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Un italiano nell’Inghilterra di Shakespeare

(Da antico lettore di Frances A. Yeates, sono davvero felice di questa prima pubblicazione italiana –  esce oggi! – di un libro scritto quasi un secolo fa. Parlo di John Florio. La vita di un italiano nell’Inghilterra di Shakespeare di Frances A. Yates. Un libro che si addentra nella vita, negli interessi, negli studi di John Florio – insegnante e forgiatore di parole, «italiano di lingua e inglese di cuore» – raccontando un’epoca intera. La raffinata CasadeiLibri Editore finalmente gli dà vita, grazie alla curatela di Giorgio Ghiberti. Ho chiesto all’editore, che qui ringrazio, il permesso di pubblicare l’introduzione del curatore. G.B.)

di Giorgio Ghiberti

Novant’anni sono passati dal 1934, quando uscì quest’opera prima di Frances Amelia Yates, una storica delle idee che ha dedicato l’intera vita allo studio della cultura europea dei secoli XVI e XVII, applicandosi in particolare all’Inghilterra d’Elisabetta, e a Italia e Francia coeve. Nata sulla Manica, a Southsea, di fronte all’isola di Whigt, nel 1899, si laureò in francese, da ‘esterna’, all’University College di Londra nel 1924, perfezionandosi (‘Master of Arts’), da interna questa volta, due anni dopo. Non era il percorso di studi più appropriato, per chi volesse tentare una carriera accademica ― né la cosa sembrò mai interessarle, in effetti. Nel nido famigliare, sconvolto dalla guerra per la morte in battaglia del fratello Jimmy nell’autunno del 1915, Frances si mantenne sempre al sicuro; e nella ‘New House’ di Claygate, un paesino del Surrey distante meno di 15 miglia da London City, dove gli Yates si trasferirono nel 1925, ella visse sino alla morte, e scrisse tutte le sue opere.

I suoi interessi, centrati dapprima sulla cultura francese, si focalizzarono presto sulla figura di John Florio, e portarono alla pubblicazione del presente volume. Dopo questo suo primo incontro con il grande intellettuale italo-inglese, la Yates prese poi a seguire tutta una serie di intrecci, rimandi e collegamenti, che da lui la spinsero verso Giordano Bruno, e poi da questo a tutta la tradizione ermetica dei suoi tempi, all’occultismo, alla magia, alle complesse ricerche iconologiche che l’approfondimento di quella tradizione richiedeva. Da questi studi d’iconologia nasce il suo lungo rapporto di collaborazione con l’Istituto Warburg, che da Amburgo era stato costretto, nel 1933, a trasferire in fretta la sua sede, e la preziosa biblioteca, a Londra. Parallelamente, la Yates portò avanti, con continue ricerche e pubblicazioni, i suoi studi su William Shakespeare e sul mondo letterario elisabettiano.

Il suo carattere indipendente, ma anche particolarmente sensibile, e la sua completa dedizione alla ricerca, la tennero, dicevo, sempre lontana dal mondo universitario (dal quale le arrivarono, come non è infrequente in questi casi, anche delle critiche); ma la notorietà internazionale acquisita con la pubblicazione delle sue opere profonde e innovative, e presto tradotte anche in Italia, fu notevole. Ed è giusto ricordare qui i suoi intensi rapporti con i nostri migliori studiosi del tempo: dal Cantimori al Garin, da Paolo Rossi a Cesare Vasoli.

Attiva sin quasi alla fine, Frances Yates, ultima della sua famiglia, morì nel 1981, nella ‘New House’ di Claygate, dopo aver perso, l’anno prima, la sorella Ruby.

Ma è solo sull’opera che qui si presenta e sui criteri seguiti per questa prima, e così tardiva, traduzione italiana, che ora vorrei fermarmi. La figura di John Florio è già grande di per sé, nella storia della cultura e della lingua inglese durante i fondamentali decenni a cavallo del XVI e XVII secolo, ma si carica d’un interesse ancora più grande se la si guarda sullo sfondo della ‘questione Shakespeare’, cioè quella dell’identità, formazione e frequentazioni del Bardo. Come una corrente carsica, tale questione ci ha accompagnato, più spesso ipogea, ora invece piuttosto epigea, per tutti i quattrocento anni che ci separano dalla pubblicazione del cosiddetto First Folio scespiriano. Ma non è cosa che io possa discutere qui: me ne dissuade la consapevolezza che ho di me, della mole spaventevole della bibliografia, e anche ― lo devo pur dire ― dei pericoli segnalati dal ben informato e gustosissimo Il Cenacolo Shakespeare di Luigi Ferrari, al quale rimando chiunque volesse sottostimare il problema. Comunque, su questa perigliosa strada, una prima tappa imprescindibile è costituita appunto dal libro che ora vi trovate in mano.

La passione e la tenacia che l’Autrice esibisce nel seguire passo passo il suo Florio, e che saranno ben chiare leggendo, si vanno snodando per una narrazione che procede ― secondo un uso certamente tipico dell’inglese, ma qui elevato al quadrato ― con un andamento fortemente paratattico e con ampio uso del punto fermo: quindi periodi brevi, spesso di una riga o due, tre al massimo. Siamo quindi molto lontani, per tornare ai suoi amati elisabettiani, da qualsiasi nostalgia eufuistica. Un altro abito inglese, sappiamo, è la manica larga nei confronti delle ripetizioni: non

solo di avverbi e congiunzioni, ma anche di verbi e sostantivi; manica che noi italiani, invece, teniamo più stretta. Da qui allora la mia scelta di non seguire alla lettera l’andamento sintattico e lessicale dell’originale, ma d’introdurre (con grande misura, spero, e preservando sempre la fedeltà) qualche subordinazione; di allungare qualche periodo; di evitare qualche ripetizione.

Il quadro si complica maledettamente, invece, nel caso delle tante e spesso lunghe citazioni di poesia e prosa elisabettiane esibite dall’Autrice, delle quali non sono sicuro affatto d’essere riuscito a offrire una traduzione soddisfacente. In quei testi, infatti, si annidano parecchie trappole, a partire dall’ortografia, ben lontana ancora dalla normalizzazione, per arrivare ai modi di dire e alle frasi fatte; e la ricercatezza, l’oscurità, l’ambiguità sono talmente volute che spesso sembra che gli autori s’approfittino del loro lettore. Sarò quindi grato a chi mi segnalerà errori e sviste, gravi o meno gravi.

Nelle note del traduttore ― non poche, visto che il libro italiano è di oltre cento pagine più lungo dell’inglese ―, sempre chiuse fra parentesi quadre, si leggeranno soprattutto delle indicazioni bio-bibliografiche o lessicali: l’Autrice dà molto per scontato, presupponendo una conoscenza del mondo elisabettiano che, almeno qui in Italia, è più dello specialista che del lettore cólto.

Novant’anni non sono pochi, ma aprire la questione dell’aggiornamento sullo stato degli studi ci avrebbe portato troppo oltre.

Ho quindi ritenuto di fermare il calendario a quel 1934, intervenendo con parsimonia solo per riferire qualche notizia ineludibile.

Sarà bene comunque colmare già da ora un periodo lasciato vuoto da Yates: le ultime ricerche su Giovanni Florio, negli anni immediatamente successivi al suo ritorno in Inghilterra, nel 1571, lo collocano a bottega presso un tintore francese, Michel Baynard ― uno dei tanti réfugiés per motivi religiosi ―, e poi forse, dal ’74, morto il Baynard, presso un altro tintore, assai attivo fra gl’immigrati protestanti, il vicentino Gaspare Gatto (o Gatti).

Questo e altro si può ricavare dal recente lavoro di Carla Rossi: Italus ore, Anglus pectore. Studi su John Florio. Vol. 1, Londra, Thecla Academic Press, 2018 (= ROSSI, nelle note), non privo tuttavia di qualche imprecisione.

Ma il tempo passa in fretta, e se avviai la traduzione per i novant’anni del libro della Yates, ora la termino per i quattrocento che ci separano dalla morte del suo protagonista (1625): un italiano che seppe onorare entrambe le sue patrie, avvalendosi con genialità… e dello ius sanguinis , e dello ius soli. Vorrei infine ringraziare il Caso, per l’incontro con Luigi Ferrari, che mi ha introdotto ai deliziosi misteri dell’impervio mondo dei Florio (impervio per loro, dico, quanto affascinante per noi), e, risalendo il sentiero, per un invito di Daniele Serafini, che determinò quell’incontro.

 

Ravenna, aprile 2024 – gennaio 2025 G.G.

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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