Marie Ndiaye, una scrittura dell’inquietudine
di Ornella Tajani
Se c’è una tonalità caratteristica della scrittura di Marie Ndiaye è forse l’inquietudine. Che si tratti di confrontarsi – confusamente, sempre un po’ magicamente – con la figura della madre in Autoportrait en vert (2015) o di raccontare il padre in Le bon Denis, appena pubblicato in Francia da Mercure de France, per l’autrice, classe 1967, la realtà oggettiva è sempre un concetto relativo, una materia manipolabile: del patto autobiografico Ndiaye fa un uso «ludico e segreto», scriveva Patrick Kéchichian su «Le Monde», sicché la verità si sgretola in mille declinazioni possibili, finendo per disorientare il pubblico che legge, per destabilizzarlo.
Succede anche in La strega, suo romanzo del 1996 di recente edito da Prehistorica nella traduzione di Antonella Conti. All’epoca l’autrice non aveva ancora vinto gli importanti premi che la consacreranno – il Fémina nel 2001, il Goncourt nel 2009 –, ma il suo esordio a diciassette anni per le edizioni Minuit l’aveva imposta all’attenzione generale con Quant au riche avenir.
Il titolo di questo libro ora tradotto in italiano non è metaforico: la narratrice, Lucie, è una donna dotata di poteri sovrannaturali ereditati dalla madre, abilissima maga. Nel giorno in cui le proprie figlie compiono dodici anni, Lucie decide che è tempo di iniziarle alla magia, la cui declinazione privilegiata è la chiaroveggenza. Da quel momento un susseguirsi di eventi trascina la protagonista: il marito la abbandona dopo averle rubato una cospicua somma di denaro che lei aveva appena ricevuto dal padre, padre che a sua volta, poco dopo, reclama quei soldi con urgenza. La madre, intanto, recalcitra all’idea di trascorrere – su richiesta della figlia, che spera in una loro riconciliazione – un week-end con lui, da cui si è separata anni prima: nei confronti dell’uomo prova sentimenti di rancore, che potrebbero scatenarsi, come tiene ad avvisare, in qualche malefico prodigio.
Il titolo, dicevo, non è metaforico, ma è semmai ironico, se non persino antifrastico: la strega in questione è molto poco capace di prevedere ciò che accadrà, non riesce anzi a prevedere nulla. Si tratta di una rivisitazione del classico personaggio fantastico, e in questo Ndiaye anticipa di una quindicina d’anni la fata turchina postmoderna di Joël Pommerat, che nella sua riscrittura di Cenerentola metterà in scena una donna che fuma di continuo, dice parolacce e preferisce fallire in trucchi di magia finti come quelli con le carte da gioco, piuttosto che esercitare il suo vero talento. Se Pommerat usa una variazione comica della figura della fiaba all’interno di una riscrittura costruita intorno al malinteso, Ndiaye lascia meno spazio all’umorismo e pone una strega un po’ inetta, consapevole della propria inettitudine, al centro di una narrazione che si svolge nella Francia di provincia, prendendo spazio in case piccoloborghesi, rappresentando ambienti molto «riconoscibili» nel loro anonimato.
La strega sfugge a ogni rigida interpretazione: sebbene in questo testo la magia sia prerogativa delle donne, non c’è un’analogia con la condizione femminile – come succede, ad esempio, in Medusa di Martine Desjardins (Alter Ego 2021). Le figure di madri e figlie si sovrappongono e confondono, qui e nei vari testi dell’autrice, senza chiudersi in contorni precisi, anzi debordando e sfumando come nelle foto di Julie Ganzin che fanno da contrappunto al già menzionato Autoportrait en vert. Il libro non ha una finale a tema, il cerchio non si chiude: chi è scomparso non ritorna, eppure la vita continua, sullo sfondo di una società neoliberista più percepita che descritta, in cui quasi sembra vincere chi resta anaffettivo.
La costruzione narrativa trascina però chi legge fino alla fine, accattivando nell’originalità dei toni e in quella sensazione diffusa, come si accennava in apertura, di leggera inquietudine. Al tempo stesso incuriosisce scoprire oggi un ripescaggio degli anni ’90: un periodo cioè non abbastanza distante da apparire cronologicamente esotico, eppure così nettamente dietro di noi, in cui le adolescenti non vivono ancora sui social, gli adulti non hanno uno smartphone come appendice esistenziale; in cui, per la donna o l’uomo comune, il senso della vita non è completamente schiacciato sull’io, e forse ricercarlo non è poi così importante.
Intervistata da Francesca Maffioli per il Manifesto, Ndiaye spiega che adesso, vent’anni dopo, non riscriverebbe questa stessa storia, non penserebbe il personaggio di Lucie allo stesso modo: eppure dentro La strega, oltre a sentirsi l’eco di ciò che siamo stati fino a poco tempo fa, si scorgono felicemente le tracce della sua scrittura, della sua mente creativa di oggi, pronta a mettere ogni certezza in discussione, a partire dal proprio sentire. Del resto, «ciò che stavo ricordando non solo non era successo, ma non sarebbe potuto succedere in nessun modo»: così si apre il suo ultimo Le bon Denis, che si spera di vedere presto anche nelle librerie italiane.
Grazie Ornella di segnalare questa edizione italiana di Marie NDiaye con una tua lettura attenta e simpatetica. Personalmente, considero NDiaye la figura più importante della narrativa francese contemporanea, in ogno caso quella che mi sorprende e mi affascina di più. Sono io stesso fresco di lettura del suo ultimo libro “fantasiosamente” autobiografico, “Le bon Denis”. E concordo perfettamente con il potere di “destabilizzare” il lettore di NDiaye. In Italia, sarebbe anche utile una sua più vasta circolazione. NDiaye ha acquistato un’importanza nel campo letterario praticando una sistematica attitudine alla discrezione, in termini di visibilità radiofonica, giornalistica, televisiva. La sua scrittura sfiora persino la preziosità, tanto è lavorata ogni farse, e mai calcata sull’oralità standardizzata di molta narrativa italiana. Eppure quello che inizialmente sembra quasi irritante perseguimento della frase ricercata si svela progressivamente parte di una strategia di incantamento e disorientamento del lettore. Un disorientamento che si realizza grazie a libertà architettoniche, compositive, formali, e che coinvolgono gli stessi codici di genere e i patti autobiografici, quando essi dovrebbero essere previsti. L’inattualità che tu ricordi de “La strega” è probabilmente l’inattualità costitutiva di ogni sua opera, finzionale o no, che sfugge al trattamento di un “tema sociale esplicito”, ma non perché l’autrice voglia porsi a distanza dalle realtà contemporanea, ma perché la percezione della realtà stessa è sistematicamente minata e sovvertitata nella sua scrittura. Tutto cio’ sembrerebbe implicare, dall’osservatorio italiano, una pericolosa propensione ad allontanare il lettore, a sfidare le sue attese sacrosante. E invece NDiaye è un’autrice molto letta, non considerata un “caso letterario” bizzarro, ma semplicemente un esempio di letteratura esigente, ambiziosa, e comunque non tacciata di sospetto elitarismo.
Grazie a te, Andrea, di arricchire e rilanciare, in particolare sull’ambiziosità della sua scrittura – nel senso naturalmente positivo, “produttivo” del termine – e sulla sua capacità di straniare chi legge. Credo che continuerò a lavorarci, magari sull’uso originale, mai didascalico, che fa delle foto nei suoi testi; ne riparleremo.