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Les nouveaux réalistes: Cristina Pasqua

 

Eternate i ricordi | istantanee

di

Cristina Pasqua

 

Al mare

si esce dal bagno

si corre per asciugarsi

si tolgono le merende dai panieri

i piccoli si seppelliscono nella sabbia

Pubblicità Kodak, 1926

 

Addossata alle sue spalle, sbirciavo la pubblicità di un rullino fotografico, mentre lui, mio fratello Corrado, era intento a sfogliare l’albo illustrato di Canio, il figlio di primo letto di nostra madre. Ai tempi, Canio ci pareva parecchio più grande di noi, invece era solo un ragazzo, gli mancavano ancora sette anni per raggiungere la maggiore età. Scuro di capelli, alto e di fisico atletico, avevo un debole per la sua fronte spaziosa, il naso pronunciato, gli zigomi alti, gli occhi bui e la pelle olivastra, tanto che era abbronzato anche d’inverno. Con noi ragazzini era severo, rigido ma giusto, si vedeva che ci voleva bene, anche se eravamo imparentati solo per via della mamma. Il resto della famiglia lo viveva come un innesto mal riuscito, e nostro padre lasciava sempre intuire che poco lo digeriva. La mamma, per compiacere nostro padre, gli dava spesso contro, ma non c’era sera che non gli rimboccasse le coperte e lo baciasse sulla fronte. Era studioso e diligente, non dava problemi, a differenza di Cesare e Corrado, che oltre a far disperare tutti noi, papà non se la finiva mai di sgridare. Corrado, in particolare, nonostante avesse una mente fantasiosa, prendeva tutto alla lettera. Quando mi faceva arrabbiare e gli urlavo dietro che era un salame, in risposta cacciava fuori il Grande libro degli animali e mi spiegava, con il dito a indicare l’illustrazione di un maiale, che il salame da lì veniva e non dagli umani. Io portavo le mani alla bocca e giravo sui tacchi, c’era poco da fare. Certe volte mi tirava i capelli, allora correvo a rifugiarmi sotto le vesti di nonna Silvia, senza mai fare la spia, altrimenti papà a sera gliele avrebbe suonate di santa ragione. Cesare, l’ultimo arrivato, che di anni ne aveva solo tre, era sempre ammalato. Pallido e fragile, la mamma non se la finiva mai di rimpinzarlo di medicine e rimedi. Alla fine, era anche grazie a lui se ci spedivano al mare con la nonna. Il medico sosteneva che lo iodio lo avrebbe tenuto in salvo dai malanni almeno a fino a novembre, ma ogni anno, dopo i primi giorni di scuola, eccolo lì che si ammalava di nuovo, febbre alta, sudori freddi e pezzoline, l’aria ammorbata di aceto tutte le notti. Era una noia mortale anche per noi grandi. Lagnoso com’era, la spuntava sempre, non c’era volta che non ci toccasse portarcelo dietro.

Terital a fiori e golfini odorosi di talco e lavanda, d’estate era nonna Silvia, con l’aiuto di Canio, che badava a noi nella casa al mare. «Li guardi tu?» chiedeva ogni giugno Alida, sua figlia e nostra madre. «In spiaggia, se non hai voglia di scendere, li porta Canio. Allo stabilimento invece ha pensato Fausto». Tutti noi sapevamo bene che la mamma si liberava dall’ufficio solo nella seconda metà di luglio e che non ci avrebbe raggiunto prima del mese di agosto, seguita da nostro padre, ma mai prima del quindici.

Nonna Silvia, morti che erano i fratelli, aveva ereditato la casa di famiglia, la stessa dove noi trascorrevamo le nostre estati. Dopo la sua scomparsa, Canio, inaspettatamente suo unico erede, l’ha mandata in malora, o almeno così mi hanno riferito. Un paio d’anni fa l’hanno demolita e, dopo che il mio fratellastro ha svenduto il terreno per due spiccioli, recuperata la cubatura, ci hanno tirato su altro. Al suo posto, ora c’è un casermone azzurro, suddiviso come un residence in piccole unità immobiliari e, con la buona stagione, le affittano a prezzi modici. Un giorno ho perfino chiamato fingendo di prenotare, ho aspettato che la signorina mi dicesse il prezzo e ho messo giù. Ci aveva guadagnato meno di niente, Canio, per via dell’ipoteca che si portava dietro e, una volta venduta, squinternato com’era, si era ritirato a Pilera, in montagna, nella catapecchia di suo padre.

La casa, un tempo bianca, si era ammalorata d’inedia. Se l’era mangiata la salsedine e l’incuria. L’intonaco in alcuni punti era crepato per far largo al grigio sottostante. Canio, che già allora studiava la storia dell’arte, mi diceva che era di sapore neoclassico, per via della terrazza con pilastri in fila come soldatini e dei pochi fregi rimasti sulla facciata. Poco m’importava che sapore avesse, a me garbava la voce del mio fratellastro, il suono delle parole, anche se allora sapeva di niente. Sebbene fatiscente, la casa, che non distava poi molto dallo stabilimento, si trovava in una via traversa di palazzine rade e villini anni Venti, immersa nel verde luminoso dei tigli e delle tamerici in fiore. Era un luogo incantato, per noi piccoli una continua scoperta. Alla fine della scuola, quando ci si trasferiva lì, ancora accaldati di treno, io e Corrado ci ritrovavamo con gli occhi sgranati e lo stupore ad allignarci i denti, immersi nel miracolo del pulviscolo danzante nella penombra della controra. Intanto la nonna e Canio facevano volare lenzuola fantasma che coprivano poltrone e divani per proteggerli dall’inverno. Riaperta la casa, ci meritavamo una coppa alla vaniglia con panna, fragole e cialda, che consumavamo in silenzio, sporcandoci il naso, seduti nel giardino ombroso della pasticceria Reverberi, oppure giù, al chiosco in fondo in fondo alla via, dove i gusti erano strani, malaga e maracuja, e lo servivano con il cono, oltre all’immancabile cialda a decorare. Da quel punto, se allungavi lo sguardo e puntavi lontano, vedevi il faro. La nonna, quando era ancora in sé, vagheggiava di galeoni e marinai, di tesori sommersi, alghe e pesci corallo. A ridosso della strada, la staccionata correva lungomare, più avanti crescevano le siepi di ligustro e i gigli di mare spuntavano in disordine dalla sabbia. L’acqua era poco oltre, sul lato sinistro c’era una fila di cabine, a destra la doccia a un soldo e il bagno del Bordiga. Lo stabilimento Helvetia era un edificio di legno, pulito e curato. Alle sei del pomeriggio, per regola, bisognava recuperare le proprie cose e allontanarsi dalla spiaggia per dar corso alle operazioni di pulizia di cui si occupava Manlio, il figlio del proprietario, e l’Olindo, il fratello scemo. Sul bancone, di fianco alla cassa, certe mattine spuntavano cartoni con tranci di pizza rossa e focaccia, calzoni ripieni di mozzarella filante e ciambelle fritte profumate di limone. Per il resto, si serviva solo acqua di rubinetto. Ogni volta ci dicevano che con la prossima stagione avrebbero ottenuto la licenza per la somministrazione delle bibite, ma andava a finire che ogni anno era il successivo. Per bere una spuma si andava da un’altra parte, ma Canio ci dava il permesso solo al sabato, e meglio se c’era la mamma. Era convinto che ci agitasse fino a provocare le convulsioni, diceva che io ero ancora troppo piccola e stessa cosa, a maggior ragione, valeva per Cesare che lo era più di me. «Per voi, acqua liscia» diceva serio, in quel ruolo che interpretava, ma che in fondo non era il suo. Uguale se uno di noi due s’azzardava a chiedere una granatina con lo sciroppo d’amarena o una fetta di cocomero. «Non si digerisce. Poi non vi lamentate se non vi è permesso fare il bagno. Non avete ancora capito come funziona?»

«Cocco bello coccoooo» strillava Oreste a ripetizione. Sudato e annerito come un tizzo, si trascinava dietro un secchio azzurro. La lingua rinsecchita per la caligine rincorreva i passi e il fiato corto, con la saliva che per poco non gli andava di traverso e s’impuntava sulle doppie rischiando di fargli mozzare la testa alla parola successiva. Mi capitava di pensare che lo facesse apposta, per attirare l’attenzione e la voglia di rinfrescarci con la polpa bianca che si faceva largo tra le foglie di fico. Avanti e indietro sul bagnasciuga, tirava su due spiccioli per fare la giornata, e a noi, tutte le volte che ci passava davanti, veniva l’acquolina in bocca, ma la nonna non era mai dell’avviso.

«Sporcizia. Non vorrete rischiare di beccarvi un’infezione, no? Poi chi la sente vostra madre».

L’estate per noi era bagni di sole e salsedine, il mare calmo e tirato, uguale al mio letto al mattino dopo che era passata la nonna a rigovernare, trasparente come l’acqua della vasca con i piedini del bagno grande del secondo piano, cangiante come la sovraccoperta celeste sul letto matrimoniale della mamma. Ogni tanto sgattaiolavo via dalla mia stanza e, approfittando dell’ora sesta, quando Canio studiava e i miei fratelli s’appisolavano o s’accapigliavano per le figurine, mi rifugiavo lì, nella camera della mamma, di nascosto da tutti. C’era il suo odore, e io, a pancia in sotto sul lettone, tiravo su col naso per respirarlo tutto, gli occhi al comodino, all’abatjour con il cappello rosa, alla madonnina piena di acqua benedetta che le aveva portato in regalo una vicina al ritorno da un viaggio a Lourdes, cerulea pure quella, allo scrigno portagioie. Cesare, l’anno prima, mentre ero lì, aveva aperto piano la porta ed era saltato sul letto. «Fai piano, sciocco! Vuoi scombinare tutto?» Alla fine, gli avevo permesso di sdraiarsi vicino a me, ma mentre ero distratta a pettinare la mia bambola preferita, quello scimunito si era bevuto tutta l’acqua della madonnina. Mi ero infuriata, avevo alzato la voce, l’avevo sgridato e lui si era messo a frignare. Per fortuna, in camera della mamma c’era il bagno, così avevo rimediato al guaio, avevo aperto il rubinetto e l’avevo riempita di nuovo fino all’orlo, così era tornata tale e quale a prima. «Vedi che è tutto a posto?» avevo detto per provare a consolarlo, ma lui niente, non voleva saperne di smettere di piagnucolare.

Allo stabilimento, arrivato che era mezzogiorno, nonna Silvia faceva ancora un paio di giri con l’uncinetto, prima di far sparire il lavoro a maglia nella borsa. A vederlo così, srotolato sulle sue ginocchia puntute, faceva pensare a un centrotavola a catenelle e ventaglietti. Avorio, il filo di cotone sottile sottile, ogni anno era sempre lo stesso. A quel punto lanciava un’occhiata a Canio, si alzava puntando le mani sui braccioli della sdraio e, a fatica, con il nipote che la sosteneva, trascinava i passi sulla sabbia per raggiungere il camminamento. Lì, recuperata l’andatura, sulle assi appianate una all’altra, procedeva pian pianino fino all’uscita dell’Helvetia, e poi in strada. Delle volte capitava che noi si restasse lì, con Canio che tornava indietro per farci la guardia. Quando ci era permesso, era festa grande, si correva in acqua a schizzarci, si giocava a palla e con paletta, secchiello e formine si costruivano castelli e fossati sul bagnasciuga.

Nostro padre anche quell’anno non era partito con noi, era stato trattenuto in città per lavoro o almeno era quanto era stato comunicato a noi figli. «Gli affari non si fermano» ci aveva tenuto a dire serio, mentre aiutava nonna Silvia a caricare le valige sul treno. A me quella volta andò di lusso, mi salutò con un buffetto mentre con i maschi si limitò a una fredda stretta di mano. «Fate i bravi» disse ai miei fratelli, guardando sbieco Canio. Anche se non era suo figlio, cosa che non mancava mai di ricordargli, non se la finiva mai di raccomandarsi. Dal finestrino, lo vidi camminare veloce lungo la banchina e mi salì il magone. La mamma, che aspettava sempre che il treno si muovesse, quel giorno aveva la faccia stanca, ma forse era solo il vetro sporco a farmela vedere così. Quando la nonna tirò giù il finestrino, si rianimò subito e iniziò a impartire ordini ai fratelli maggiori e, alla fine, come ogni volta prima di lasciarci, salì su anche lei. Lo scompartimento era tutto per noi, l’aveva prenotato nostro padre, era sempre lui a occuparsi delle cose pratiche. Nonna Silvia si accomodò sul sedile vicino alla porta e tirò subito fuori una rivista di quelle che piacevano a lei, con i fotoromanzi, le notizie di attualità e i pettegolezzi sulle stelle del cinema, sugli attori del piccolo schermo e i cantanti famosi. A me, di nascosto, permetteva di leggere l’oroscopo e le pubblicità in fondo, ma prima mi faceva promettere di non dirlo alla mamma. Nelle ultime pagine trovavi gli occhiali a raggi X, degli strani attrezzi per far venire i muscoli e le Scimmie di mare, certi animalini buffi che nuotavano allegri in una boccia per pesci. Quella mattina, io e Cesare bisticciammo per il posto vicino al finestrino. Finì presto, perché quelli erano i posti loro, di Canio e Corrado. La mamma ci zittì con uno sguardo, ci soffiò quattro baci e scese dal treno. Canio prese in braccio Cesare, così che si potesse affacciare per bene. A vederla da lì, la mamma pareva striminzita, come sperduta, capitata per caso, chissà per quale accidente. La messa in piega era nascosta sotto il foulard, un fiore appassito con gli steli annodati sotto il mento. Teneva gli occhi bassi come se cercasse qualcosa ai suoi piedi. Nostro padre, che nel frattempo era tornato indietro, la prese sottobraccio con malagrazia e se la portò via. Intanto il treno prese a sferragliare e sbuffare, e io e Cesare alzammo la mano in segno di saluto, anche se loro erano già rimpiccioliti e di spalle. Nonna assestò il gomitolo nella borsa, aggiustò la portata del filo, afferrò il lavoro e infilò l’uncinetto nella prima maglia utile. Come per lei, anche per noi il tempo passava veloce, si guardava oltre vetro, si contavano certe volte gli alberi, altre i filari o i piloni della luce, finché non ci inghiottiva il buio delle gallerie che si fingeva notte fonda. Certe volte, io e Cesare, uscivamo in corridoio, tiravamo giù gli strapuntini e ci sedevamo lì, non erano neanche tanto distanti uno dall’altro, si poteva chiacchierare, il naso puntato su tutto quello che ci scorreva davanti. Poi, Cesare tirava fuori dalla tasca quello che restava di una tavoletta di cioccolata al latte, di cui era ghiotto, e si faceva a metà. «Meglio che niente» diceva, e io pensavo che aveva ragione.

 

«Alida vieni o no?» lamentò quel giorno la nonna, accalorata dal solleone. Mia madre s’assestò la tesa del cappello, recuperò la borsa da mare, ci salutò breve e s’incamminò tenendola sottobraccio. Canio, con indosso i pantaloncini di nylon, indossò la maglietta a righe, spolverò via veloce la sabbia da sotto i piedi, s’infilò i sandali e, recuperato l’asciugamano steso ad asciugare su uno dei raggi dell’ombrellone, s’accodò alle donne. «Vero, Corrado, che riesci a cavartela?» disse, con gli occhi a mio fratello. Sembrò più uno sprone che altro. Difatti, Corrado, che ormai di anni ne aveva undici, s’inorgoglì e, gonfio di petto, rispose: «E me lo domandi?» disse, e di contro mise su un’arietta spavalda e scosse la testa. Era la prima volta che ci lasciavano in spiaggia da soli, la prima volta che Canio si tirava indietro, come a dire che era finito il tempo di far la guardia. La mamma ebbe un attimo di tentennamento, ma fu solo il tempo di un baluginio negli occhi, un’esitazione momentanea che la spinse a stringersi nelle spalle per poi proseguire. Erano da un pezzo passate le cinque ma nessuno sembrava interessato a noi, né si azzardò a cacciarci. Manlio era partito dall’altro capo della spiaggia, seguito dall’Olindo che, mentre quello chiudeva ombrelloni, sdraio e lettini, appianava la sabbia con un enorme rastrello. A quel punto Corrado disse che gli era venuta una mezza idea, disse che era stato l’albo di Canio a inculcargliela in testa. Sarà divertente per tutti, aggiunse anche se a noi aveva già convinto. Io e Cesare, seguendo il filo dei suoi pensieri e dei suoi passi, abbandonammo lo stabilimento diretti al tratto di spiaggia libera.

Camminammo parecchio prima di fermarci. Cesare raccolse un osso di seppia e lo strinse tra i denti come un canarino, aveva i talloni neri di catrame, ma non gli dissi nulla, convinta che se ne sarebbe occupata la mamma una volta a casa, l’avrebbe fatto sedere sul bordo della vasca e glieli avrebbe puliti a dovere con l’olio. In quel tratto non c’erano scogli, il bagno si faceva facile, c’erano anche meno alghe. Sfastidiava entrare e uscire dall’acqua con quelle viscide che ti si appiccicavano addosso, ondeggiavano e ti leccavano i polpacci o s’aggrappavano impertinenti alle caviglie. Sulla spiaggia non c’era più l’anima di nessuno. Di mio, faticai parecchio, visto che mi toccò incollarmi per tutto il tempo la rete con le palette, i secchielli e i giochi. Mancavano due giorni al nostro ritorno, per questo Corrado si era portato dietro, di nascosto dalla mamma, la Polaroid, ricevuta due giorni prima dalla nonna per il suo compleanno. Voleva scattare le sue prime fotografie, erano istantanee non c’era mica bisogno di sviluppare la pellicola. Prendevano colore appena s’impressionavano con la luce, ed ecco che appariva l’immagine. La prima volta che vidi una di quelle fotografie, devo dire che m’impressionai pure io, perché prima non c’ero e poi ero lì, con il mare alle spalle e ogni cosa. Dopo aver steso gli asciugamani, ci eravamo buttati in acqua. Una volta fuori, ci eravamo messi a correre per asciugarci all’ultimo sole, anche se l’ombra continuava impertinente a inseguirci, e Cesare a fare i soliti dispetti. A un certo punto, Corrado se ne uscì con una frase degna di Canio: «È giunta l’ora di eternare i nostri ricordi». Con voce impostata, che non pareva manco la sua, prese a recitare la pubblicità del rullino Kodak che al mattino avevo sbirciato sull’albo illustrato di Canio. «Al mare si esce dal bagno | si corre per asciugarsi | si tolgono le merende dai panieri |i piccoli si seppelliscono nella sabbia». Finito di declamare, ci promise pure che al ritorno ci saremmo fermati al chiosco per rinfrescarci con una granatina e riempire i nostri panieri, proprio come annunciava la pubblicità. «I piccoli si seppelliscono nella sabbia» ci tenne a rimarcare, e sorrise, con gli occhi bassi ai granelli dorati, neanche si fosse messo in testa di contarli a uno a uno.

Mancava poco al tramonto, quando finimmo di seppellire Cesare. Io e Corrado scalciammo le ultime pedate di sabbia. A dire la verità, io feci ben poco, incontrai parecchie difficoltà a scavare, per via della piccola paletta di plastica rossa. A occuparsi di tutto fu Corrado. «Fermiamoci, guarda che luce» disse a un certo punto estasiato, una volta finito il lavoro. Allora tirò fuori dallo zaino la Polaroid, scelse con cura l’inquadratura, si piegò sulle ginocchia e scattò un paio di fotografie. Di mio fratello interrato spuntava ormai soltanto il naso, le fessure strette degli occhi e parte della bocca, ancora mezza fuori, all’aria. Nel tempo di uno scatto e dello sviluppo, dello scatto successivo e dello sviluppo ancora e di nuovo e di nuovo, non mi facevo ragione, pareva non finire mai. Le immagini non volevano prendere corpo, sbiadivano invece di apparire, erano sfuggenti. E intanto che noi si aspettava, mentre i colori s’addensavano e i contorni si facevano spessi, Cesare moriva. Sciagura volle che quella fu l’ultima estate spensierata. Dall’anno successivo, a me e a Corrado ci spedirono in colonia, perché la nonna era andata di testa l’inverno seguente. Canio finì in collegio, una specie di punizione, manco fosse stata colpa sua.

Adesso che ho superato i cinquanta, in vacanza vado da sola, sempre nello stesso posto, in una pensione lontana dal centro abitato. La spiaggia è privata, si raggiunge dall’interno della struttura, vi si accede dalla terrazza panoramica. In fondo, sulla sinistra, c’è la scesa al mare, una scala di porfido e una rampa asfaltata che le corre di lato, per facilitare i poco avvezzi alle asperità dei gradoni. È frequentata dagli sparuti ospiti della pensione Miramare, perlopiù di una certa età, perlopiù stranieri. Ai giardinetti, capita che suoni un complessino all’imbrunire, certe sere si balla. Se non si ha voglia di battere i tacchi, ci si siede al fresco, c’è il servizio al tavolo, l’aria che tira è discreta, come pure gli avventori. Prima di proseguire oltre, è meglio che si sappia che, da allora, certe notti c’è qualcuno che mi tira le coperte. Aspetta che mi addormenti, che prenda sonno, e si siede in pizzo al letto. Nel dormiveglia, me ne accorgo per il peso, per il materasso che s’affossa e incurva, so che c’è, anche se non lo vedo. Me ne accorgo dall’odore che si porta dietro, anche se negli anni è cambiato, si è inspessito, s’è fatto più aspro e invadente, tanto che al mattino me ne ricordo ancora. Stanotte è tornato a farmi visita, l’ho sentito arrivare come un’onda, i passi che scricchiolavano sinistri fino alla sponda del letto. «Giochiamo?» ha detto a un certo punto con una voce piccola, o almeno così mi è parso di capire. Per lo spavento, il cuore ha preso a battermi forte. Allora, ho allungato la mano e ho acceso l’abatjour, ma a parte me, non c’era nessuno. Un sorso alla volta, ho bevuto il bicchier d’acqua, che avevo lasciato come ogni sera sul comodino, e sono tornata a dormire, con il copriletto tirato su, fino al mento. Al mio risveglio, quando ho capito che si era fatto giorno, ho poggiato i piedi a terra. Ho provato un fastidio immediato, una specie di curioso formicolio, come se le piastrelle fossero ricoperte di briciole. Dal chiarore che si faceva largo attraverso le tende, ho visto che il pavimento era opaco, offuscato da un velo sottile, e ho capito che era sabbia.

 

Il corpo di mio fratello Cesare non fu mai ritrovato.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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