Nel mondo di Francesca Alinovi. Intervista a Giulia Cavaliere
a cura di Pasquale Palmieri
La memoria dell’intera esistenza di Francesca Alinovi è ancora oggi prigioniera della cronaca nera. Tutto quello che la riguarda sembra essere stato offuscato in modo inesorabile dalla sua morte, avvenuta il 12 giugno del 1983 tra le mura di un appartamento bolognese, in uno scenario segnato dalla violenza. Ma Francesca Alinovi fu, prima di tutto, una delle intellettuali più importanti e innovative del suo tempo. Alle sue iniziative culturali, alla sua creatività e alla sua scrittura è dedicato un libro appena uscito per Electa: Quel che piace a me (2024). L’autrice Giulia Cavaliere ha accettato con generosità di rispondere alle domande che le ho posto per Nazione Indiana.
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Il tuo incontro con Francesca Alinovi comincia proprio dalla casa di Via del Riccio 7, che nella prima metà degli anni Ottanta finì al centro di una tempesta mediatica di rara intensità. Descrivi in modo minuzioso gli oggetti d’uso quotidiano della tua protagonista: “due moke, un pentolino appoggiato storto sul piano cottura, tazze azzurre e piastrelle bianche con fiori e strisce ricurve arancioni”, insieme a “piccoli contenitori colorati per dipingersi le unghie, così ordinati e insieme così fuori posto”, inaspettatamente “schierati in cucina, allineati accanto alle vivande”. Come sei riuscita a separare il tuo sguardo dai tanti racconti (d’orrore) ambientati in quel luogo? Non temevi che la tua immaginazione e la tua indagine potessero uscirne condizionate, come del resto è accaduto a tante altre persone?
Questo piccolo libro è nato proprio dal desiderio di contribuire ad allontanare la figura di Francesca Alinovi dal pensiero unico del suo femminicidio per provare a unirmi a quelli che nel tempo hanno desiderato restituirla alla sua vita, al suo lavoro, alla sua rivoluzione di critica e scrittrice, insomma al suo operato e alla sua immensa vitalità creativa in un preciso momento della storia di questo Paese. Avendo a disposizione, per motivazioni legate alla struttura stessa della collana Oilà di Electa a cui il libro si è unito, un numero di pagine ridotto, ho cercato un espediente narrativo che mi permettesse di restituire subito agli eventuali lettori questa prospettiva. Alcuni anni fa, facendo ricerche sul lavoro di Alinovi, mi ero imbattuta in alcune fotografie della polizia scattate nel suo appartamento dopo il ritrovamento del suo corpo e per me quelle fotografie, da subito, sono diventate fotografie di vita e non più di morte, fotografie piene di libri letti, fogli scritti, oggetti della vita di ogni giorno, perché un luogo dove si vive e si lavora è un luogo di vita, di espressione della creatività, di scambio con le persone che lì entrano e da lì escono. Così ho pensato di partire proprio dalla descrizione di quelle foto, ingrandendo dettagli e angolazioni, per disegnare un racconto di quella casa, convinta del fatto che sospendere la narrazione della casa di Via del Riccio come scenario di un omicidio fosse un buon modo per sospendere per un attimo, e poi magari da lì in poi, anche il racconto di Francesca Alinovi come di una generica protagonista di un fatto di cronaca nera, per trasformare un racconto di morte nel racconto della vita di un’intellettuale rivoluzionaria la cui lettura resta, ancora oggi, uno strumento di conoscenza straordinario.
Nell’incontro con Francesca Alinovi metti in gioco anche la tua soggettività.
Non credo nella scrittura senza implicazione dell’autore o dell’autrice, cioè non amo chi cerca a tutti i costi di togliere il soggetto e la soggettività dalla scrittura. Non sono interessata, e non lo ero in questo caso, all’enfasi o alla perdita di controllo ma credo che proprio vista la materia incandescente sia stato essenziale muoversi in un racconto sì di prospettiva (quella dell’autrice cioè la mia, ovviamente) ma tenendo saldamente i piedi nella storia e nella vita di Alinovi senza perdere di vista la questione centrale, cioè il suo lavoro, la sua storia, ma semmai tenendola in tensione con il modo in cui chi scrive l’ha ricevuta, l’ha conosciuta e desidera condividerla con i lettori.
Uno dei tratti distintivi dell’attività intellettuale di Francesca Alinovi è il “continuo lavoro sullo sconfinamento”, che consente di far emergere contaminazioni, ibridazioni, spostamenti di prospettiva, sempre in bilico “tra basso e alto, massa ed élite, sporcizia e raffinatezza, tra gli angoli luridi e le feste esclusive, […] tra l’arte dei musei e quella della strada”. Ritieni che queste tendenze siano riconducibili all’atmosfera che si respirava nell’Italia della fine degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta? Pensi che siano riscontrabili in altre studiose e studiosi della stessa epoca? O ritieni che l’esperienza di Francesca Alinovi debba essere considerata come unica nel suo genere?
Ogni esperienza intellettuale è unica ma anche naturalmente in relazione con altre con cui condivide una visione, un approccio, uno sguardo. Nel libro ho cercato di raccontare come quei tratti distintivi nel discorso di Alinovi siano profondamente corrispondenti alle tensioni umane e culturali della sua contemporaneità, di quel passaggio di pieno postmodernismo, in cui i Settanta diventano Ottanta, in cui il collettivo e l’individuale sembrano coesistere per un attimo prima di darsi il cambio definitivamente. Alinovi sa esprimere e abitare quel momento storico molto bene e tramite le sue scelte e il suo lavoro di ricerca e di scrittura va a far parte, in posizione regale, di una costellazione di intellettuali, artisti, autori, creativi che sembravano vedere oltre, vederci più lungo. Penso a Pier Vittorio Tondelli, che infatti ho molto citato nel libro, che mentre le cose accadevano riusciva a codificarle con una lucidità quasi spaventosa, al punto che oggi le sue ‘cronache’ postmoderne restano la migliore fotografia di quel momento ed esprimono una capacità rarissima di trasformare il presente nel suo racconto per il futuro.
Il 1977 di Francesca Alinovi – lo sottolinei con forza nel tuo libro – non è solo un anno di conflitti e lacerazioni. Risulta invece cruciale “dal punto di vista del costume, dell’intrattenimento e della cultura”, e si configura soprattutto a Bologna come un “frammento rapidissimo di tempo, una porta delle illusioni, un antro di passaggio pronto, dopo un attimo soltanto, a cambiare forma, a diventare qualcosa di diverso”. Quanto credi sia importante provare a rileggere questo tornante della nostra storia?
In questi ultimi anni sono usciti molti libri che provano a raccontare gli anni ’70 e in particolare quel frammento che dal movimento del ’77 si getta negli 80s, dando origine insomma al famoso riflusso. Io la penso un po’ come Miguel Gotor che fa finire i ’70 nel 1982. Quel momento di passaggio, in cui quella che nel libro chiamo “porta delle illusioni” è appena stata varcata definitivamente, è secondo me un momento cruciale e dei momenti di passaggio esprime perfettamente la forza creativa, le pulsioni, il senso di rilancio, il gusto del tentativo, dell’osare. Dal punto di vista artistico e culturale in quegli anni sono nate o si sono consolidate per sempre alcune tra le realtà più interessanti della storia della cultura dell’occidente. Se penso per esempio alla musica, che è ciò di cui principalmente mi occupo, anche solo in questo campo stiamo parlando di un momento altamente prolifico, persino magico. Nel libro ho cercato di fare entrare, per quanto possibile, anche frammenti di questa magia del reale di quel periodo perché anche restituire un piccolo ritratto di quel mondo significava restituire qualcosa di e a Francesca Alinovi e a chi ha lavorato davvero con lei.
Negli scritti di Francesca Alinovi riesci a rintracciare “concetti che troveranno in alcuni casi spazio nel discorso critico solo decenni più avanti”. Ti riferisci in particolar modo alla “retromania”, che continua a essere una presenza ingombrante nella cultura, o forse nel mercato culturale del nostro tempo.
Nel saggio che dà il titolo al mio libro e che uscì su Flash Art nell’estate del 1981, Alinovi a un certo punto sembra effettivamente profetizzare il concetto alla base del saggio Retromania di Simon Reynolds, uscito nel 2011. Alinovi scrive: «(…) in arte, architettura, design, musica, teatro-performance tutto sembra ritornare indietro per rilanciare in orbita maestri, stili, cose, suoni e corpi del passato. Un passato che galleggia in superficie e diventa pellicola estesa in senso orizzontale, su cui scorrono inventari di fronte ai quali ciascuno è chiamato a fare la propria scelta». Per la verità sono molti gli aspetti della fruizione e della relazione con l’arte (sia essa sonora, visiva, performativa) propria del nostro tempo che lei aveva già avvistato nel suo, anticipando teorie e visioni; lo stesso concetto di Arte mia, centrale nel suo discorso, racconta qualcosa di cruciale del modo in cui oggi l’arte entra e viene masticata dalle nostre vite e dalle nostre scelte, per non parlare dello scetticismo nei confronti della pratica artistica relegata alla produzione di oggetti confezionati dalla manualità.
Studiando i giornali dei primi anni Ottanta, ho provato stupore di fronte ai frequenti riferimenti al “delitto del DAMS”, se non addirittura ai “delitti del DAMS”. Ho fin da subito pensato che queste formule – usate per identificare diversi fatti di cronaca nera legati, anche in maniera indiretta, al celebre corso di laurea dell’ateneo di Bologna – avessero l’ambizione di sviluppare un paradigma denigratorio ad ampio raggio, finalizzato a condannare un’intera generazione di persone impegnate nel campo della scrittura, delle arti figurative e della critica, ma anche animate da un forte bisogno di cambiamento. Siamo forse di fronte a un’opera di costruzione mediatica della memoria incentrata sulla morte, che potrebbe aver cancellato gli aspetti più creativi e gioiosi di tante vite, proprio come è accaduto a Francesca Alinovi.
Certo, sì, alla fine del libro dico proprio questa cosa, c’è stata una completa damnatio memoriae del lavoro di un’intellettuale in nome di uno scempio mediatico ai danni suoi, del suo ambiente creativo; anche nei titoli degli articoli è stato velocemente sostituito il nome proprio della vittima con un mondo intero (non più “Il delitto di Francesca Alinovi” ma “Il delitto del DAMS”), DAMS che a quel punto è stato trasformato dai media quasi in un carnefice. È un po’ come quando sentiamo dire che una donna, se esce con la minigonna, subirà un abuso ‘cercandosela’: Alinovi frequentando un certo ambiente aperto, nuovo, giovane, cosmopolita e non perfettamente allineato all’accademia e a chissà quali principi borghesi del tempo, se l’era dunque ‘cercata’ un pochino, no? Questa è una vergogna vera, c’è stato un vero e proprio tentativo di mistificazione e dunque di mortificazione di un mondo, un ambiente, intanto però era stata uccisa una grande scrittrice e critica d’arte e sarebbe stato fondamentale, anzitutto, lavorare da subito alla costruzione della sua memoria culturale proprio a partire da un’operazione di conservazione e di precisa organizzazione della sua produzione creativa e questo non è ancora accaduto.