingresso di Bianca Berlinguer, per disorientare una platea tendenzialmente adulta, abituata ad avere punti di riferimento precisi, con lunghe e consolidate esperienze.
Ben più complesse sono le considerazioni possibili quando ci si allontana dalle cosiddette “reti ammiraglia” di Rai e Mediaset (Rai Uno e Canale 5, per intenderci). Alice Valeria Oliveri è molto attenta nel registrare i movimenti tellurici che hanno interessato emittenti come Raidue o Italia 1 in seguito alla migrazione del pubblico giovane verso le piattaforme digitali. Non è un caso che le poche novità di successo degli ultimi anni siano legate a prodotti frazionabili, dai quali vengono estratte sequenze brevi destinate a diffondersi grazie a Instagram, Youtube, Tik Tok. È certamente il caso di Una pezza di Lundini, incentrato su interviste surreali, simulati servizi d’inchiesta e parodie della televisione classica; di Belve, che costringe gli intervistati ad adattarsi a una liturgia codificata, rispondendo sempre alla stessa domanda (“Che belva si sente?”); o del Collegio, che catapulta gruppi di adolescenti in immaginarie scuole di epoche passate, costringendoli ad affrontare anacronistici riti di passaggio (come il “primo taglio di capelli”). Persino la vecchissima formula delle Iene – attiva fin dal 1997, bene ricordarlo – ha provato a entrare a gamba tesa nel flusso della viralità con monologhi affidati a personaggi famosi, che trattano temi controversi o rispondono a domande formulate da utenti dei social network. In buona sostanza, siamo di fronte a un repertorio variegato che si tuffa nel web per attendere una certificazione di rilevanza, sondando i gusti e i giudizi di generazioni ormai lontane al telecomando.
È stata proprio la rete, che prometteva di annientare la televisione, a costruire invece un sistema di vasi comunicanti capaci di nutrirsi a vicenda, permettendo allo spettatore di sfruttare la disintermediazione e di costruirsi un palinsesto su misura. I segni distintivi di questa trasformazione erano stati già individuati nel 2014 da Luca Barra (Palinsesto. Storia e tecnica della programmazione televisiva in Italia, Roma-Bari, Laterza) e Irene Piazzoni (Storia delle televisioni in Italia. Dagli esordi alle web tv, Roma, Carocci). Non riuscendo più a essere il punto di incontro fra emittente e pubblico, o fra industria e consumo, il “palinsesto” lascia spazio al “catalogo”, dissolvendosi all’interno di un paesaggio mediale complesso che separa il prodotto dalla sua messa in onda. Lo stesso progresso tecnologico risponde a spinte eterogenee – lo ha chiarito bene Peppino Ortoleva nelle sue “lezioni” (Media-storie, Roma, Viella, 2020) – offrendo di volta in volta risposte a bisogni culturali, politici ed economici dotati di una loro concretezza storica, e quindi indagabili in primo luogo con il metodo storico. Anche sulla base di queste analisi, riusciamo a comprendere come i vorticosi cambiamenti in corso non abbiano spazzato via il potere del vecchio “piccolo schermo”, ancora in grado di intromettersi, sia pur in maniera indiretta, nella produzione di discorso pubblico.
Nello specifico, le piattaforme liberano gli spettatori dai principi ordinatori che erano soliti scandire le loro giornate, dando agli individui la possibilità, o forse la semplice sensazione, di comporre scalette personali. È importante tuttavia sottolineare come questi processi distributivi stimolino anche la convergenza di molteplici dispositivi sui medesimi contenuti, che proprio per le reti “generaliste” della tv tradizionale erano stati ideati. Si pensi ad esempio alle comunità di appassionati che hanno contribuito alla fortuna della serie Mare Fuori condividendo interviste, commenti, recensioni, anteprime. O si considerino sul versante opposto – quello delle iniziative industriali – le scelte di Discovery e Sky, che provano a trarre beneficio dalla popolarità di personaggi e programmi già affermati, accaparrandosi celebrità come Fabio Fazio, Amadeus, Gialappa’s Band, o comprando i diritti per trasmettere X-Factor, Italia’s Got Talent e Pechino Express.
Nel descrivere questo scenario di grandi metamorfosi, siamo comunque costretti a fare i conti con una delle più grandi singolarità del nostro paesaggio mediatico: il successo strabordante del Festival di Sanremo. La polverizzazione dei consumi di contenuti su molteplici dispositivi e piattaforme avrebbe potuto configurarsi come un ostacolo invalicabile per l’agognato trasversalismo nazionalpopolare della rassegna canora. Ma gli sviluppi degli ultimi anni hanno acquisito una fisionomia ben diversa. È stata proprio l’espansione transmediale dell’evento a creare, al contrario, una straordinaria occasione di interazione fra persone di diverse età. Non importa che si segua la trasmissione in diretta su Raiuno, che si leggano i commenti su Facebook, Twitter (ora denominato X) o Threads, che si guardino i video su Tik Tok, Instagram o Youtube. L’importante è essere presenti, pronti ad affrontare la discussione e ad essere parte del grande gioco, costi quel che costi.
Il Festival di Sanremo ci consente, in estrema sintesi, di uscire dalle nostre bolle social, stimolandoci a convergere attraverso i nostri dispositivi tascabili e i nostri profili social su un unico spettacolo. Ci riporta – con un salto all’indietro di sapore quasi nostalgico – dentro la sincronia del vecchio tubo catodico, dandoci la possibilità di condividere opinioni, giudizi e preferenze con le persone che ci circondano, nella consapevolezza di star facendo tutti la stessa cosa nello stesso momento (senza che si tratti della trasmissione in diretta di un grande evento sportivo). Proprio per la comprensione di questi passaggi risulta cruciale la lettura di Mondovisione di Alice Valeria Oliveri. Con un paragone felicissimo, l’autrice ci invita a immaginare il web come una biblioteca infinita, nella quale è possibile scegliere in solitaria il prossimo testo da leggere. La tv invece aspira a essere, ancora oggi, un gigantesco circolo di lettura con milioni di iscritti che si radunano in un orario preciso per poter parlare insieme dello stesso libro. Questo obiettivo – in condizioni ordinarie – sembrerebbe essere ormai irrealizzabile, chimerico, anacronistico. Ma ogni anno, almeno in Italia, ai primi di febbraio l’utopia smette di essere tale e assume i contorni del reale.
Buongiorno, ringrazio la signora Tajani per avermi offerto lo spunto per alcune riflessioni del tutto personali.
Negli ultimi anni, essendo una grande appassionata di storia, seguivo con grande interesse il canale 54 Rai. Rai Storia, appunto. Fino a una diecina di anni fa, i programmi divulgativi e documentaristici erano di altissimo livello. BBC, e non solo, ricostruzioni praticamente perfette ed era come leggere saggi illustrati, una delizia. In particolare ricordo un programma condotto da un grande divulgatore, Massimo Bernardini (ora scomparso dopo essere stato relegato per qualche tempo, e inscatolato, in un piccolo format chiamato “TV talk”). Il programma era in fascia preserale, si chiamava “Il tempo e la storia”, con una splendida sigla di Ivano Fossati (“C’è tempo”). Ogni sera storici illustri, da Melloni a De Luna, si alternavano in un vero dialogo sulla storia. La professoressa, se non sbaglio nome, Silvia Salviati, fece uno dei più bei ritratti di Maria Montessori. Bernardini lasciava molto spazio agli storici, ma è un uomo curioso di suo, tenero, coinvolgente, arguto e sapiente. Il dialogo che ne risultava era entusiasmante. Niente a che vedere con la odierna supponenza di Paolo Mieli in “Passato e presente”. Mieli è sicuramente una grande persona molto preparata, ma si fa cadere dall’alto, ex cathedra, non coinvolge. Pasolini direbbe che queste mutazioni di palinsesto parlano chiaro. La televisione, e lo dimostrano anche i film di Rai Storia il sabato sera (Cinema Italia) e della domenica sera (Binario cinema), hanno preso una brutta piega, che puzza molto. Francamente questo è il mio ultimo commento su questo splendido canale che era ed è stato un vero approfondimento storico, basti pensare al documentario sul Grande Balzo in avanti, della RPC, che diceva veramente la verità sull’Olocausto contadino perpetrato da Mao. Ora la mia vecchia televisione non può più prendere il canale. Non m’importa molto. Non perdo molto. Rimpiango quell'”anello smarrito in un prato” di cui parlava la canzone di Fossati.