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L’esodo da Gaza – non cercavamo la vita quando lasciammo Gaza

di Yousef Elqedra

All’amico Moheeb Barghouty,
là dove ti trovi,
là dove le anime continuano a dimorare tra le rovine del tempo, fra queste la tua.

 

 

La salvezza, un’altra ferita

Caro Moheeb,

ti scrivo non per annunciarti una salvezza, ma per raccontarti come la salvezza stessa possa essere un’altra ferita: una ferita antica che si rinnova.

Sì, abbiamo lasciato Gaza. Ma Gaza non ci ha lasciati. Tutto ciò che è accaduto è che ora la portiamo in noi, sotto forma di strati invisibili, come la linfa di un albero che conserva memoria di ogni tempesta, carestia e morte.

Abbiamo valicato il nostro carnefice, armato fino ai denti. Abbiamo valicato ma senza gli amici rimasti intrappolati. E quando abbiamo attraversato il mare, credevamo che l’acqua potesse lavare la memoria, tuttavia ho realizzato che la memoria non dimora nella pelle, per staccarsi da essa col sale, bensì vive nell’osso, nel suo midollo più segreto, laddove né le onde né il perdono possono raggiungerla.

Qui, a Marsiglia, il mare è diverso.

Il suo azzurro non somiglia all’azzurro del mare di Gaza.

Qui, il mare è quieto, adagiato come un’anziana stanca di raccontare storie.

Il nostro, invece, era un giovane mare impetuoso e tumultuoso, che scalciava la riva come chi tenta di evadere da una prigione.

Ogni cosa, qui, sussurra alle schegge del mio cuore: la vita è possibile.

La gente cammina con calma, parla con dolcezza, persino il dolore qui è sommesso.

Ma noi, venuti dal fuoco, portiamo nei nostri passi l’eco di un’antica esplosione.

Ora siedo al caffè accanto alla finestra, fumo come atto di rivalsa contro la privazione,
e fisso l’azzurro di questo mare estraneo, chiedendomi:

chi di noi si è davvero salvato?

Chi è rimasto laggiù sotto le macerie?

E chi di noi è sopravvissuto per morire lentamente qui, nel grembo di un esilio preso in prestito?

 

 

Una morte lenta, ma meno crudele stavolta

Moheeb,

non cercavamo la vita quando lasciammo Gaza.

Cercavamo un altro tipo di morte:
una morte lenta, meno crudele.

Una morte che non ti sorprenda sotto le macerie,
ma ti raggiunga sotto un albero,
su un marciapiede,
o tra amici che ridono ignari del fatto
che tu stai agonizzando da tempo
per la delusione, i silenzi inquietanti, le complicità.

Qui, l’assenza è più grande di ogni cosa.

Né i volti dei passanti colmano il vuoto,
né le risate dei bambini nei vicoli restituiscono all’anima la sua gioia.

L’esilio non è il luogo. È il tempo.
L’ho compreso da prima.

E qui, il tempo scorre in modo diverso,
come se fossimo stati tagliati fuori dalla linea originaria della nostra esistenza.

Siamo diventati parassiti di un tempo
che non riconosce il nostro dolore
né ci chiede conto delle nostre perdite.

Sai, amico mio, qual è la cosa più crudele?

Scoprire che la patria ti ha lasciato prima ancora che fossi tu a lasciarla.

Renderti conto che le case che amavi sono divenute polvere,
che le strade che conservavano l’eco dei tuoi passi
sono state rase al suolo.

E che, se mai tornerai,
tornerai al vuoto,
alle tue rovine.

 

 

Il fantasma di mia madre

Caro Moheeb,

non scrivo per lamentarmi.

Scrivo perché la scrittura è l’unico modo per convincermi di non essere morto del tutto.

Che una piccola parte di me ancora respira, soffre e scrive.

Nelle ultime notti, il fantasma di mia madre mi fa visita.

Non parla.

Si siede soltanto sul bordo del letto
e posa la mano sul mio capo,
come faceva quando ero bambino e tremavo per gli incubi.

Apro gli occhi,
scorgo solo tenebre
e capisco che il vero incubo
non è sognare,
ma svegliarsi.

A volte mi chiedo:

cosa significa essere umani dopo la devastazione?

Come si può piantare speranza in un pianeta avvelenato dalla disperazione?

Come si può sorridere,
quando i ricordi ti riempiono la bocca di cenere?

Qui, a Marsiglia, tra amici e sconosciuti, ho capito che l’uomo non sopravvive perché è il più forte,
ma perché è il più abile a fingere.

Finge di stare bene, per poter credere alla propria menzogna.
Finge di dimenticare, per reggersi in piedi.
Finge di amare il mare, per non piangere davanti ad esso come un bambino smarrito.

È forse questa la salvezza?
Una bugia ben recitata?

O forse la vera salvezza -come diceva un vecchio mistico, di cui non ricordo il nome-
è sapere di essere già morto,
e continuare a vivere comunque,
con un sorriso beffardo sulle labbra?

 

 

la terra che mi ha rigurgitato

Caro Moheeb,

So che è greve questa lettera,
ma tu, tra tutti, sei l’unico a sapere
che le parole, quando ti spezzano, diventano più vere.

E che il silenzio, quando si prolunga,
non è pace, ma perdita.

Tu lo sai, come lo so io:
il dolore non guarisce mai davvero,

le ferite più profonde non si rimarginano,
ma diventano galassie che ruotano dentro di noi,
tracciando l’orbita delle nostre anime intorno alla loro assenza.

Cerco la patria nei volti degli amici che mi somigliano nell’esilio,
nello sguardo dell’amato Moneim Adwan,
che intuisce senza bisogno di parlare,
in una triste canzone yemenita che fugge da una finestra aperta dell’amico Jamil Sabea.

Capisco che la patria non è una geografia,

è una memoria condivisa di dolore.

Sto imparando a essere figlio dell’esilio,
senza dimenticare di essere figlio della terra che mi ha rigurgitato.

Ti scrivo queste parole perché sento il bisogno di lasciare un’altra traccia,
non solo i miei passi tremanti sui marciapiedi di Marsiglia
ma un’impronta familiare ad un amico,
un amico che sa che dietro i grafemi infranti
si nasconde un desiderio folle di riconciliarsi con la perdita.

Moheeb,

non ti chiedo di rispondere.
Va’, fuma il tuo narghilè e maledici il mondo.

A me basta che tu sappia che ci sono,
che esisto nonostante tutto,

porto Gaza nel cuore come una ferita bella,
e Marsiglia sulle spalle come una croce leggera.

Resta laggiù, o vieni un giorno a vagabondare con me per le strade. È lo stesso.

Alla fine, siamo tutti intrappolati nel medesimo viaggio:

un viaggio alla ricerca di una piccola luce
in fondo ad un lungo tunnel.

Il tuo compagno tra due inferni,

Yousef

 

 

_______________

Testi di Yousef Elqedra, con una sua foto del porto di Marsiglia, dove si trova oggi il poeta palestinese. “L’esodo da Gaza” è apparso su raseef22, questa traduzione è di Sana Darghmouni. Di Elqedra Nazione Indiana ha già pubblicato L’altro volto della resistenza e la serie “Memorie da Gaza”.

 

2 Commenti

  1. Grazie di aver pubblicato questo testo/lettere. Bellissime, commoventi, e anche strazianti.

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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