Il fabbro di Ortigia
di Giuseppe Raudino
Il brano che segue è l’incipit di Il fabbro di Ortigia, romanzo di Giuseppe Raudino pubblicato da Bibliotheka Edizioni (2024)

Da libeccio, Ortigia mi appare come una femmina di pietra nuda, accosciata sul fianco dritto in posizione fetale, il dorso a levante, il profilo che si specchia nel porto grande, i capelli umidi che sventolano nel tremolio sciroccoso del porto Lachio.
C’è un punto preciso nel cielo, non troppo alto, cinquecento metri all’incirca, un punto preciso tra gli scogli di Castelluccio e la fortezza del Maniace, più o meno sospeso a mezz’aria sull’arco mediano che attraversa l’imboccatura del porto, dal quale è stata scattata la foto riprodotta sulla cartolina che ora tengo in mano. Deve essere stata presa da un velivolo leggero, come uno degli idrovolanti IMAM che avevamo a bordo dell’incrociatore.
Le cartoline, allora, servivano a rassicurare la famiglia. Le spedivo a casa da ogni porto in cui attraccavamo. Una cartolina con l’indirizzo di Siracusa ma senza testo, senza saluti, senza firma. Se avessi scritto dove mi trovavo avrei rivelato informazioni militari, rischiando la corte marziale. Il nemico stava lì ad ascoltare e avrebbe potuto approfittarne. Così ci dicevano: di stare attenti a ogni piccola informazione, anche insignificante, che potevamo rivelare inavvertitamente e che poteva costarci la pelle. Allora bastava una cartolina in bianco, tanto mia madre sapeva che ero io a spedirla, e da ciò capiva che stavo bene, che ero vivo e dove mi trovavo. Pescara, Napoli, Trieste: il timbro postale o l’illustrazione dicevano tutto.
Mia madre era apprensiva. Le volevo molto bene. Mio padre non aveva mai dato l’impressione di essere preoccupato. Non si preoccupava mai di niente, lui, e così doveva essere anche nei miei riguardi. Mi sapeva imbarcato nella Regia Marina e quello già era un privilegio, rispetto alla truppa, alla fanteria dagli scarponi sgualciti e dai moschetti che si inceppavano e puzzavano di rancio. Mia madre no, lei era sempre in pensiero. Io ero il suo preferito, il figlio più piccolo, quello che aveva desiderato a lungo dopo tante sorelle e qualche monello pestifero. Mi aveva desiderato diverso. Un po’ più chiaro di capelli e carnagione, e con gli occhi azzurri. Avrei dovuto somigliare, nei suoi desideri, a un bambolotto che teneva in soggiorno, riposto con grazia sempre sulla stessa poltrona. Un bambolotto dagli occhi di vetro azzurri, anzi celesti. Quando nacqui, mio padre quasi la rimproverò. Aveva un tono burbero, come sempre, e le disse che l’aver fissato troppo a lungo quel bambolotto tanto strano aveva influenzato il mio aspetto al pari di una magherìa. Ero venuto fuori io, con gli occhi celesti e i capelli biondi, come ci si aspetterebbe da un siciliano che nel sangue, a distanza di ottocento anni, ha ancora qualche traccia ereditata dai Normanni. Ma forse poteva trattarsi anche di qualche gene degli Svevi, ché in Germania non sono certo in pochi ad avere i capelli biondi.
La fortezza che protegge l’ingresso del porto siracusano è del periodo svevo. Me lo raccontò un mio professore, alla scuola d’arte. La fece diventare così come appare oggi l’imperatore Federico II. Dove ti giri giri, ci diceva quel professore, in Ortigia vedi svevi, normanni, angioini, aragonesi, greci, romani, arabi e borboni. In ordine sparso.
Io da bambino non ho mai capito le differenze architettoniche, e neanche ora ci faccio troppo caso. Per me Ortigia è lo scoglio che racchiude tutte queste diversità in modo misterioso, lo scoglio in cui sono nato nel 1921 e dove ho giocato ininterrottamente tutti i pomeriggi nei rioni della Spidduta e della Masciarò.
***
Un giorno ero seduto sul gradone d’ingresso della bottega di mio padre. I Currò erano fabbri ferrai. Anch’io lo sarei diventato, anni dopo, ma quel giorno ero ancora molto piccolo. Forse non avevo nemmeno due anni. Sentivo il martello battere ritmicamente contro qualche lastra poggiata sull’incudine e, negli intervalli, il mantice soffiare contro i tizzoni ardenti per alimentare la fucina. Mia madre si era allontanata per delle compere. Perché riuscisse a fare più in fretta e a portarsi più borse, mi aveva lasciato da mio padre, che mi aveva ordinato di giocare per strada. Forse temeva che un bambino così piccolo potesse ferirsi facilmente tra arnesi incandescenti e acuminati; o forse era solo infastidito nel vedermi gironzolare per la bottega mentre lui e i suoi fratelli stavano lavorando.
Con la fronte sudata e la faccia appena annerita, mi aveva guardato severo. «Tu vai fuori», mi aveva intimato, ma non ti muovere da quella porta, aveva aggiunto indicando l’ingresso. Nella mia vita gli avrei disobbedito qualche volta, in certe occasioni anche con spiccata veemenza, come quel giorno che gli comunicai di volermi arruolare, ma in genere sapevo che era un uomo brusco al quale conveniva ubbidire. Lo avevo capito anche in tenerissima età e quel giorno io mi misi buono buono davanti alla bottega senza muovermi di un passo.
Quando mia madre tornò dal mercato, chiese conto della mia assenza. Mio padre, meravigliato, esplorò ogni angolo della bottega, pensando che fossi entrato senza essere notato. Poi si tolse il grembiule e girò tutti i cortili, tutti i ronchi e tutte le vie limitrofe alla bottega. Chiedeva in giro ma nessuno mi aveva visto. Tutti erano presi ad ascoltare la radio, che parlava di grandi fermenti a Napoli, dove Mussolini, da protagonista sul palco, aveva rilasciato dichiarazioni pesanti: o ci danno il governo o ce lo prendiamo.
La gente, anche nella periferia del Regno – e non esisteva più periferia di Siracusa –, si interrogava sulle sorti del Paese e vociferava delle possibili conseguenze per loro vite, già afflitte da lutti e miseria che la Grande Guerra aveva portato nelle loro famiglie neanche un lustro prima. Mio padre era tornato dal fronte con una rabbia e un disgusto per la guerra, che le parole propagandiste dei fascisti e di d’Annunzio lo mandavano in bestia. Odiava ogni parola di elogio nei riguardi della guerra e del combattimento, perché lui aveva combattuto davvero, obbligato dai regi carabinieri che ti fucilavano alle spalle se provavi a disertare, e che ti facevano fare la stessa fine qualora ti fossi dato latitante e ti avessero trovato e arrestato con l’accusa di renitenza alla leva.
Chi sapeva leggere, raccontava ai propri conoscenti analfabeti come la stampa trattasse l’ascesa dei fasci, e riassumeva le accuse incrociate che fascisti da una parte, e liberali e socialisti dall’altra, si scambiavano con articoli al vetriolo. La tensione si percepiva anche attraverso i resoconti radiofonici che, per quanto addomesticati, lasciavano trasparire la gravità di quello che stava per accadere al Paese. Un cambiamento epocale era alle porte. I siracusani erano tutti intenti a discutere di politica anche se, in concreto, i loro pidocchi sarebbero rimasti attaccati alla stessa miseria, tanto lontana dai centri del potere romani e dai tavoli delle decisioni. Loro discutevano, chi osannando, chi avversando Mussolini, chi bestemmiando grottescamente, chi facendo del sarcasmo sulla minuta statura del re, sia fisica che morale. Potevano permetterselo, potevano chiacchierare con spavalderia e senza ricorrere ai sussurri, perché sapevano che difficilmente le voci della periferia sarebbero state udite da chi aveva il potere di fargliela pagare. O almeno sarebbe stato così per un po’, prima che quelle orecchie indiscrete si fossero intrufolate profondamente nel tessuto sociale di ogni più remoto villaggio, accompagnate dal nerbo di bue e dal nero della camicia.
I siracusani d’Ortigia erano tutti intenti a chiacchierare nei cortili baciati dal sole di fine ottobre e mio padre era intento a cercarmi e non mi trovava.
