Sangue mio, corri!
di Romano A. Fiocchi
Saba Anglana, La signora Meraviglia, Sellerio, 2024
Nel maggio 2009 mi trovavo a Santena per ritirare il Premio InediTO. Dopo i brani world music di un trio coordinato da Tatè Nsongan dei Mau Mau, la cantante del gruppo si esibì in una lettura espressiva del mio racconto Il gatto del soldato. Uno spettatore con gli occhi lucidi venne a stringermi la mano dicendo che non gli era mai successo di commuoversi per una storia inventata. Lo ringraziai e gli dissi: «Il merito non è mio, è della lettrice». La lettrice era Saba Anglana.

La conobbi in questo modo. E mi rimase il ricordo bellissimo di questa artista dalla voce e dalla dizione incantevoli, di profonda cultura e dai modi gentili. Ecco perché, non appena ho saputo della novità libraria, mi sono precipitato ad acquistare La signora Meraviglia. Che è una sorta di autobiografia di famiglia con l’atmosfera di Cent’anni di solitudine, proiettata non in Colombia bensì tra il Corno d’Africa e l’Italia. Il risvolto di copertina recita: «Saba Anglana (Mogadiscio, 1970), cantante, attrice, scrittrice». Sono gli elementi più autentici della sua identità, ossia il luogo di nascita e il suo essere artista. Il resto non ha importanza. Avere geni italiani ed etiopi, aver respirato per i primi cinque anni di vita l’aria della Somalia, sono tutti fattori che compongono la sua storia ma non fanno la sua persona. «La geografia aveva complottato con la storia e ne era uscito il capolavoro di un paradosso». Saba Anglana è un paradosso. Difficile capire chi si è quando si parte da un paradosso. Ecco, La signora Meraviglia racconta tutto questo.
Il libro che ha scritto Saba è un fiume che scorre con leggerezza, talvolta con vortici di umorismo, riuscendo così a rendere meno densa la drammaticità di certi eventi. Con una priorità: restare profondamente umani in ogni situazione narrativa. Saba crea il personaggio di se stessa e ne fa la voce narrante senza rubare la scena agli altri protagonisti, in primis ad Abebech, la nonna etiope, che sarà l’origine di tutto. È a lei che si rivolge sin dalle prime battute gridando: «Sangue mio, corri!», nonostante sappia benissimo che se l’inseguitore somalo fallisse, lei non potrebbe mai nascere. Questo è il paradosso: dal male nasce il bene. Dal gesto orribile di un rapimento nasce una saga familiare meravigliosa come il titolo del libro. La giovane Abebech, trascinata dalla natia Etiopia alla Somalia, in seguito abbandonata con due figli piccoli, saprà riscattarsi con una nuova vita in una nuova terra. A Mogadiscio troverà un amore vero, quello di Worku, che diventerà il nonno di Saba, partigiano etiope e reduce da un campo di concentramento italiano. Dalla loro unione arriveranno tutti gli altri: zia Marisa, zia Sofia, zia Esther, zio Domenico, zia Dighei, zio Bab, sua mamma Nina. E insieme a questa, suo padre Carlo, italianissimo.
Il libro è in realtà composto da due storie parallele che procedono a capitoli alterni. Alla saga della famiglia Worku si intrecciano le vicende recenti – pure queste frutto di un paradosso – della zia Dighei. Nata anche lei in Somalia, Dighei è in Italia da quarant’anni ma la guerra civile ha distrutto l’anagrafe di Mogadiscio e il suo atto di nascita è irrecuperabile. Ergo, non avendo provveduto all’epoca, non può richiedere la cittadinanza italiana (cittadinanza che, dopo una battuta di un’impiegata del Patronato, in famiglia chiamano ‘signora Meraviglia’). Ma l’irriducibile zia Dighei, aiutata da Saba, ci prova lo stesso e si lancia all’attacco della burocrazia in difesa dei propri diritti. In entrambe le storie emerge tutto un mondo fatto di miti, di leggende e di superstizioni, come i Wukabi, gli spiriti della famiglia. O il pozzo di Mogadiscio, da cui al calar della notte salgono i rumori dei lavori che le anime dei morti continuano a esercitare. O ancora personaggi magici come Wezero Dinkinesh, che tradotto significa proprio ‘Signora Meraviglia’, a cui bene o male bisogna affidarsi per combattere le influenze degli spiriti maligni e la ‘malattia’ che contamina ogni famiglia. Un mondo che il lettore riesce a penetrare proprio grazie alla mediazione culturale di Saba, ma anche alle sue denunce rabbiose:
«A guardare verso il mare con il sole alle spalle, oggi l’arenile a Mogadiscio sembra un tessuto di lamé. C’è un continuo bagliore, ma non sono i gusci a splendere, sono le pallottole, una quantità spaventosa di pallottole, munizioni esplose che si mescolano alle conchiglie».
Alla guerra civile (drammatica l’uccisione del medico italiano Giancarlo da parte delle bande degli indipendentisti somali), si aggiunge lo scempio dei rifiuti tossici:
«Il mare era diventato una distesa rossa come ruggine liquida. Di spalle, con la sua maglietta verde e le mani incrociate dietro la nuca, c’era Osman che guardava l’oceano, immobile. Davanti a lui brillava una distesa infinita di pesci morti che il mare aveva vomitato».
C’è spazio anche per episodi che costituiscono il bagaglio di memorie familiari, come la disperata storia sentimentale di Xalima, persa negli occhi color cobalto di Giorgio, per conto della quale Nina si presta a scrivere lettere d’amore in lingua italiana. Inutilmente. Perché Giorgio l’abbandonerà per tornare in patria e Xalima non troverà altra soluzione che farla finita:
«C’era tanto vento, il Gilal che soffia verso nord-est, forse era quello che portava i sussurri da lontano fin dentro il pozzo. Un bambino la vide aprire le braccia come un corvo e sparire improvvisamente dall’orizzonte della scogliera. Trovarono subito il suo corpo, la bassa marea non permise al mare di inghiottirlo».
A tutto questo inutile orrore – le guerre, l’inquinamento, le violenze, gli affetti traditi – Saba Anglana contrappone la frase più potente di tutto il libro: «La mancanza di amore si deve curare con l’amore».
In ultimo, segnalo l’esergo: Per Apo. Apo era il nomignolo affettuoso che la piccola Saba dava a suo padre. La signora Meraviglia è dedicata a lui.