Minitrilogia della schiavitù

di Leonello Ruberto

                                                        Uno schiavo

 

C’è un regolare contratto. E io l’ho firmato. Quindi è fatta.

Non sono nato schiavo, come gli schiavi del passato, se così era. Che ne posso sapere io che ho studiato poco.

So che oggi ci sono vari tipi di schiavi, non sono il solo. Alcuni sono di altissimo livello. Si tratta soprattutto di sportivi, cantanti o attori, messi sotto contratto a vita da qualche ricchissima persona.

Degli sportivi mi chiedo che se ne fanno una volta invecchiati, ma forse non è questo il problema. Hanno così tanti soldi che ragionano diversamente da me, forse vogliono andare sul sicuro, è una dimostrazione di potere. Si possono permettere di sprecare, anche una vita. E che può importare al diretto interessato, anzi è meglio per lui, forse si fa una lunga pensione dorata. Chi si tirerebbe indietro.

Io di soldi, stipendi e pensioni non mi dovrò più preoccupare, ed è per questo che ho accettato di essere uno schiavo. In questo senso forse assomiglio agli schiavi del passato, ma come al solito non ne sono sicuro perché che ne so io.

Qualcuno dice che non è giusto, ma c’è un contratto che ho firmato. E allora tutti dicono che si può.

Nel contratto è specificato che non si può disdire e che la fine è solo in caso di morte. Più chiaro di così. Non ci sono appigli, formule nascoste, l’hanno scritto dei bravi avvocati del padrone.

Ecco, mi sono già abituato a chiamarlo padrone, e non è peggio del vecchio padrone che era cioè il mio datore di lavoro. Il mio vecchio padrone mi faceva soffrire sul serio, perché stavo sempre sul filo del rasoio.

 

Vero, ora come schiavo sono obbligato a ubbidire da contratto, ma anche prima ero obbligato a ubbidire da un contratto che però si poteva disdire. E non ero certo io a volerlo disdire perché avevo bisogno di quel contratto, e disdirlo voleva solo dire cercarsene un altro.

Quindi cosa cambia, ne firmo uno per sempre ed è fatta. Almeno mi tolgo quell’illusione che crea tanto disagio.

Questo è stato il mio ragionamento e come darmi torto. Addirittura alcuni arrivano a dire che sono fortunato a essere uno schiavo. Mah, non so, la fortuna è un’altra cosa.

Si sa, ognuno dice la sua, siamo tutti diversi e vogliamo sentirci diversi, ma poi di fronte a qualcosa di regolarmente firmato siamo tutti d’accordo.

La cosa peggiore sono i parassiti della società, quelli che vivono come capita, che sfruttano il ricco sistema perché a loro basta poco per campare e che gli altri si arricchiscano pure. Eh no, non funziona così, tutti abbiamo l’obbligo di cercare di arricchirci. E quello che è in più va buttato, non dato ai parassiti. Non vanno incoraggiati.

Allora essere un regolare schiavo è davvero un’alternativa, per chi non ci crede alla possibilità di diventare ricco (non volerlo, come ho detto, non è permesso).

Io avrei voluto solo stare in pace. E ora lo posso fare. Magari dimostrerò davvero che esistono gli schiavi contenti.

 

 

                                                        Cani guida

 

Il numero di cani è ormai arrivato, dall’essere uno ogni due persone, a uno per persona.

C’è anche chi ne ha due o tre, ma chi non ne ha nessuno è ormai ai margini della società. Non in senso economico, anche chi vive per strada ha un cane, ma nel senso di poter stare, e muoversi, in questa società.

Da quando le auto rimasero incastrate nelle strade e ci vedemmo costretti a scendere e muoverci a piedi, la semplice passeggiata quotidiana col proprio cane si è trasformata in qualsiasi percorso si voglia fare.

C’è stato un adattamento spontaneo. Non è facile districarsi tra le lamiere che invadono città, periferie e campagne, soprattutto guardando il proprio dispositivo.

Così l’essere vivente animale che è il cane al guinzaglio ha cominciato a farci da guida. Tanto lui deve camminare e non ci lascia sbattere a destra e sinistra.

Anche il rientro a casa ha cominciato a essere guidato dal cane, in quanto i dispositivi sempre più moderni non permettono a conti fatti di cui non ci rendiamo nemmeno più conto di distoglierci.

A questo si aggiunge il fatto che da tempo i dispositivi non hanno più pulsanti, quindi nemmeno quelli di accensione e spegnimento, e che anni fa sono spariti pure i piccoli led rossi di notifica silenziosa, quindi il dispositivo si illumina tutto ogni volta che è necessario, anche di notte. Il volume non si può più abbassare per nostra scelta, nel senso che si è scelta la comodità del volume che si regola da solo secondo le esigenze. Che possono essere nostre, o del mercato nel caso delle pubblicità che finanziano i nostri dispositivi: in questo caso per forza di cose il volume solitamente è alto e richiede la nostra particolare attenzione.

Quindi in quanto esseri umani che necessitano di sonno continuato finiamo per essere molto stanchi e storditi durante la giornata. Per fortuna che il nostro cane ci riporta a casa e ci guida anche dentro, sta all’erta accorgendosi che ci stiamo alzando dal letto per andare in bagno, ci tiene d’occhio mentre pisciamo a porta aperta armeggiando con il dispositivo che ci ha svegliato per chiederci qualcosa.

Questi cambiamenti non hanno impattato sul mondo del lavoro, in quanto lavoriamo coi dispositivi. Quando le auto, sempre più prodotte e sempre più grosse, finirono per bloccarsi per le strade e nei parcheggi da cui non potevano più uscire, e questo non successe dappertutto contemporaneamente, comunque i produttori non si fermarono. Finché non si è riempito tutto. I telegiornali nei primi tempi mostrarono la tragedia dei depositi pieni di auto prodotte che non potevano più andare da nessuna parte. Ma come per ogni tragedia se ne parlò per un periodo limitato.

I produttori che prima non avrebbero saputo come fare a meno di quella produzione cascasse il mondo avranno trovato altro da produrre, che ne capiamo noi cittadini di economia a certi livelli.

Lamentele non se ne sentono, men che meno da noi per come viviamo, trascinati da un guinzaglio tra i fianchi delle automobili con passaggi stretti e tortuosi, tornando nostro malgrado a casa con qualche livido su cosce e braccia, per quanto il nostro cane stia attento a evitarcelo.

Così quella che alcuni malignamente insinuarono fosse una moda, la moda di avere il cane, in barba al fatto che sia un essere vivente che vive per un certo numero di anni e non un vestito che si cambia (ma sappiamo che anche i vestiti impattano), osando ammettere che le persone siano irresponsabili, alla fine comunque è tornata utile, molto utile, anche per quei pochi che si opposero dicendo qualcosa e sono stati zittiti dalla realtà.

Nella confusione che è la nostra quotidianità comunque sopravviviamo. Ci siamo adattati e si sono adattati i nostri animali, nonostante la tecnologia non c’entri niente con loro. Sembra che nemmeno si azzuffino più tra di loro quando si incrociano per le strade, occupati a non perdere di vista il proprio padrone con la testa piegata sul dispositivo nel guardarlo. Forse hanno anche rivisto il concetto di territorio, che non è più quello esteso animale, ma quello umano di recinti e portoni, così si evita di abbaiare e scatenare inutilmente il pandemonio quando solo si passa davanti a un recinto.

Purtroppo chi ha progettato i dispositivi è normale che li abbia fatti in modo da farceli usare il più possibile, è nei propri interessi, per quanto abbia potuto condizionare le nostre vite.

In tutto questo ha poco senso insinuare che magari anche i nostri cani, già che ci sono, aiutandoci enormemente, soddisfano i loro interessi personali.

Portandoci fuori secondo i loro bisogni, così che magari i nostri orari e percorsi sono scanditi e tracciati in base ai bisognini.

 

 

                                                         Robot

 

Sono abbastanza vecchia da ricordarmi di un sogno, che avevamo un tempo, di un futuro in cui i robot avrebbero lavorato al nostro posto.

Non molti se ne ricordano oggi, almeno a giudicare dalle brevi chiacchierate che ci facciamo coi colleghi mentre siamo chini sulle nostre faccende.

Io nei più lunghi momenti di solitudine lavorativa fantastico pensando alla storia del genere umano, alle invenzioni che avrebbero cambiato il mondo e reso il nostro futuro più facile.

Lo scopo sembra sempre essere stato quello, il progresso, il miglioramento dell’umanità. Fino a un certo punto.

C’erano già dei segnali quando io ero giovanissima, tutto era regolato, giustamente perché non c’era alternativa, dal mercato. Il mercato dava la spinta. Fortissima. Senza non c’era efficienza, era tutto lento. Ma si vedeva che spesso i risultati del mercato non coincidevano con un vero miglioramento. Se un’innovazione non porta guadagno, a che serve? Così si selezionavano le innovazioni, e quelle che in qualche modo ci avrebbero reso più liberi, anche dalle leggi del mercato, venivano lasciate da parte.

Ero giovane e ingenua. E studiavo. I giovani che fanno questo si immaginano il proprio futuro, credendolo possibile, in fase di realizzazione. Nemmeno tanto lontano.

Mi piaceva leggere, dipingere, creare, studiare per il gusto di farlo. E pensavo che facendo parte io, come tutti, dell’umanità, e seguendo io insieme a tutti gli altri il percorso dell’umanità verso il progresso, ne avrei goduto i frutti, i risultati.

Non mi pareva fantascienza immaginarmi donna adulta coi robot che fanno i servizi domestici per me mentre io dipingo la mia ultima tela, o qualsiasi altra cosa la mia creatività mi ispiri.

Non era così insensato pensare addirittura che le macchine avrebbero potuto lavorare per noi e a noi cittadini sarebbe toccata una parte dei redditi prodotti. Che cosa se ne fa un robot di uno stipendio?

C’erano però degli uomini saggi e ormai avanti con gli anni, che avevano lottato in un mondo di diseguaglianze sociali, ma anche di cambiamenti a cui loro stessi avevano contribuito, che avvertivano del pericolo. Magari con un semplice dubbio: le macchine sarebbero state in grado di lavorare per noi, ma chi sarebbero stati i padroni delle macchine?

Comunque non si arresta il progresso, che sia generato dall’atavica sete di conoscenza del genere umano o dal mercato.

Così i robot reali e virtuali sono diventati parte del nostro quotidiano. Io sono una donna comune, e siamo in tante, forse in proporzione non siamo meno di quanto saremmo state in qualsiasi medioevo della storia, e ho il mio lavoro come addetta alle pulizie.

Pulisco le macchine, i robot, e i luoghi in cui compiono le loro attività. Robot sempre più bravi e intelligenti, in grado di migliorarsi da soli. Sono loro a dipingere, comporre musica, scrivere sceneggiature e girare i film che alla sera guardiamo coi piedi indolenziti e la schiena dolorante per le fatiche fisiche che loro non sono in grado di compiere.

E per fortuna che ci sono cose che le macchine non sono in grado di fare da sole, i cosiddetti lavori, appunto, manuali. In cui ci vuole una certa manualità, umana. Altrimenti resteremmo senza lavoro e senza lavoro non si mangia, che è il limite del genere umano. O magari sarebbero in grado, ma sono diventate tanto intelligenti da non avere voglia di farlo.

Non sappiamo il reale grado di intelligenza raggiunto, sembrano non saperlo nemmeno i loro inventori, o forse lo sanno ma preferiscono tenere il segreto. Un po’ come la legge del mercato che sembra regolarsi da sé pur essendo fatta da noi. Ma come direbbe qualche vecchio che ha combattuto le vecchie battaglie del mondo di prima dell’intelligenza artificiale, chi fa parte di questo “noi”?

Potrei chiedere a mio marito – eh, da ragazza immaginavo addirittura che non ci sarebbero stati più i mariti e le mogli, non nel solito senso –, lui potrebbe saperne qualcosa di più.

Perché ha un lavoro migliore del mio, nel campo della manutenzione, come praticamente tutti. Però lui si occupa della parte informatica: di pulizia informatica, manutenzione software. Le intelligenze artificiali ne hanno bisogno per funzionare.

Ricomincio a fantasticare pensando ai vecchi romanzi o film in cui i robot si ribellano agli umani, immaginando una ribellione degli umani verso i robot.

Ma non la vedo possibile, non siamo così uniti, non abbiamo percezione di questa unità. Posso solo intuirla, sentirla dentro di me e crederla concretamente realizzabile come facevo da ragazza col mio futuro.

In ogni caso una rivoluzione del genere non potrei realizzarla nemmeno con l’immaginazione, che ne so, in un libro, perché non tocca a noi umani scrivere i libri.

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