Marseille

di Pierfrancesco Trocchi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era quell’ora buona in cui a Marsiglia i suoni si fanno d’acqua e i profumi sono liberi di camminare senza che nessuno li cerchi. La giornata era stata pragmatica, sentimentale e pragmatica, e dalle finestre trapelavano adulti silenzi rivolti al presente appena passato. Non ci si poteva aspettare niente di eccezionale, eppure tutto sembrava più gradevole del consueto. Fuori dal breve boulevard le vie erano pruriginose di frette, progetti in dirittura di compimento o abbandonati, musiche allungate come gettate in mare: un universo in espansione. Dentro, il gioco della vita s’era assestato da un po’.
Soddisfatto dalla propria noia, Philippe giocava a non fare sbordare la propria moresque dal bicchiere. Gettò un ultimo sguardo, inclinato da un tenue sorriso, a un gabbiano impegnato ad abbeverarsi del cloro della piscina, prima di rientrare in casa per leggere Les détectives sauvages. La signora Zora nel corso delle sue pulizie aveva riposto il volume al solito posto nella libreria, anche se sapeva quanto al dottore piacesse il contrasto tra la copertina color tramonto e il divano gris foncé. Philippe prese il libro in mano, lo aprì e si addormentò poco dopo nella sua polo sempre uguale dai tempi del divorzio.

*

Ci sono certi calanchi buoni come torroni, si è come viziati quando li si guarda, è troppa bellezza e si rischia poi di non piacersi più: non si può esserne all’altezza. Strade, stradine e strapiombi sostengono Cassis nel mondo, ci trovi tutto quello che senti nei brevi spazi onirici primo pomeridiani, non rappresentativi del nostro inconscio; quegli spazi melliflui dove non si vive né si è vissuti, si è solo contenuti e il sogno fa tutto lui, Cassis fa tutto lei.
Abitare i vialetti del suo porticciolo è nelle ore dell’apéro questione di equilibrismo, e Charlotte scherzava con il fratello in merito al suo naso.
«Ce l’ha così anche Gérard Depardieu» si difese dolcemente stizzito Romain.
«Non hai nemmeno un quarto del suo fascino, pupazzetto».
Romain era vestito di una camicia azzurra a coste, pantaloni di lino e un vezzoso braccialetto di tessuto donatogli da un amico malgascio. Lo chiamavano “L’allemand”, Romain, per via della sua stazza per nulla marsigliese, impreziosita da bei capelli biondo cenere e da uno sguardo stretto ma vispo: non era mai chiaro se stesse semplicemente osservandoti oppure scandagliando il fondo delle tue intenzioni. Ora sorrideva alla sorella mentre rovistava nella tasca destra alla ricerca di una sigaretta sfusa, ne aveva comprate una manciata a Noailles, un po’ perché costavano meno e un po’ perché gli piaceva riporle nel suo astuccio di latta sottile decorato all’indiana. Fece il gesto di offrire una Gauloises alla sorella, che però era impegnata a contare le barche adagiate a pochi passi da loro, salvo poi perdere il conto al passaggio di ogni ragazzo che non le sembrasse un connazionale.
«Chacha, laisse tomber, ti toccherà sposare un ricco francese» annotò ironicamente Romain.
«Tu pensa alla tua Barbara e ai suoi colpi di testa».
«Speravo in una giovinezza più spensierata».
Charlotte gli prese dolcemente la mano. «Sei bello e tonto, il sogno di ogni donna».
Romain rimase a guardarla mentre la brezza gli sussurrava sonno, e non volle pensare a niente. A breve loro fratello Vincent sarebbe arrivato insieme a Monique, lui con il suo sorriso da saltimbanco e lei sfumata da una malinconia pompeiana, quella di chi è costretto a mostrare la propria bellezza in un tempo dove non vorrebbe risiedere. Temeva, Romain, che Monique fosse la vittima di un piccolo, esuberante, assurdo dio qual era Vincent.
Molte sere Charlotte, rincasata alla villa del padre, aveva incontrato Monique seduta sulla terrasse, in netto, desolato anticipo rispetto al ritorno del fidanzato. Allora nell’attesa non le restava che consolarla, la sua Monique – la sua Monà Lisà, per quella foschia azzurra che le inumidiva i pensieri – e accusava Vincent maledicendo il suo machismo così tremendamente francese. Una volta Charlotte gli aveva detto: «Non sei una donna, non puoi capire quanto soffriamo», e la risposta di Vincent era stata «Appunto, non sono una donna, je m’en bat les couilles. Ma non è colpa mia se Monique piange», sorridendo come un satiro bruciato da una vita di orge. La sorella ne aveva tratto un senso di simpatia e di disgusto, di qualcosa di disturbante e magnetico.
«Quando arrivano quei due?». Charlotte parlò seguendo con il capo il passaggio di un avvenente straniero.
«Staranno litigando, come al solito» aggrottò Romain. «Allora, dimmi, come mi sta questo baffo?».
«Ti sta come un completo di Armani sulla Canebière».
«Temo di avere capito».
«Romain» disse più piano Charlotte avvicinandosi «ti devo dire una cosa».
«Hai fatto una bêtise?».
«No» disse Charlotte lisciandosi le unghie.
«Non vuoi fare l’università?».
«No, figurati».
«Ti sei drogata?».
«Dio mio, che puritano. No, ma non sarebbe un problema».
«E allora?».
«Eh, allora… Papà ha una».
«Una che?».
«Una donna, anche se non ho idea di chi sia».
Romain si impuntò sui piedi, piegando le lunghe leve. «Mi prendi in giro?».
«Non scherzo mai su queste cose, lo sai».
«Come fai a sapere che ha una senza sapere chi sia?».
«Lo so, perché…»
Romain era ancora istupidito nel verde degli occhi di Charlotte quando si sentì pizzicare l’orecchio. Infastidito, si girò a mezzo busto come pronto a scattare in piedi, salvo poi arretrare davanti al viso salmastro di Vincent.
«Vincent, putain…» esclamò Romain abbracciandolo, mentre Monique, come già in preda al pentimento di futuri peccati, si stringeva sullo sfondo in uno scialle nero come il suo vestito.
«Monique, mon trésor» sorrise Charlotte «vieni di fianco a me e lascia perdere questi due disgraziati». Charlotte indossava una canottiera color panna e sottili pantaloni neri, una bandiera abbandonata alle folate incoerenti dell’aria di Cassis. Si sentiva dentro a un periodo della sua vita in cui non aveva nulla da perdere, ed era la prima volta – finita la scuola, il padre le aveva promesso una piccola vacanza, sarebbe partita presto e non aveva idea di dove sarebbe andata. I diciannove anni sono qualcosa di incomprensibile mentre li si vive e ancor più quando li si ripensa; così Charlotte rideva a cuore spianato e basta, vedeva mille possibilità e s’era detta che le avrebbe colte tutte, prese per mano e portate in un posto sicuro.
«Chacha, sei più bella oggi» esordì Monique.
«È colpa del tuo fidanzato. Mi ha regalato questi» disse Charlotte scoprendo le orecchie, ornate da due robusti orecchini dorati.
«Li facesse a me questi regali…».
«Tranquilla, non mi faceva un pensiero da dodici mesi esatti. E solo perché era il mio compleanno».
«Come?» – saltò sulla sedia Monique – «E quando? Che figura!».
«Quando» spiegò Vincent emergendo da uno sbuffo di fumo «hai detto che non volevi più stare con me. Due giorni fa».
«Sei indelicato» lo redarguì Romain.
In quel momento Charlotte notò una figura maschile impegnata in una posa scimmiesca, quasi triviale, a districare il nodo di ormeggio di una piccola imbarcazione, un vero guscio di noce atto a contenere al massimo due individui, anzi al massimo un uomo e una donna, meglio se piccola come lei, o un uomo e un bambino, o una donna e un bambino, o una donna piccola e due bambini molto piccoli – Charlotte si perse nel calcolo come stesse già prospettando un futuro con quell’uomo. Non poteva vederlo chiaramente in viso, eppure era sicura si chiamasse Francesco o Giuseppe, con una barba poseidonica e i capelli raccolti con quell’esattezza disordinata che riesce solo alle genti di mare. Probabilmente non era nemmeno italiano, e probabilmente odorava di zolfo e salsedine, come Caronte; sicuramente, lei non avrebbe mai trovato il coraggio di parlargli. Esaurita questa evasione, Charlotte fece di nuovo il suo ingresso nella conversazione.
«Non fa nulla, Monà Lisà, possiamo festeggiare stasera» disse carezzando le ginocchia di Monique.

*

Quando si risvegliò, le cicale riposavano esauste. Philippe strizzò forte gli occhi, come per dare il ciak alla realtà, e diede un colpo di tosse.
La prima cosa a cui pensò furono i suoi tre figli, Charlotte, Romain e Vincent.
La seconda furono Monique e la sua tristezza.
La terza, che gli mancava e che sarebbe stato meglio smetterla con quella storia di fare l’amore con lei.
Spostò il libro dal petto, accese la televisione e si riaddormentò di nuovo, illuminato dall’estremo colore della luna.

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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