La chiamata
di Gianluca Veltri
Leila Guerriero, La chiamata, SUR, pp. 453, trad. Maria Nicola
La complessità.
La cogliamo, la complessità, quando ci riusciamo, nelle intricate storie di casa nostra, per esempio cercando di raccontare ai nostri figli gli anni Settanta italiani, o studiando la guerra fredda, o la crisi in Medio Oriente.
Ma quando si tratta di riesumare la nerissima vicenda della desaparición argentina, fino a ora i racconti si sono spesso fermati su una visione appiattita, bidimensionale. Effettivamente c’era poco da problematizzare: la brutale dittatura militare, la “guerra sucia”, il terrorismo di stato, la detenzione in settecento campi clandestini degli oppositori. Non c’è mai stato alcunché da eccepire su questo: è stata una guerra sudicia, condotta da chi s’è preso il potere con la forza brutale e lo ha esercitato in modo scandalosamente vigliacco, negando alle famiglie persino il diritto di piangere i loro cari, sapendoli almeno morti. Ecco perché siamo abituati da decenni a racconti, romanzi, saggi, film e canzoni che narrano quelle vicende senza complessità, dalla parte, persino ovvia, di chi ha sofferto quel giogo, delle vittime sopravvissute e di quelle che non ce l’hanno fatta.
Gli oppositori: altra parola chiave.
Perché, nel disegno folle di sterminio a 360 gradi, Videla e i suoi accoliti inclusero nel calderone degli oppositori migliaia di cittadini: non soltanto chi era entrato in clandestinità in Montoneros e combatteva con ogni mezzo un potere ingiusto e usurpato, ma anche studenti finiti in una manifestazione o in una normalissima assemblea, magari quella sola volta; parenti prossimi e lontani; sindacalisti e operai; tiepidi simpatizzanti; vicini di casa. Bisognava estirpare con ogni mezzo, certi d’essere impuniti, il possibile germe della ribellione e del comunismo, utilizzare la delazione attraverso il terrore e la tortura, con il benestare di chi colpevolmente non si oppose, equivocando come apparente pace sociale una silente carneficina, dopo anni di tensione e disordini. E poi, la viltà di negare. Rastrellare, rapire, torturare e uccidere. E negare di averlo fatto.
È sempre mancato lo sguardo della tridimensionalità, a questa narrazione.
Il libro di Leila Guerriero, La chiamata, dedicato a una sopravvissuta di quella stagione, Silvia Labayru, restituisce alle vicende questa complessità, quella visione a più sfaccettature capace di assegnare una prismatica problematicità agli eventi. Le opere su quel periodo argentino raramente ci avevano proposto una simile stratificazione: pensiamo alle possibili eccezioni a “Ricordo della morte” di Miguel Bonasso, o a “La fine della storia” di Liliana Heker. E sia chiaro, ancora una volta: si ribadisce questo non certo per mescolare colpe e riscrivere la storia, perché su questa costruzione un mattone è stato messo per sempre: ci furono dei carnefici e ci furono delle vittime.
Molto tempo fa, a Buenos Aires, una sera, in una festa organizzata da un circolo di italiani argentinizzati da decenni, alla quale ero stato invitato, uno dei padroni di casa, un attempato signore baffuto che aveva vissuto quegli anni e che mi pareva un brav’uomo, alle mie caute domande alzò le spalle e strinse le labbra: “Era una guerra, da una parte e dall’altra”. Come a dire: in guerra tutto è lecito, nessuno ha colpa. Mi parve una strisciante giustificazione dell’orrore di regime, un’equiparazione irricevibile. Il mio ospite non sembrava un fascistone, anche se lì per lì, istintivamente, dopo le sue parole lo bollai così, tra me e me. Non mi andò di approfondire ulteriormente. Mi restò però dentro un gusto amaro, mi sentii come un ragazzetto infatuato che, malgrado documentato, non sa niente delle cose del mondo. Che cosa potevo capire, veramente, di quella tragedia accaduta a più di diecimila chilometri diversi decenni prima?
Poi scoprii con enorme rammarico che, per buona parte dell’opinione pubblica argentina, il punto di vista che mi era stato fornito quella sera a Buenos Aires non era del tutto isolato: la narrazione della dittatura, delle torture, delle detenzioni illegali, dei prigionieri buttati in volo nel Rio de la Plata, dei 30.000 desaparecidos, così pacifica nel resto del mondo, laggiù era univoca e accettata fino a un certo punto.

Passata l’onda del “Nunca más”, di Ernesto Sábato e delle Abuelas de Plaza de Mayo, un revisionismo sempre meno sotterraneo ha portato fino all’elezione dell’attuale capo del governo Javier Milei. E qual è la versione del presidente con la motosega? “C’era una guerra”. Tutt’al più un eccesso di difesa da parte della junta, ma almeno hanno riportato l’ordine. La vicepresidente Victoria Villarruel, che ha difeso come avvocata ex militari, ritiene che il Museo della Memoria, nella sede della famigerata ESMA, è “uno spreco di spazio”. È proprio alla ESMA, in Avenida del Libertador, che fu detenuta Silvia Labayru, la protagonista del libro “La chiamata”. La giornalista Leila Guerriero lo ha composto, un po’ à là Carrére, in uno stile ch’è un punto d’incontro tra dialogo, non-fiction, indagine, diario, inchiesta, giornalismo narrativo, romanzo-verità.
Oggi Silvia Labayru dice: “O accetti la narrazione della libertà, della giustizia, della denuncia, dei compagni desaparecidos, del culto del morto, senza la minima riflessione su quello che sono stati quegli anni, oppure niente. Come se non si potesse sostenere una posizione relativa ai diritti umani criticando la violenza degli anni Settanta”. Ventenne, montonera, incinta, la detenzione di Labayru fu sui generis: dopo aver partorito su un tavolo della ESMA, sua figlia non divenne un dono per coppie vicine al regime, com’era uso in quegli anni, ma fu consegnata ai nonni. Non fu l’unica stranezza nel trattamento riservato a Silvia Labayru. Forse perché di magnetica avvenenza, forse perché figlia di una famiglia militare, Silvia fu scelta per un percorso di “riabilitazione”. Doveva dimostrare di aver abiurato a Montoneros. Le toccò di accompagnare i suoi stessi aguzzini a cene e ricevimenti, sotto mentite spoglie. L’ufficiale Alfredo Astiz, grazie a lei, spacciandola per sua sorella, riuscì a infiltrarsi in gruppi avversi al regime. A causa di quella missione, furono fatte scomparire dodici persone, tra le quali due suore e alcune madri di Plaza de Mayo. Aveva scelta, Silvia? Poteva dire no? Fu anche ripetutamente oggetto di violenze sessuali da un altro dei militari che comandavano alla ESMA, Alberto González, che la portava a casa sua per giochi erotici a tre con la moglie. Poteva sottrarsi? Sarà poi la prima donna che, nei processi al regime, denunciò di aver subito violenza sessuale, che non veniva proprio considerata tra le accuse possibili, era un tutt’uno con la tortura.
Una volta fuori dall’ESMA – perché dopo un anno e mezzo venne liberata a sorpresa e riparò a lungo in Spagna – Silvia Labayru fu ostracizzata, marchiata d’infamia e messa all’indice da una grande parte dei suoi vecchi compagni della galassia montonera; oggetto di riprovazione perché considerata complice del regime che loro avevano combattuto. Per aver collaborato con i suoi – con i loro – aguzzini. Colpevole di essere sopravvissuta a quell’inferno, dal quale non uscivi viva, si diceva, a meno che non ti fossi resa connivente.
Nel mattatoio, essere sopravvissuti equivaleva a essere un traditore.
Lei con alcuni dei vecchi compagni ancora oggi, cinquant’anni dopo, intrattiene rapporti di affetto; con molti altri no. Uno dei suoi amici più stretti è rimasto Dani Yuko, militante marxista, uno dei più importanti fotografi argentini, tornato a Buenos Aires dopo l’esilio negli anni della dittatura. Yuko oggi dice: “Noi sbagliavamo riguardo alla diagnosi dei problemi della società argentina e riguardo alle soluzioni. Non giustifico la repressione, non giustifico la sparizione forzata delle persone, la tortura, però noi sbagliavamo. Mi sento molto autocritico”.
Non è così frequente l’incrinatura, il ripensamento, la critica all’interno del movimento, la lucidità nella lettura di eventi che sono sfociati in un mattatoio. Sorprende la totale assenza di vittimismo e di autoindulgenza.
“Non ero in linea con Montoneros, ero molto critica”, dice oggi Silvia Labayru. “Non rientravo nel profilo della vittima che i montoneros in esilio intendevano presentare al mondo”. La sua presa di coscienza prevede, anche da parte sua, una revisione e un’assunzione di colpa su posizioni e metodi adottati all’epoca da chi scelse la clandestinità per combattere quel potere orrendo.
Il libro di Guerrero, scritto e rimontato dopo mesi di incontri e colloqui con Silvia Labayru e molti altri protagonisti di quei tempi, senza alcuna indulgenza, anzi ricco di sfumature e punti di vista, lascia al lettore molte riflessioni e domande, e soprattutto per questo è un libro che merita di essere letto. Offre prospettive inedite su quel pezzo di storia argentina: è come se ci facesse affacciare da un’altra finestra, dalla quale si possono osservare più particolari, e allarga il cono su importanti parole-chiave, che abbiamo incontrato fin qui: complessità, tridimensionalità, opposizione, lettura del passato e interpretazione della storia. Lo fa senza la pretesa delle risposte facili, senza manicheismi.
Pur ben sapendo da quale lato stava la parte sudicia.
