Il necroforo
di Jacopo Biolatti
Un’ombra si trascina ossequiosa tra le logore lapidi del cimitero di Bouchet, all’ora del crepuscolo in cui si accendono i primi lampioni. Questa metropoli di fioche luci, le uniche visibili tra le colline blu notte, esiste dall’alba dei tempi; un amletico monumento alla caducità dell’essere, che con i secoli ha finito per superare in popolazione tutti i paesi della Valréas.
Tra le piccole aiuole di fiori appassiti, lasciati dai vivi ai loro sbiaditi ricordi d’infanzia, gli esili segnaposto di marmo riassumono, austeri, esistenze fatue. Il marmo non scompare, almeno per un po’.
Tra la penombra di questo tempio di divinità oscure, un suono di coltello che affonda nel terriccio rintocca, puntuale.
Un becchino dal lungo e impeccabile cappotto nero scava una fossa senza lapide. Pianta e sradica la sua pala rugginosa senza sosta, con l’affanno di chi ha fretta e la cura di chi sa che dovrà mostrare a Dio stesso il frutto del proprio lavoro. E ancora affonda e ancora estirpa le viscere di Gaia, e ancora, e ancora.
«Per chi scavi, necroforo, a quest’ora così tarda, una così profonda fossa?» chiede l’ombra, giunta a cinque passi di distanza.
«Per un corpo» risponde lui senza alzare gli occhi dal suo imprescindibile compito.
«A chi apparteneva quel corpo?»
«Un corpo non appartiene, un corpo è finché non diventa qualcos’altro.»
«E cosa diventa» insiste l’altra «quel corpo che non apparteneva?»
«Un corpo più grande, dice qualcuno.»
«…»
L’uomo continua senza sosta a conficcare nel buio la sua pala, che solo l’eterno ronzìo delle cicale separa dal silenzio.
«Perché sei qui?», domanda all’ombra il becchino.
«Cercavo qualcosa» fa quella guardando altrove.
«Beh, l’hai trovato.»
Un buon sorriso affiora sul viso del vecchio mentre volge la coda dell’occhio al suo interlocutore. L’aria assume una strana tinta tra queste colline, come di fuoco che cerca di uscire dal tizzone in cui è intrappolato. All’ombra ricorda il momento in cui la speranza svanisce.
Strappandola bruscamente dai pensieri in cui boccheggiava, il necroforo chiede a un tratto: «Lei dov’è?».
«Trentaseiesima lapide a sinistra e settantacinquesima in basso dall’entrata sud-est.»
«Proprio accanto al vecchio melograno. Amo anch’io riposarmi lì.»
Lo sguardo dell’ombra accenna al sentiero che risale il pendìo, tra le tombe di edera e foglie secche, tradendo una scintilla di pudore. «La verità» confessa «è che non l’ho mai conosciuta, è morta molti anni prima della mia nascita».
«Capisco» annuisce serio l’indaffarato becchino. «È una forma di coscienza molto alta, quella dell’uomo che inganna consapevolmente la realtà. Pensa, un giorno conobbi un vecchio dottore che raccontava di aver passato tutta la notte a disinfettare, da cima a fondo, l’intero paradiso. Egli assicurava con sincera sorpresa, malgrado il suo meticoloso lavoro, di non aver trovato alcuna traccia di Dio».
«E quale sarebbe la morale di questa storia?»
«La stessa morale di tutte le storie: non cercare Dio dove Dio non può essere».
A pochi passi di distanza due corvi si inseguono goffamente in un gioco di gesti ingenui, saltellando tra le impassibili carcasse della terra dissodata. Parlano una lingua antica e inequivocabile, fatta di parole mute e canti interrotti, che si perdono nell’umida eco di questi campi di uomini.
«Hai sentito?» mormora compiaciuto il vangatore, «questo luogo pullula di gemiti. Ma il cimitero sa far rispettare la quiete che gli si addice. Sa che il silenzio è un ottimo ascoltatore».
«E chi mai dovrebbe ascoltare il silenzio?»
«Ognuno ascolta sempre e soltanto sé stesso, il silenzio non fa eccezione». Il becchino dal lungo cappotto fa una breve pausa, come per assicurarsi che l’altra si stesse veramente ascoltando «Hai mai notato che i giovani tendono a parlare molto nei cimiteri? Al contrario, i vecchi non fanno che attendere, come cercando il compimento di una frase sospesa, uno spiraglio tra le soglie del presente. Pare che tutti imparino ad ascoltare, una volta pronti a parlarsi».
Segue una calma fiduciosa. Tre rintocchi. Il curioso visitatore nota, in questo istante, che la terra estratta dal necroforo sembra scomparire tra la penombra, come se il solo scopo del suo esserci fosse stato lasciare spazio alla fossa.
«Dove poggi la terra di cui privi la buca, necroforo?»
«Non può esistere privazione per colui che non possiede che sé stesso. Sai, mio eterno amico, a fondo ho contemplato questo luogo; ho visto il bosco diventarne un altro, un seme diventarne molti. Ho visto il cielo cessare di esistere soltanto per mantenere il proprio nome, gli stormi di rondini affannarsi ad inseguire la primavera. Si imparano svariate cose da un cimitero; la prima è che un nuovo vuoto colma sempre uno vecchio».
«Siamo quindi condannati al perpetuo vuoto?»
«Non hai ascoltato, dunque? Terra, seme, bosco, vuoto. niente di questo esiste. Esiste un corpo, e il corpo fa ciò che a lui serve». Una lacrima di sudore precipita dalla sua fronte, andando a dissetare la fanghiglia. «Tra queste valli si racconta ancora, ai piccoli, un’antica fiaba. Parla di un lupo, che un tempo errava per le foreste di Poulon, Il giorno la belva si sfamava con le greggi dei pastori, ma ogni notte, volgendosi alla luna, essa cantava il suo amore agli agnelli che aveva sbranato. Il corpo che confessa il corpo. Il lupo comprende il destino della sua danza, si dona alla sua tragicità. L’uomo invece si astrae, pretende di fare della sua felicità il pendolo della perfezione del cosmo. Ma soltanto dove ci sono sepolcri ci sono resurrezioni».
Un leggero alito si alza tra i rami spogli e le pietre adornate. L’alito dice: fluisci.
Il fragile fruscio porta in dono un fiore marcio di un ricordo trascurato. L’ombra lo raccoglie e lo interroga. La corolla ambrata china verso la bramata madre, i sepali corrucciati come palesi crisalidi. Dove prima non avrebbe scorto che la morte di una nascita, adesso trafuga il geroglifico dell’esistenza, sentendo dentro di sé un formicolìo tutto nuovo che rende dolce come neve quest’aria putrefatta.
«Direi che ci siamo» esclama soddisfatto il seppellitore «adesso non resta che riempirla».
«…»
«Daresti, giovane corpo, una mano ad un vecchio becchino affaticato dal molto lavoro?» chiede indicando una vecchia pala, appoggiata ad una panchina di ottone e legno marcio.
L’ombra si ridesta intontita, come di ritorno da un sogno troppo confuso per essere raccontato, getta il fiore nella fossa e si dirige verso la pala.
«Un ricordo per l’oblio?» domanda il necroforo alle sue spalle.
«Soltanto un presente al passato» risponde l’altro infilzando la pala nel terriccio madido.
Più la luce si dissolve, più l’ombra sembra farsi concreta nei suoi stessi pensieri. Una sensazione preme per farsi idea; il suo spirito sta prendendo corpo.
I due scavano in silenzio, con ardore e scrupolo, finché il necroforo, issandosi con solennità, annuncia «Ho scavato abbastanza. È ora che mi riposi».
Così dicendo appoggia la sua pala alla panchina, si avvia a passi sicuri verso la fossa che con tanta premura aveva plasmato e, come abbandonandosi, ci si sdraia dentro.
L’altro, intanto, continua a solcare il suolo, a creare nuovo vuoto per colmare quello vecchio. Ogni volta che la sua vanga penetra il terreno, percepisce nuova linfa incendiare le sue vene, palpitando come radici tra le crepe dell’argilla. Sente la sua anima espandersi come i vermi nella frutta ricolma di semi, come il vento tra le valli taciturne. Non pensava che la sua curiosità lo avrebbe portato così al largo, là dove il senso smarrisce sé stesso. Finalmente capisce le oscure parole del becchino dal lungo cappotto.
Il curioso visitatore realizza di essere ormai rimasto il solo vangatore dell’antico cimitero. Alza lo sguardo. La vecchia buca comincia man mano a riempirsi. Gli occhi, finalmente abituati al buio, scorgono al di là di essa una vaga movenza nella terra. Poco più in là un’altra, e al suo fianco un’altra ancora; una serie interminata di fosse senza lapide, identiche l’una all’altra, si spalanca di fronte a lui, fino a perdersi oltre la linea dell’orizzonte.
Riabbassa la testa, e ricomincia a piantare e a sradicare con minuziosità e determinazione, come se la terra stessa fibrillasse nelle sue braccia chiamandole a lei. C’è un lavoro da adempiere. Mentre scava percepisce una figura, buia come un’ombra, avvicinarsi discretamente dal sentiero.
«Per chi scavi, necroforo, a quest’ora così tarda, una così profonda fossa?» chiede l’ombra, giunta a cinque passi di distanza.
«Per un corpo» risponde lui senza alzare gli occhi dal suo imprescindibile compito.
«A chi apparteneva quel corpo?»
«Un corpo non appartiene, un corpo è finché non diventa qualcos’altro».
«E cosa diventa» insiste l’altra «quel corpo che non apparteneva?»
«Un corpo più grande, dice qualcuno».